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[tab title=”Italiano”]Alla seconda prova, dal decadente titolo di “Culture of Volume”, East India Youth, al secolo William Doyle, conferma le caratteristiche che l’avevano reso famoso con il primo “Total Strife Forever”: un pop ambient dai contorni kraut e dance. Una miscela che l’ha lanciato nel firmamento del pop anglosassone e che scopriamo essere figlia di una precisa strategia commerciale. Siamo spalle sui giganti dopotutto.
Hai pubblicato un nuovo disco per XL Recordings, e vorrei farti alcune domande a riguardo. Iniziamo dal nome: “Culture of Volume”. So che viene da una poesia di Rick Holland intitolata “Monument”…
Sì. Da qualche tempo a questa parte mi sono buttato a leggere le opere di Rick Holland. Intorno al 2011, ho comprato un suo libro chiamato “Story the Flowers”, libro che mi sono portato in giro durante il tuor del primo disco. Mi ha subito appassionato, anche perché cita luoghi e situazioni con le quali sono piuttosto familiare – è un libretto breve, ma mi ha regalato grandi emozioni, tant’è che ho scelto “Culture of Volume”, che come hai detto te, deriva da una delle sue poesie chiamata “Monument”. L’ho trovata molto evocativa, le immagini mi sono apparse nella mente quasi subito durante la lettura della poesia. Contestualmente, avevo quasi finito il disco, e cercavo un titolo che ben rappresentasse l’opera, prima di portarlo a termine. Giusto per avere un quadro dell’idea del lavoro. Sai, è più facile entrare in un mondo quando hai un titolo, una parola, un’immagine; e questo titolo suonava perfetto. La frase riassumeva perfettamente il disco, rendeva l’idea, la musica, e soprattutto gli ultimi anni della mia vita.
Considereresti la nostra come una cultura del suono? Siamo in una società che esalta il volume? Siamo rumorosi?
Be’, è sicuramente una delle interpretazioni possibili del titolo. Specialmente se la relazioni a Londra, città in cui vivo da quattro anni. É piuttosto caotica e rumorosa. La mia carriera è incominciata due anni fa, da allora la mia vita è stata all’insegna del “Culture of Volume”. Anche intesa come volume di lavoro e di responsabilità…
Io: So che vieni da Bournemouth – ho vissuto lì, sai? Me lo ricordo come un posto molto tranquillo…
EIY: Ma dai? Dove hai vissuto?
Io: Era vicino al mare, non chiedermi la zona perché non me la ricordo. Era giusto prima che mi trasferissi qui a Londra. Ci son stato un paio di mesi. Mi ricordo l’oceano con grande affetto…
EIY: Eh sì… mi manca il mare, la calma, quand’ero lì era tutto più tranquillo…
Come è stato vivere lì e come è stato studiare musica lì?
Be’, ad essere sinceri, non ho esattamente iniziato a Bournemouth. Nel senso che ho vissuto lì all’incirca per dodici anni, poi mi sono spostato nella vicina Southampton, dove ho iniziato a suonare la mia musica. Ho ancora amici a Bournemouth, e so che la scena musicale locale è piuttosto viva. Diciamo che per ragioni biografiche, sono più legato a Southampton; direi che è la scena principale della zona sud east dell’isola. Ho vissuto lì per un bel po’, ma non mi sono davvero legato alla scena e alla città, stavo più che altro a studiare musica per i fatti miei. Anche ora a Londra, se ci penso, credo di non fare parte particolarmente della scena londinese, di non fare parte di nessun genere. Ho imparato a vivere per i fatti miei, a lavorare per i fatti miei, già dai tempi di Southampton.
Cosa vedi nella scena londinese? Esiste?
Mah, come ti ho detto, c’è tanto qui, parecchio da vedere ed ascoltare. Mille locali dove suonare, parecchi generi e molta energia. Ma non mi sono mai sentito parte di un gruppo. Quando sono arrivato a Londra non ero molto sicuro di quello che mi sarebbe capitato, cosa avrei fatto o come si sarebbe evoluta la mia vita. Certo, credo di fare parte di una certa scena che può essere definita come “indipendente”, ma allo stesso tempo ho capito che volevo fare la mia musica, fosse pop, dance o ambient. Ciò nonostante, sono sicuro che Londra ti influenzi comunque, è difficile non essere influenzati, anche solo per il fatto di viverci e bazzicarci.
Mi sembra che i tuoi riferimenti siano da considerarsi più continentali forse…
Si si certo. Direi che il kraut rock e l’ambient siano i generi che più mi hanno ispirato…
Per tornare al tuo nuovo disco, la copertina mi ricorda “Low” di David Bowie. Ho ragione?
[ride]… in verità è stato un caso, sai? Cioè non abbiamo deciso a tavolino di fare uscire la foto di copertina simile a quella di “Low”! Nel senso che ci è voluto parecchio prima che uscisse così! Abbiamo scattato diverse foto, con molteplici sfondi alle mie spalle, poi l’abbiamo trasformata in un video, dal quale abbiamo estrapolato un segmento, sul quale abbiamo poi lavorato, processandolo al computer per dargli quell’effetto pixelato e sfuocato. L’arancione dello shooting non era nemmeno così intenso, solo dopo parecchi livelli di lavoro, è uscito così simile all’arancione di “Low”. Lì ci siamo resi conto che, in effetti, ricorda l’arancione del disco di Bowie, cosa che francamente va benissimo, essendo lui una delle mie principali influenze… Tra l’altro il disco parte con i suoni di una stazione spaziale, inutile dirti a cosa rimandino, ma anche in questo, è stato tutto un caso…
Le copertine dei tuoi dischi, così come tutti i video della tua produzione, ti ritraggono in prima persona. Sei cioè chiaramente visibile. Il tuo volto è diventato un marcio di fabbrica, o per dirla in breve, ci “metti la faccia”. Mi sembra piuttosto inusuale per un musicista elettronico. É una scelta stilistica o un caso?
No, in questo caso la scelta è cosciente. Lo voglio fare. Ad onor di cronaca, ti devo dire che all’inizio pensavo fosse interessante metterci la faccia, mentre ora chiaramente è diventato una specie di contrassegno, di trademark. Alla fine dei conti, la musica che suono parla di me, racconta le mie esperienze, della mia vita, perché dunque non usare il mio volto come espressione di queste parole e di questa musica, la quale non esisterebbe senza di me. Non so quanto potrò andare avanti ad usare questo escamotage, ma per ora funziona…
Per quanto riguarda il suono, pensi che il disco segua il primo o l’hai pensato come un capitolo a sé stante?
Ci ho lavorato da subito, due anni fa. È stato un processo molto morbido, nel senso che ho terminato il primo disco e ho continuato subito con questo, in modo molto omogeneo. Il primo album affrontava tematiche e problemi che in questo vengono squadernati meglio ed analizzati più a fondo. Tutto è più forte, più potente e più profondo. Come se affrontassi gli stessi temi, ma evidenziati, definiti. Il suono è diverso sì, perché dal vivo durante gli ultimi due anni ho avuto l’occasione di impratichirmi e migliorarmi. Inoltre, se posso aggiungere, suona meno oscuro del precedente; non posso lamentarmi degli ultimi due anni della mia vita…
In effetti, hai avuto due anni favolosi, lo puoi dire forte e chiaro! Devo dire che mi piace la tua storia – te che vai col cd in mano dall’editor di the Quietus e diventi famoso. Voglio dire, in questi anni di email, SoundCloud, Mixcloud e social vari, tu sei andato a mano a portare il disco. Molto favolosa come situazione…
[ride] si, si, sembra un favola! Ne abbiamo parlato a lungo, anche con altri intervistatori, suona bene come storia, vero? C’è parecchio carattere e c’è un tocco di magia che non guasta… ho portato a mano il mio primo album al Village Underground all’editore di the Quietus che l’ha effettivamente ascoltato e mi ha richiamato subito dopo…
Pensi che la prima impressione sia quella che conti?
Penso di sì. La prima impressione che avevo su di lui è stata il motore che mi ha spinto a farmi andare a cercarlo. La prima impressione fa tanto: se ci pensi è la base della musica pop – accalappiare l’ascoltatore al primo ascolto. Al Village Underground, quella sera, mi ricordo che lui è stato colpito dalla camicia che indossavo, di certo l’ha aiutato a ricordarsi di me.
Pensi che la prima impressione conti, perché viviamo in una cultura del volume?
Sì, direi di sì. Lo show business ruota intorno alla prima impressione, l’estetica. Siamo bombardati da immagini, dati, cosa che è sia positiva che negativa. È allo stesso tempo facile farsi notare, ma altrettanto facile farsi dimenticare…
Ti ho visto dal vivo con laptop, tastiere e basso. So che sei in tour, come sarà?
Sono ancora io, senza band, ma ho cambiato tutto l’assetto: ci sarà ancora il computer, il quale servirà più come sfondo, ho poi acquistato diversi nuovi controllers, un nuovo joystick. L’idea è quella di un concerto più fisico, dove suono più strumenti e schiaccio più bottoni. Ho deciso di cambiare dopo due anni perché mi stavo abituando al precedente set, cosa che non va mai bene. L’abitudine è una forma di pigrizia.[/tab]
[tab title=”English”]For the second album, indulgently entitled “Culture of Volume”, East India Youth aka William Doyle, corroborates the sound and the features of his critically acclaimed debut Total Strife Forever. A mix of ambient pop, with a twist of kraut and a touch of dance music. We discovered in our interview how clever and smart he is and how his aesthetic is actually a clear marketing product… we all stand on the shoulder of the giants after all.
You published a brand new record, via XL Recordings, entitled “Culture of Volume”. I know this title comes from the British poet Rick Holland…
Yes it does come from it. I have been reading Rick Holland’s poetry for the last few years. I bought one of his books on 2011, a book called “Story of Flowers”, and I took the book with me during my previous tour. I liked it immediately, also because it quotes places I know very well – it is a short book, but it really gives me nice feelings, so many that I choose “Culture of Volume” from one of his poem called “Monument”. I found this poem very evocative, as several images were passing though my mind while I was reading it. In the meantime, I was about to finish my record, and I was looking for a name to label my music with. It is easier to complete something when you have a name or an image in your mind, and this titles was perfect for this purpose, as the title was summing up both the record and the very last year of my life.
Would you consider our age as a culture of volume? Are we a society based on volumes? Are we loud?
Well, it is clearly one of the (many) interpretations of the title. This works quite well with London, city I have been living in for the last four years. It is pretty noise and chaotic! My career has begun two years ago, and since then my whole life gravitated around this dramatic expression of a culture of volume…
Me: I know you’re originally from Bournemouth – I lived there too. I remember it as a peaceful place.
EIY: Seriously? But where about in Bournemouth?
Me: Mah, it was close to the ocean, but I don’t remember the name of the area… it was before London, just few months, but it was great.
EIY: Yes, it is great. I miss that quite and cheerful city.
How was living and practicing there?
To be honest, it haven’t started my music in Bournemouth. I mean, I lived there for twelve years and then I moved to Southampton, where I started to study music. I still have friends in Bournemouth and I know there is a good musical scene down there. But I may say that for personal reasons, I am more close to Southampton, which, by the way, has a very vibrant and vivid music scene. I lived there, but I can’t really say that I was part of a scene, I was mostly by myself writing music. It is not very different in London, where I don’t believe I am part of a scene.
What do you think about the London scene?
As I told you before, there is a lot of music here in London. Thousand of clubs, many genres and great energy, but I don’t think I am part of anything. When I came to London I wasn’t very sure about my future and my life. At the same time, I think I am part of a generic ‘independent’ scene, but I always wanted to do my own stuff. Having said this, I have also to tell you that London influences you indirectly and in any case…
I would say your references are more European…
Totally. Obviously kraut rock and ambient are my choices…
Let’s move back to your record: the cover really reminds me of Bowie’s Low. Am I right?
[laughing]… well, it is completely a case. What I want to say is that we didn’t choose it for scratch, but it has just happened. We did the shooting with several backgrounds, then we transform those pictures in a video and then we took a frame of that video and used that picture. During these several passages, the background colour changed and got that Bowie orange… Ok, then we realized it was very similar with Low’s orange, and it is perfect because I am a big fan of him and his music. Oh, and by the way, the record starts with some space station sounds, something very bowiesque indeed!
All the covers of your records, as well as your videos, portray your face in the foreground. What I want to say is that your face works as a trademark for your music. I believe this is quite unusual for an electronic musicians. You stand up for your music. Is this a marketing choice?
Yes, it is. I mean, at the beginning I thought that using my face was a good expression of myself, but now it is kind of a trademark. At the end of the day, I am the one who wrote this music, which wouldn’t exist without me. This is why I like to use my face in videos or pictures. I don’t know how long I am going to use this trick for… but so far so good!
What about the sound of your new record. Do you think it is another chapter or it is somehow related to Total Strife Forever?
Mmmh, I started working on it right after the first one, so it was a very smooth process: I finished the first one and I started with this one. It is right to say that in “Culture of Volume” I am analysing better and deeper the same topics of “Total Strife Forever”, but everything here is louder, stronger and deeper. Strictly, in terms of sound, it is slightly different because I have been playing live for the last two years and so I have much more experience now than before. If I can add one more thing, I would say that this record sounds less dark and more bright than the previous one.
Well, you can’t complain about the last two years of your life, can you? I like the story of yours -you approaching the director of The Quietus at the Village Underground, with the cd in your hand. In these years of emails, SoundCloud, Mixcloud and several other socials, you did something very vintage…
[laughing] yes, it does sound like a magical tale! We spoke about this point with others magazines too, it sounds so good, isn’t it? There is load of passion and a touch of magic that make the story perfect… I really brought my CD at the Village Underground to the chief editor of The Quietus and he did call me back after…
Do you believe the first impression counts?
I do believe it, yes. The first impression I had of him is what made me walk there and what gave me the strength to give him the CD. First impression is important: and if you think about it, it is the best expression of the pop music – to quickly grab the listener with something catchy. At the Village Underground, that night, I remember I was wearing a shirt so fancy that impressed the editor of The Quietus….
Do you think first impression counts because we are living in a “Culture of Volume”?
Yes, I believe so. The show business is all about this first impression. We are covered by pics and data, which is either a good and a bad fact. It is easier to been seen, but it is as well extremely easy to being forgotten…
I saw you playing a laptop, a keyboards and a bass onstage…
I am still by myself on stage, without a band, but I changed everything: I will have a laptop on the background, and I will play new controllers and new joysticks. The live set is thought as something more physical, something where I press buttons and play instruments, where I physically play stuff. I changed my set on stage because I became comfortable with the previous one, which is a feeling I don’t like: habit it something very dangerous.[/tab]
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