Un collaboratore d’eccezione per questo report: Dino Lupelli, General Director di Music Innovation Hub, è da anni uno dei più grandi conoscitori delle dinamiche d’impresa attorno agli eventi musicali di qualità (e con un senso di “responsabilità sociale”). Nei suoi vagabondaggi estivi sempre attenti, è incappato in un festival che lo ha colpito particolarmente. Ci ha subito contattati: “Vi va se ne scrivo? So che voi siete attenti a queste cose“. Nel dirgli subito di sì, abbiamo guadagnato un report tutto da leggere: una miriade di spunti significativi.
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La prima volta che sento parlare del Cura Festival sono a Bari, in un bar appena fuori da uno degli appuntamenti di Medimex, l’evento promosso da Puglia Sound che da un lato raccoglie gli addetti ai lavori e che dall’altro ormai da qualche edizione propone grandi concerti nelle piazze pugliesi per promuovere il territorio anche attraverso la musica. Un ragazzo conosciuto tra uno spritz ed un gin tonic mi chiede cosa fosse il pass che avevo al collo e mi dice che lui di Medimex non aveva mai sentito parlare. Sorpreso, gli chiedo se almeno sapeva che di li a qualche ora sul lungomare della sua città si sarebbero esibiti i Chemical Brothers. “Certo!” – mi risponde – “…ma non mi interessa più di tanto una band anni ’90 che ho già visto dal vivo da adolescente”.
Ne approfitto allora per indagare sul suo rapporto con la musica e con quella che si annunciava come un’estate storica per il territorio pugliese, con una quantità di festival, rassegne ed eventi che di li a poco avrebbero animato tutta la stagione. “Io aspetto solo il Cura festival!” e mi segnala la pagina Instagram da seguire. Scopro che il Cura festival si sarebbe svolto a Grottaglie, nelle cave di Fantiano, il 18 e 19 agosto. Io in quel paese del tarantino ci sono cresciuto e nelle assolate estati della mia prima giovinezza le cave erano una meta da esplorare con gli amici, quando oltre ad andare in spiaggia al mattino per il resto non c’era granché da fare. Un’ulteriore motivazione per indagare.
Giorno dopo giorno cresceva la mia curiosità perché il festival era praticamente ignoto a quasi tutti i colleghi che ho incrociato sulle spiagge e nei backstage dei diversi festival, tantissimi arrivati da tutta’Italia per amore della Puglia ma anche per non perdersi una straordinaria stagione musicale. La comunicazione del Cura – principalmente in inglese – curata ma non patinata, lasciava intravedere diverse collaborazioni con artisti visivi internazionali in residenza e pian piano svelava la line-up: nessun nome a me noto, anche se ad approfondire i profili dei diversi artisti sono riuscito pian piano a ricostruire il puzzle, ritrovando una scena che avevo visto fiorire – frequentandola molto poco ma apprezzandone tantissimo l’energia – intorno a quella esperienza imprescindibile che è stata Macao insieme a qualche artista internazionale dal curriculum molto interessante.
Il Cura festival cominciava a diventare nella mia testa qualcosa di più definito, era forse una sorta di “rave” legale nell’anno 2022? Qualcosa non tornava con questa sbrigativa analisi socio-culturale.
Intanto, alcuni feedback interessanti nella mia cerchia più ristretta alimentavano la FOMO: “E’ l’unico vero festival interessante quest’estate” affermava forse esagerando un coetaneo protagonista della scena antagonista locale; “E’ fighissimo, ci vanno molti nostri amici”, mi dicevano le mie nipoti e qualche loro amica appena maggiorenni e che io sapessi poco avvezze a certe esperienze musicali. Guidato dai canali social del festival, comincio l’ascolto della line-up, scrollando profili caratterizzati da un’immagine visiva al tempo stesso colorata e cupa, mentre l’ascolto di tracce e mix svela una grande diversità pur nella stessa dimensione semantica.
La lineup è elencata nella democratica forma ad elenco alfabetico e per capire – maledette siano l’ignoranza e la semplificazione – chi sono gli artisti principali devo andarmi a guardare i “numeri”: follower, ascolti su Soundcloud o su Spotify. Alcuni di loro, come Iglooghost e Catnapp hanno milioni di ascolti, la maggior parte poche decine di follower, qualche nome come Piezo, Goedel e Talpah, mi tornano in mente, letti su programmi di rassegne milanesi. E scopro una folta schiera di artisti pugliesi, tutti con pedigree nazionale o internazionale, altro merito – penso – di uno dei pochi eventi che dà spazio agli artisti locali.
Pian piano si svela una rete, un sistema di connessioni artistiche ed umane che mi fa capire per la prima volta che il Cura Festival non metterà in scena una sequenza di artisti in tour e neppure una line-up di emergenti, ma gli esponenti di una vera e propria comunità consapevole di sé stessa e dei propri valori. L’evento è ben organizzato: navette, biglietteria online ed addirittura un warm up “cool” con la web radio del momento mentre la comunicazione online fa salire la curiosità svelando alcuni dettagli della produzione e di un main stage promettente.
Quando finalmente arrivo, il primo giorno, la prima cosa ad impressionarmi sono le Cave di Fantiano: funzionali e incredibilmente belle, come altre cave, ma più “selvagge”, impreziosite da una vegetazione che ha attecchito da decine di anni. Qui un evento musicale si sposa con la natura ed il territorio senza tensioni, una soluzione perfetta per gli eventi open-air che riduce l’impatto acustico e restituisce alla collettività un pò di quello che è stato estratto per sempre da colline e montagne per costruire case e palazzi.
Il Main Stage sfrutta un palco ed una scenografia naturali con un risultato al tempo stesso imponente e romantico, con pochissime strutture e tecnologie invasive ma con un bellissimo lavoro a cura dell’artista ucraino Vitaly Weber in collaborazione con Dolcemale Allevi ispirato al tema portante dell’evento e realizzato on site negli spazi di Cave Contemporary. La scenografia e le luci curate da Francesco Dignitoso, recita il post su IG, trasformano il palco in un monumento all’ansia quotidiana di perdere tutto.
Il secondo palco, anzi sarebbe meglio definirla area, è quello dei “Suoni Assurdi”, curato da Clam.pressure, un collettivo che è anche una label ed un promoter di eventi. I performer sono al centro dell’area che è delimitata da un lato da un soundsytem Cervin Vega, una “creatura sonora” potente ed ancestrale rinata grazie all’amorevole cura degli organizzatori. Tutto intorno stendardi e maschere debolmente illuminati a delimitare un perimetro dove si svolgono performance, live e dj set senza barriere tra artista e pubblico che circonda la consolle come fosse il fuoco di un rito tribale.
Ed in questo scenario, la musica.
Chi scrive non si interessa troppo nel definire i generi o i sotto-generi di musica elettronica che è la protagonista assoluta del festival, ma la dimensione sintetica non è forse mai stata così umana o ancora una volta post-umana, grazie ad un’incredibile varietà di approcci, evidenti elaborazioni mature – innovative se non nuove – di sonorità che sono in giro già da qualche tempo ma che si accendono di nuova vita. Gli artisti sul palco cercano e non impongono un proprio linguaggio, e lo fanno in sintonia con il pubblico. Il risultato è un suono meticcio al tempo stesso potente e raffinato, con aperture romantiche e veri e propri affondi glitch.
Non sono all’altezza, come invece illustri colleghi di questo magazine, di fare resoconti e pagelle delle diverse performance, perché distratto per deformazione professionale da aspetti spesso marginali di un evento, ma il primo giorno rimango colpito dal set di Catnapp, una vera e propria performance lirica e melodica inframmezzata da droni e scariche di beat. Questo, penso, è quanto di più distante capitasse vedere ed ascoltare anche ai “miei” tempi, quando al massimo le voci interagivano sui tappeti sonori come corpi estranei.
Già, il confronto con il passato, con il già vissuto che spesso chiude il dialogo tra vecchie e nuove generazioni, è il limite che c’è bisogno di superare per ritrovare interesse in un movimento che è arrivato a presentare la figura del dj come quella di un cartonato semovente che interpreta il suo ruolo di catalizzatore di un susseguirsi di su le mani e giù le mani a tempo di drop. Sui palchi del Cura si susseguono frasi dritte o spezzate che sembrano arrivare dritte dritte dagli anni che furono, ma che hanno un’energia tutta nuova: perché invece di diventare sequenze logiche e prevedibili sembrano voler destabilizzare l’ascoltatore con improvvisi e pesantissimi cambi di direzione, quasi a mettere alla prova la capacità di ascolto e fruizione ma che nonostante tutto hanno l’inspiegabile effetto di spingerti comunque a ballare praticamente senza sosta.
Interessante, penso, la sintonia di quanto ascolto e vedo con le storie raccontate da Harry Sword nel suo “Alla ricerca dell’oblio sonoro”, edizioni Atlantide, compendio sull’evoluzione dei movimenti musicali ispirati dai droni. I fatti raccontati nel libro sembrano dimostrare come in tempi difficili sono le esperienze musicale di trance a prendere il sopravvento sulle musiche leggerissime che invece dominano le stagioni più felici. Mi viene allora voglia di conoscere meglio chi, dietro le quinte, si “sbatte” senza sosta per far funzionare il tutto come una macchina che va ad una velocità apparente molto superiore rispetto agli elementi oggettivi – budget, partnerships, struttura – che sostengono il festival.
Gianni Gentile, Diego e Camillo Silibello li incontro qualche giorno dopo, ripresi dalle loro fatiche al Cibus di Ceglie Messapica ed ancora una volta ho la sensazione che il Cura – che porta la firma anche di Gianluca Laneve – sia un festival prezioso. La ricerca ossessiva di un’indipendenza economica, politica e creativa, la tensione ancora irrisolta tra passione e professionismo, la rivendicazione di un’ispirazione filosofica come quella di Slavoj Zizek mi fanno capire che il cuore di questo festival batte al ritmo della ricerca di un protagonismo culturale e sociale che ogni nuova generazione dovrebbe rivendicare. Non che al Cura Festival manchino pubblico ed economie a dare un senso – ulteriore – ai loro sforzi, ma la sensazione di aver assistito all’affermazione di un’istanza generazionale è forte, tanto più se si vogliono mettere a confronto una serie di progetti musicali locali che insistono anche troppo sulla valorizzazione in chiave turistica del territorio, che rischia intanto il collasso a furia di trasformare se stesso in una vetrina di “autentiche esperienze” tutte uguali.
Il Cura festival è il risultato di un desiderio di autodeterminazione, più che l’applicazione di un solido modello di business, in questo senso simile a tanti altri progetti che in stadi più o meno avanzati puntellano la stagione estiva in queste latitudini.
Tantissimi format promossi da giovani operatori nati e cresciuti in una Puglia che soprattutto grazie alla visione ed alle risorse messe a disposizione da Nichi Vendola, governatore nel decennio in cui cresceva la notorietà della Puglia come meta turistica, hanno creduto possibile inseguire il sogno di diventare protagonisti di un vero e proprio rinascimento culturale e che oggi andrebbero supportati affiancandone la crescita, mentre si dovranno stabilizzare le realtà più in vista.
Ma attenzione alla sostenibilità di questo modello di sviluppo, che ha già prodotto in altre aree uno sviluppo rapido ed estrattivo. Come ci insegna la polemica dell’estate attorno al Jova Beach, i grandi numeri sono nemici della sostenibilità e molto c’è da fare per rendere organica la crescita del Cura e di tutti gli altri format sul territorio per evitare che l’impatto finale sia a somma negativa. Per fortuna che al Cura, nonostante la imperdonabile presenza di un generatore a diesel ad erogare l’energia in un’area di massimo rispetto ambientale, gli organizzatori ed il pubblico abbiano dimostrato attenzione all’ambiente promuovendo anche un’attività di clean up documentata dalle immancabili stories. Anche questo conta.