Un’intervista ad un producer che esordisce col suo primo EP? Personalmente, visto che noialtri siamo un po’ schizzinosi, non ce la sentiremmo di prenderci il compito di una intervista del genere. Troppe ne abbiamo viste e troppe ne abbiamo fatte, sì; e l’overload numerico di uscite elettroniche in giro un po’ ci infastidisce un po’ ci lascia indifferenti: tendenzialmente non vogliamo occuparcene, quindi. Lo ammettiamo. Per noi, un artista va misurato nel tempo, un artista va misurato sulla durata di uno o due album, non di vinili con due tracce e due remix. Ma se già la Life & Death ha dimostrato, al contrario di molte altre label, di essere molto concentrata nel costruire una linea stilistica riconoscibile ed originale guadagnandosi quindi la nostra attenzione, Tennis alias Manfredi Romano col suo EP “Make It Good” è un esordiente davvero particolare. Parliamo di una delle persone più influenti (come agente e promoter, Daze è cosa sua) nella club culture italiana e non solo italiana; parliamo di un uomo che ha superato i quarant’anni e lavora nel campo della musica da tempo immemore; parliamo di un conoscitore di varie scene, uno che prima di dedicarsi alla sfera della club culture ha lavorato – e molto – nel campo del rock, dell’indie, delle sonorizzazioni; parliamo soprattutto di una mente che spesso e volentieri ha saputo pensare un passo davanti agli altri. Facendoci sopra molti soldi, certo. Diventando potentissimo, diventando quello che molti di voi che state leggendo vorrebbero essere (o almeno vorrebbero poter conoscere). Ma tutto ciò è stato, a leggere bene le sue parole, più una conseguenza che un obiettivo. Dopo l’intervista con Claudio Coccoluto, ecco un’altra chiacchierata a nostro modo di vedere davvero illuminante.
Partirei allora dal fondo, da questa “Make It Good” che segna il tuo esordio ufficiale nella discografia: esordio tra l’altro sulla label che tu stesso hai creato, la Life & Death. Si tratta di un pezzo che parte da un brano di Fink: una soluzione in qualche modo strana, visto che Fink è un artista che gravita in tutt’altre scene rispetto a quelle dance (o abitualmente saccheggiate dalla dance). Come mai questa scelta?
Diciamo che è successo in parte per caso, e in parte no. Io Fink l’ho conosciuto ancora un po’ di anni fa, perché organizzai un suo tour. Rimasi molto colpito, sentendolo suonare, dalla sua capacità di inserire una struttura tipica della “musica ripetitiva” (la dance, appunto) in un contenitore di suo legato invece a folk e blues.
Tra l’altro stiamo parlando di Fink nella sua “seconda vita” artistica: originariamente era un dj e suonava trip hop…
Esatto. Ma per chi lo conosce bene non è difficile ritrovare elementi del “vecchio” Fink anche in quello che ora si dedica al folk-blues acustico. La cosa divertente è che lui ha iniziato a cantare quasi per caso… E’ sempre stato un autore di canzoni anche per altri: quindi scriveva i pezzi e poi andava a portarli ai suoi committenti – per illustrarli meglio si metteva a canticchiarli di fronte a loro e all’ennesimo “Ma lo sai che canti bene? Dovresti provarci sul serio” si è deciso…
Resta il fatto che Fink, come base da cui partire per una release di taglio elettronico, è una scelta peculiare.
Da un lato ho la fortuna di aver lavorato in ambiti musicali molto diversi fra loro, vedi appunto il trovarsi ad organizzare una tournée di Fink voce e chitarra; dall’altro con la nascita della mia label mi sono trovato ovviamente ad ascoltare ancora più musica del solito – e ascoltandola mi sono convinto che proprio ora, proprio in questi anni c’è più spazio per essere liberi, per fare scelte apparentemente strane. “Make It Good” per altro è nata molto prima della creazione di Life & Death: avevo già utilizzato l’originale, un estratto dall’album di Fink “Distance And Time” su Ninja Tune, aggiungendoci degli elementi miei. Così, a tempo perso e per uso personale. Una volta capito che questo esperimento aveva la potenzialità per diventare la mia prima uscita su Life & Death ho ricontattato Fink e gli ho chiesto di ricantare la traccia, stavolta con un piglio un po’ legato al dub e al reggae, due musiche che so essere pure nel suo background. Ma attenzione, anche l’altra traccia dell’EP, “Monocraft”, è vecchia di due anni: entrambe, riascoltandole, le ho trovato attuali oggi più ancora di quando vennero fatte. E’ stato questo a farmi capire che erano proprio loro le tracce giuste con cui uscire.
Curioso, no?
Tra l’altro, sono tracce che sono state fatte entrambe con l’MPC 2000, figurati… Un approccio molto artigianale e poco tecnologico, campioni messi in loop: Mark Hollis dei Talk Talk per “Monocraft”, Fink per “Make It Good”. Nel secondo caso la traccia mi è sembrata così bella, in particolare per l’espressività del cantato, che ho voluto farla reinterpretare come remix da uno dei produttori che amo di più, Larry Heard.
Ecco, appunto: un’altra scelta inusuale.
Dici? E per chi? Inusuale per chi?
Mah sai, avere Ryan Elliott come remixer (così come effettivamente è in questo EP) è più normale, più prevedibile, d’altro canto poi tu sei visto come molto legato a quella scena lì (in primis come agente); Larry Heard invece è una scelta strana: non è, nel 2012, fra i remixer più gettonati e uno bookato a tutti i party. E’ un grande, un grandissimo, uno dei pionieri; ma siamo sempre in meno a ricordarcelo.
Larry Heard è sempre stato uno dei miei ideali di produttore perfetto: le sue cose sono sempre così magiche e perfette, e soprattutto fuori dal tempo. Lui, Roland Appel che so che piace molto anche a te, Closer Musik: gente in grado di tirare fuori tracce che potrebbero essere state fatte sia oggi che vent’anni fa, lavorando sempre molto su profondità e poesia piuttosto che cercare il “suono del momento”. Quindi ecco: la scelta di Heard come remixer è tutto tranne che casuale. Ryan invece è, molto banalmente, un amico, oltre che naturalmente un producer che stimo tantissimo. Ci vediamo non dico quotidianamente ma almeno una volta alla settimana, quindi quando mi ha chiesto di poter fare un remix di “Make It Good” – perché gli era piaciuto molto – sono stato ben contento di dargli subito l’ok.
Quando sono apparse le prime release di Life & Death sembravano abbastanza delle uscite controcorrente, per il loro evidente insistito gusto della ricerca melodica da un lato ma anche per la tendenza ad accostare elementi apparentemente in contrasto fra loro dall’altro. Oggi invece questo approccio pare molto più diffuso: che succede? E’ tornata nella scena una maggiore apertura mentale?
Guarda, ad un certo punto la gente si era stancata di un certo tipo di suoni, suoni su cui veramente c’era stato un overload totale: sembrava ci fossero sempre e solo quelli, davvero. Il discorso però va allargato: vedi, il fatto che ci sia una crisi generalizzata, in primis in campo economico e politico, ha come conseguenza che molti canoni e molte supposte regole si stanno sbriciolando. Non ci sono più certezze. Di conseguenza, c’è più propensione a differenziare: ora che ti accorgi che tutto intorno a te è in crisi, hai l’impressione di avere meno da perdere e che in qualche modo ci sia più spazio per costruire qualcosa ex novo. Non è un meccanismo che salta fuori solo adesso, sia chiaro, c’è sempre stato; ma oggi con i mezzi di comunicazione e di produzione artistica di nuova generazione da cui siamo circondati è tutto molto più veloce. Prima era tutto più lento, sia la creazione che la diffusione della fruizione; oggi tutto questo avviene in tempi rapidissimi. I cicli, quindi, si accorciano. Comunque sia, credo che proprio un paio d’anni fa, tra il 2009 e il 2010, si fosse in una situazione di grande confusione e disorientamento: non si sapeva bene che fare e nel dubbio ci si aggrappava a ciò che più facilmente funzionava in quel momento. Il ritorno alla melodia, o comunque ad un approccio che tiene più da conto la melodia, è stata una risposta istintiva da parte di molte persone a questa stagnazione; in più, si è cercato di seguire un’attitudine più coraggiosa nel gestire e mescolare gli elementi… Perché sai, la melodia stessa può essere un’arma a doppio taglio: con essa è facile cadere nel banale.
Eccome. Soprattutto nell’elettronica.
Esatto. La mia fortuna è che per tanti anni ho scritto colonne sonore oppure ho lavorato come consulente musicale. L’ho fatto per il cinema (per Sorrentino, Garrone, Libero De Rienzo, Nina Di Majo), per installazioni di arte contemporanea nei musei, per la pubblicità, l’ho fatto vuoi da solo vuoi con altre persone (come nel caso dei Brutopop, band tra punk e post rock romana con cui ho creato una colonna sonora). Tutte cose fatte prima di tutto per passione che, se hanno portato dei soldi, ne hanno portato veramente pochi, credimi… ma che tuttavia mi hanno permesso di costruire un vastissimo archivio personale di campioni, loop, idee – tutti affastellati in ordine casuale. Ma la crisi odierna dei canoni e delle strutture fisse ha fatto sì che questo ordine all’epoca senza capo né coda mi suonasse oggi in realtà per nulla casuale, bensì molto sensato ed interessante. Forse se avessi riascoltato con attenzione questo mio archivio qualche anno prima non avrei ricavato questa impressione, questo è il bello… Quando ho incontrato Greg Oreck dei Thugfucker, colui che è co-fondatore della Life & Death e che soprattutto è una specie di guida spirituale, mi è venuta voglia di mettere insieme tutto quanto. Al tempo stesso sempre nello stesso periodo mi sono imbattuto nei Tale Of Us, trovando le loro produzioni molto fresche e commissionando loro subito due mix. E’ nato tutto così, Life & Death nasce così. Avendo fin da subito un grande successo.
In effetti ha avuto immediatamente un riscontro notevole.
Continuo ad esserne molto stupito. Sai, ha senso che una persona come me che ha quarantun anni e che lavora da quindici anni nel music business possa avere una visione un minimo strategica al momento di passare all’azione, con una maggiore consapevolezza su come sfruttare certi meccanismi del sistema; però i risultati sono stati davvero lusinghieri ed immediati oltre ogni previsione. Di release Life & Death ne ha fatte ad oggi cinque, mica cento, eppure possiamo contare già su una attenzione da parte di pubblico e media davvero invidiabile. Questo perché siamo stati subito “compresi” nella nostra chiave artistica: nella nostra attitudine, più ancora che nel nostro suono, visto che abbiamo fatto uscite anche diverse fra di loro in tal senso. Siamo diventati immediatamente riconoscibili, e questo ci ha consentito di crescere molto velocemente, come profilo. Sai, lavorando nel settore da quindici anni mi è stato meno difficile che per altri costruire subito un network di addetti al settore con cui confrontarmi, a cui far sentire le produzioni: dal giornalista al promoter passando per l’a&r e il pr. Ma ciò che è stato sorprendente è stata la reazione del pubblico “comune”, quello fatto di non addetti ai lavori. Pure i media, comunque, va detto che non era scontato che ci seguissero subito così con tanta attenzione: da Resident Advisor all’estero a Soundwall qui in Italia, per dire, ma gli esempi potrebbero essere tantissimi. Sono ancora qui che cerca di capire quale magica alchimia è riuscita a far funzionare in questo modo tutto ciò…
Ecco: avendo tu un background lavorativo esteso e sfaccettato e soprattutto non solo legato alla scena prettamente dance, hai mai provato dei – come dire? – complessi di superiorità? Onestamente: molta scena dance è composta, anche negli addetti ai lavori o supposti tali, da persone che non hanno maturato grande esperienza sul campo professionale. Gente che non ha dovuto fare troppa fatica per essere o sentirsi subito promoter, o giornalista, o proprietaria di un’etichetta: viene tutto facile. Chi come te e me si è confrontato e si confronta invece anche con altre scene, sa bene come stanno le cose altrove. La gavetta c’è, e non perdona. Né la puoi sfuggire.
Non parlerei di complesso di superiorità però sì, devo dire che il tuo discorso è corretto e lo condivido. Anche se guarda, vorrei sottolineare come le cose siano migliorate, ultimamente. Vero, verissimo: fino a due, tre anni fa nell’elettronica dance giravano persone, sia fra gli addetti che fra il pubblico, che avevano una conoscenza veramente superficiale della musica. Ok. Ora però grazie al web, che ti permette di avere una panoramica veramente ampia ed immediata su quello che succede in giro, vedo che c’è un ritorno al gusto dell’approfondire, del seguire con meno superficialità. Però in effetti c’è ancora una certa superficialità in giro… ci ancora troppe persone che non hanno l’abitudine ad ascoltare, per dire, degli album ma la cui fruizione della musica è legata all’ascolto della singola traccia alla radio, o mentre si guida in macchina…
…o mentre si leggono le chart, basandosi solo su quelle e sulle loro indicazioni.
Mah, quest’ultima cosa colpisce anche altri campi culturali: pensa alla letteratura, guarda le classifiche dei libri più venduti: libri di attori, di comici, di gente che fa lo scrittore per caso e che deve la sua popolarità alla televisione o in ogni caso a fattori esterni. Comunque ecco: se in generale non ho personalmente dei complessi di superiorità, è anche vero che dall’alto delle esperienze che ho avuto sì, posso avere o sapere qualcosa di più rispetto ad un ragazzo di vent’anni. Inutile negarlo. Ma questo valore aggiunto che io e persone come me possiamo avere è importante che sia condiviso. Ci si prova a condividerlo, non sempre ci si riesce, ma l’importante è provarci. In primis come promoter, ho sempre voluto farlo.
Beh, proprio a proposito di promoter: non trovi che sia troppo, troppo facile improvvisarsi promoter oggi nella scena elettronica? Se lo fai nella scena rock, fatichi dieci volte di più – devi seguire aspetti come noleggio backline, fonici, hotel e trasporti per più persone, eccetera – e guadagni spesso un decimo. Esempio pratico: nelle situazioni dance, un artista con 2000 di cachet a cui devi pagare solo un volo e una camera d’albergo e devi far trovare due cdj può portare fino a 1000 persone alla serata; per avere 1000 persone ad un concerto diciamo rock, devi mettere in conto almeno 13/15.000 euro di cachet più tutto il resto, e mi sto tenendo basso.
Un quadro perfetto.
A me tutto ciò pare insano. Si riequilibreranno le cose?
Secondo me sì. Per troppi anni abbiamo avuto serate dove il pubblico era molto omogeneo e molto omologato, e dove tra l’altro le donne erano pochissime: non può durare. La club culture non è solo questione di quello che stai ascoltando o ballando, è questione prima di tutto della situazione che ti ruota attorno: più che ti sta accanto è diverso, più tu ti arricchisci come persona, empatizzandoci, provando gusto nel farlo. Una componente, questa, che recentemente si era persa, non so se più o meno per colpa dell’uso delle droghe (che poi io non sono contrario ad esse, penso che possano avere una loro funzione a patto che tu le sappia gestire). Comunque, quello che stiamo avendo oggi è una regressione nei numeri, sia di persone che di club. L’Italia però resta un caso a parte: noi siamo un paese dove la gente pur di far vedere che riesce a far suonare “quel” nome e che quindi è più forte dei concorrenti, finisce col mettere sul piatto cifre pazzesche.
Vero.
Assolutamente vero. Noi siamo il paese dove determinati artisti della scena elettronica ricevono cifre che da altre parti non ricevono. Innegabile. Quali i motivi? Prima di tutto il fatto che abbiamo tantissimi locali (la Germania, se togli Berlino che è un caso a parte, ne ha in media molti di meno e la Francia pure); poi il fatto che per anni, tantissimi anni abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità economiche. Il risultato è che investire in un’impresa diventa una cosa da fare con ostentazione: vuoi farlo e pensi di poterti permettere di farlo. Da qui le aste, i grandi eventi… Pensa a Capodanno: hai notato che sono praticamente tutti da noi, i dj più grossi? Sarà mica un caso?
Chi altri gli dà i soldi che promettiamo noi.
Tuttavia anche da noi credo sia in atto una controtendenza. Nel mondo lo è di sicuro, in atto. Guarda New York: posti come Cielo, Space, Pacha sono in sofferenza, mentre vanno alla grande i piccoli rooftop party, o apartment party… Posti in cui vanno anche i dj più quotati, perché sanno che è lì che possono trovare una base di passione e di appassionati su cui costruire per il futuro. Nel farlo, sfidano così gli imperi dei vari colossi storici, i Danny Tenaglia (che ora si ritira?), gli Sven Väth, i Loco Dice, i Richie Hawtin: è che il sistema costruito attorno a loro si sta sgretolando. Loro, i grandi nomi, reggono ancora perché sono ancora talmente grossi, ma quello che gli sta attorno… Guarda cosa sta succedendo ad Ibiza: Marco Carola che esce dalle serate Cocoon, Loco Dice che inizia a fare le feste allo Space… Il concetto di “grande famiglia”, che prima era il verbo principale, sta progressivamente venendo a mancare. Questo perché è tutto un sistema che si sta sgretolando. Il Time Warp è uno dei pochi eventi di massa che sta resistendo (resiste anche il Sonar, ma per me non è un festival di elettronica, è un festival di pop avanzato), gli altri invece stanno quasi tutti progressivamente scomparendo. C’è grande caos, in giro. Ma da esso nascerà un nuovo circuito di club – più piccoli. E in cui i numeri e i guadagni non saranno più una certezza.
Questo ti fa paura? Tu sei uno che sui grandi numeri c’ha lavorato e ha costruito, come agente, le sue fortune: davvero c’è un certo tipo di sistema che sta crollando?
Allora: sì, un sistema sta crollando, e no, non mi fa paura, perché io questo decorso degli eventi ce l’ho già chiaro in mente e mi sto attrezzando di conseguenza. Se riuscirò a gestirlo e tirarne fuori il meglio, questo ovviamente non lo posso sapere. Io, comunque, anche quando lavoravo coi grandi numeri ho sempre cercato di non pensare solo a massimizzare il guadagno quanto piuttosto di pensare ad offrire anche un evento di qualità. Non sono certo l’unico: penso prima di tutto a una persona eccezionale che purtroppo non c’è più, Giorgio Mortari di Dissonanze, ma anche ad un Dino Lupelli, visto che questa intervista la stiamo facendo qua nel backstage di Elita: parliamo di gente che non è mai diventata ricca con questo lavoro, perché per loro la qualità è sempre andata prima della quantità, prima del mero guadagno. Penso sia stato così anche per me, nella mia vita lavorativa. Certo, bisogno essere intelligenti e coniugare la voglia di qualità con le esigenze del mercato. Ad ogni modo, che la prospettiva per tutta la nostra scena sia un ritorno a dimensioni più piccole non fa che rendermi più contento e più disposto ad investire su progetti nuovi; qualche anno fa non era così e, sinceramente, mi stavo un po’ annoiando. Era tutto troppo omologato e prevedibile.
Ecco. La noia come la si supera?
Beh, proprio la label è stato un modo per sopravvivere alla noia. Fare musica poi è sempre e comunque un modo per sopravvivere alla noia. Ascoltarla, pure, lo è: ci sono molti dj che non ascoltano nemmeno più i promo che gli arrivano a casa, io invece sono instancabile nel cercare cose nuove che mi ispirino, mi entusiasmino. In generale, dovendo riassumere, il pericolo della noia ho sempre cercato di superarlo facendo più cose possibili. Qualche volta ne ho fatte pure troppe, facendone alcune male – non lo nascondo. Però dietro c’era sempre la volontà di fare qualcosa di costruttivo, qualcosa che servisse a smuovere acque ed abitudini consolidate. Comunque sì, vero, nonostante tutto questo verso la fine del 2009, l’inizio del 2010 mi stavo annoiando… Poi per fortuna è arrivata Life & Death, creata assieme a Greg e a cui ora lavora pure Matteo Milleri dei Tale Of Us. Ora l’entusiasmo e il divertimento sono tanti.
Tu tra l’altro ora sei più berlinese che italiano, come domicilio. Com’è vivere a Berlino?
Non mi sono trasferito a Berlino perché volevo fare il dj a tempo pieno, o perché la trovassi molto utile e conveniente dal mero punto di vista lavorativo; mi sono trasferito lì perché è una città che ho sempre trovato molto civile. Ora che ci vivo, non posso che confermarlo. Questa civiltà nella vita quotidiana mi consente di ricevere e gestire molti più input positivi di quanti ne ricevessi lottando con la quotidianità tipica italiana e coi suoi problemi. A Berlino ho più tempo, è tutto più disteso e più tranquillo, c’è molta più disponibilità a collaborare: tutte componenti che avevo perso stando immerso nell’asmatica ansia della rincorsa al successo qui in Italia. La chiave insomma è la qualità della vita in generale, non il particolare environment musicale, il fatto che lì graviti una parte così larga della scena.
Ma consiglieresti ad un ventenne, venticinquenne voglioso di fare strada nel campo della musica elettronica di trasferirsi lì?
Secondo me a Berlino ti ci puoi sì trasferire, ma non allo sbaraglio. Di sicuro è una città dove si vive meglio con meno, i prezzi sono assai più bassi; se sei appassionato di musica elettronica lì hai più input ed un ambiente più sano, meno stupidamente competitivo, dove è molto più facile arrivare a suonare in poco tempo in un qualsiasi club. Ma attenzione: non c’è un’economia. Non ci sono soldi. C’è tutto il resto – creatività, arte, stare in gruppo, un certo tipo di atmosfera – ma non c’è un’economia, non c’è un sistema lavorativo in grado di reggersi in piedi, se non per pochissime eccezioni. Chi vuole veramente costruire qualcosa, a Berlino ci può senz’altro venire ma sapendo che sarà solo una meta di passaggio. Arrivi qua per assorbire input e stimoli, ma dopo un po’ senti l’esigenza di andartene. E’ come se fosse una vacanza-lavoro. Io la vivo come tale. L’errore peggiore è arrivarci, a Berlino, e galleggiarci dentro senza darsi un limite e degli obiettivi, senza una prospettiva.
Quali sono le label che ammiri di più oggi?
Bella domanda. Valgono anche le etichette storiche?
Assolutamente sì.
Beh, di sicuro la R&S.
Che ora sta avendo un grande rilancio. Tra l’altro mettendo in campo dei nomi nuovi e freschi, vedi Lone, non facendo il monumento di se stessa riciclando le sue grandi uscite degli anni ’90.
Ma infatti, il segreto è proprio questo: puntare sui nomi nuovi. Sai, prima parlavo dei canoni e della grandi famiglie che crollano: succede perché la gente ha investito troppo, e per troppo tempo, sempre sugli stessi nomi. R&S è l’esatto contrario, pur avendo una storia importantissima, enorme.
Come suoni, è molto diversa da Life & Death.
Come suoni è radicalmente diversa, ma mi piace pensare che condividiamo la stessa attitudine: amano la musica a trecentosessanta gradi, sono molto preparati come ascoltatori… Quindi sì, assolutamente R&S, se mi chiedi quali sono le migliori etichette oggi. Altre onestamente non me ne vengono in mente.
Dai, nemmeno label come Hot Natured, Crosstown Rebels…?
Vuoi un mio giudizio su queste label?
Lo voglio.
Anche perché in effetti è a queste label che, come agente e promoter, vengo spesso associato. A loro, a Visionquest… volendo possiamo metterci anche cose tipo Dynamic e Noir Music, che ora sono il trend per eccellenza.
Esatto. Non lo chiedevo a caso.
Sono label che hanno ridato musicalità al suono house. C’è chi cavalca il momento, ma anche chi si rende conto del rischio di diventare un fuoco di paglia, facendo tipo la fine della Ed Banger – nulla contro questa etichetta, assolutamente, in mezzo lì ci sono anche persone di grande spessore, ma la percezione esterna è stata quella di una gran fiammata e poi stop, un successo insomma dal decorso molto breve. Un giorno sei il numero uno, il giorno dopo non conti più nulla per nessuno. Ecco, questa è una cosa di cui le etichette attuali sulla cresta dell’onda hanno paura: tipo, “Oddio, e ora cosa facciamo, ora che siamo i numeri uno?”. Perché sì, sono veramente i numeri uno. Vedi, ieri parlavo con James Murphy proprio di questo e lui ha detto una cosa molto importante: “Senti quello che la pancia ti dice”, segui il tuo istinto insomma. Lui non è certo l’ultimo degli arrivati: DFA, LCD Soundsystem, di passaggi di trend ne ha visti parecchi, molti ne ha creati, manipolati – il suo punto di vista insomma è a dir poco autorevole. Sono ovviamente d’accordo con lui: la vera soluzione è fare ciò che ti piace andando al di là del trend di mercato del momento. Le etichette che citavi e citavamo, tutte, si stanno interrogando sul da farsi. Metti che la Dynamic sia il caso più particolare, perché quella più legata al dancefloor, all’hype del momento… quindi è veramente distante da quello che io tento di fare con Life&Death ed è anche un po’ diversa dalle altre messe in ballo. Ma che fine faranno, insomma, le varie Hot Natured, Crosstown Rebels? Non lo so. Però di sicuro so io – come sanno loro – che rischiano di andare a schiantarsi. Tuttavia sono fiducioso, dietro di loro c’è gente intelligente, che conosce certi rischi e certe dinamiche. Io di mio non rischio di schiantarmi: non sono ancora salito abbastanza in alto, ma loro sì. Oh, Jamie Jones è il prossimo Luciano, tanto per capirci. Sono in alto, eccome.
Così in alto da averne paura.
Sì, ma davvero sono label con dietro persone solide, intelligenti. Jamie Jones per primo lo è. Lazarus, anche. Visionquest, beh, loro sono così problematici come persone, nel senso che sono come i bambini che si fanno di continuo un sacco di domande, che non rischiano di perdere la bussola perché finora hanno sempre vissuto nel loro mondo, e comunque la mia impressione è che si stiano comunque disegnando il loro futuro in modo molto efficace. Per quanto riguarda Life&Death, quello che con Greg e Matteo si cerca di fare è di andare piano, fare release solo di cui siamo sicuri al cento per cento. Sai, quando avrò cinquantotto anni vorrò guardare tutta la discografia della label potendo dire “Ne è valsa la pena, per ognuno di questi”. Hot Natured e Crosstown Rebels negli ultimi tempi hanno invece fatto uscire troppa roba, ma vedo che ultimamente stanno rallentando. Sai una cosa?
Dimmi.
La gente solitamente dice “Se tieni un disco fermo troppo a lungo senza farlo uscire, invecchia troppo”. Secondo me è vero il contrario: se un disco lo tieni fermo per un po’ e vedi che non invecchia, vuol dire che merita di uscire, vuol dire che è il disco giusto.
Ottimo criterio. Ma la situazione del clubbing italiano come la vedi?
Mi è già capitato in altre interviste di dire che l’Italia è troppo legata al moralismo. Inoltre, è un paese attanagliato dalla paura, perché ora sta iniziando a rendersi conto che per troppo tempo ha vissuto al di sopra delle sue possibilità – nella club culture in particolar modo, a lungo lì sono girati infatti soldi facili. Una club culture che peraltro è sempre stata considerata dagli esterni ad essa come un qualcosa di negativo, di vacuo e superficiale: opinione che paradossalmente influenza anche chi della club culture fa parte. A Berlino, per dire, tutto questo non succede minimamente, non è pensabile. Secondo me, vuoi per poca intelligenza vuoi per voglia di arraffare i soldi quando i soldi c’erano, in troppi hanno perso di vista l’importanza della qualità e hanno puntato invece solo su commercio e mercato, svilendo tra l’altro così il ruolo dei dj resident, o dei club veri (non quelli che servono solo a spennare il cliente chiunque esso sia una volta che varca la soglia del locale). Puntando quasi esclusivamente su commercio e mercato, inevitabilmente è diventato protagonista il meccanismo delle aste, della rincorsa ai numeri. Tuttavia, io posso dire che di gente capace di far ripartire le cose nel modo giusto in Italia ce n’è. Eccome.
Tipo?
Più che fare dei nomi, ti direi che ho una buona fiducia nelle nuove generazioni: vedo persone attente e sveglie, lì in mezzo. Se le grosse strutture e le realtà che hanno ancora oggi potenza economica decideranno di dare fiducia a queste persone, riusciremo a ricostruire tutto quanto. Perché i grossi club ottimi ci sono ancora, vari club più piccoli ma eccellenti pure (molti anzi stanno nascendo adesso): se i due sapranno unirsi, faranno il bene l’uno dell’altro, faranno la differenza, e pure il mercato si rilancerà. Mi piacciono questi giovani che portano avanti un uso consapevole dell’online, andando a cercare lì le informazioni, su Resident Advisor, su Soundwall: segno che sentono il bisogno di approfondire. E ce ne sono non sono pochi. Lo dico da promoter, da discografico, da agente, da dj. Giovani che vogliono fare cose nuove, che non vogliono entrare nelle aste per fare i soliti nomi grossi, che amano lavorare in controtendenza. A loro posso dire che la controtendenza di oggi sarà la tendenza di domani.
Però rischi assai, oggi, a fare le cose in controtendenza…
Sì. Ma vale la pena provare.