Se pensiamo alla musica elettronica sbocciata nell’era “post minimal”, probabilmente non esiste al mondo una label che abbia esplorato le venature di quel filone che taglia trasversalmente house e deep techno meglio di Dial Records, specie se si considerano le piattaforme che possono vantare una discografia prolifica e continua. Non è un caso, infatti, che oltre ai vari Roman Flügel, Pantha Du Prince, Lawrence e John Roberts, Efdemin abbia trovato più volte casa proprio tra le uscite della label di Amburgo, rilasciando nel 2010 “Chicago” (la sua seconda raccolta) e apprestandosi a pubblicare “Decay”, il suo nuovo attesissimo lavoro.
Le dieci tracce che compongo l’album rappresentano un flusso incredibilmente seducente dove confluiscono le immagini e i colori vissuti da Philipp Sollmann nei suoi tre mesi trascorsi a Kyoto a cavallo tra la fine dell’estate e l’autunno, tre mesi dove concentrare altrettanti anni di emozioni vissute in giro per il mondo con il suo dj set. Intenso e omogeneo come forse “Chicago” non è mai riuscito ad essere – lì a vincere è stata l’anima melodica del produttore tedesco -, “Decay” è un album intrigante che nasconde una bellezza interiore da esplorare attraverso un ascolto attento, un lavoro che decanta la fragilità dell’autunno (l’amato autunno, la stagione dove la raccolta prende veramente corpo) e la controversa e meravigliosa decadenza di Berlino, dove l’artista completa l’opera componendo “The Meadow”. Profondo, rigoroso e compatto (ascoltate “Drop Frame”, “Decay”, “Some Kind Up And Down Yes” e “Parallaxis”, alcuni tra i momenti più alti dell’album), “Decay” rappresenta l’ultimo passo dell’evoluzione musicale di Efdemin, una crescita partita dal minimalismo di Colonia, da Terrence Dixon, dagli storici Axis e dagli intramontabili M-Plat, e poi confluita – anche se ancora marginalmente – nella drone techno.
Tutto studiato, analizzato, sminuzzato e rimpastato seguendo la sensibilità unica dell’artista, mescolando continuamente le carte in tavola. Efdemin fa esattamente questo: sceglie una strada, spesso la più tortuosa, ci si tuffa senza esitazioni salvo poi iniziare un processo di correzione e di raffinamento che porta alla costruzione di strutture sonore che talvolta possono apparire incomplete (o almeno non “continuamente coerenti” come nei suoi lavori passati) e che lasciano la porta aperta ad altre future evoluzioni. Per questo non prendetevela se qualcosa dell’album non vi convincerà da subito, basta dargli il tempo di prendere forma secondo la crescita che Efdemin ha meticolosamente articolato all’interno di ogni singola traccia; per il momento saziatevi con la ricchezza di sfumature con cui ha arricchito ogni elemento di “Decay”.
C’è dell’altro che ancora non ci viene detto, è vero, ma in fondo cos’è la decadenza se non il terreno più fertile per nuovi meravigliosi sviluppi?