Chiaro: aggirarsi per la Svizzera ha sempre un che di imbarazzante, perché è quel posto dove le vetrine dei negozi ti strillano come offerta straordinaria un kebab + patatine + coca a soli 18 euro e, in generale, quando le cose non costano il triplo allora costano il doppio: non è una notazione molto musicale, ma col potere d’acquisto italiano c’è poco da fare… la sensazione, sì, è sempre quella di camminare in mezzo ad una cristalleria. O in mezzo ad un luogo dove anche volendo non potrai esagerare coi cocktail (15 euro, signori, e in bicchieri un po’ micragnosi). Non c’è molto da scialare e da sciallare insomma, ma in realtà questo può diventare anche un bene: perché ci si concentra sulla musica e sui contenuti.
E di contenuti, l’Electron ginevrino, ne offre da sempre tanti. Anche quest’anno. Un festival da sempre attento ad una proposta che qua e là strizza l’occhio al botteghino, ma se lo fa lo fa nel modo più qualitativo possibile (quest’anno: SBTRKT), e per il resto fa un riconoscibile lavoro curatoriale nell’assemblare la line up. Insomma, difficilmente troverete sempre-gli-stessi-nomi; ne troverete magari qualcuno, ma inserito in una cornice che ne nobilita l’essenza e spinge ad ascoltare nomi di solito poco considerati – almeno in Italia – o a ripescare gente che pare avere (sempre dalle nostre prospettive italiche) un grande futuro dietro le spalle.
In quest’ultima categoria ricadono sicuramente The Hacker – nulla di nuovo nel suo live set, ma molto quadrato e solido – e Mirko Loko, con quest’ultimo in live pure lui che, va detto, ha davvero favorevolmente impressionato: cosmico, lontano da certe facilità in cui cadono qua e là suoi compagni di scuderia più conosciuti, pieno di gusto, con un bell’uso delle dinamiche. Due nomi che magari avremmo snobbato, in altri festival; sbagliando, alla prova concreta dei fatti. E’ che visto che dell’Electron ci fidiamo, seguendolo a distanza da anni e apprezzandolo, sempre a distanza, è venuta la voglia di dare una chance un po’ a tutti.
Questo non significa che chi suona nel festival svizzero faccia per forza dei bei set, dei set meravigliosi: faccende come i Ghost Culture sono fiacchi su disco e tali si confermano dal vivo oppure, altra casistica, un genio assoluto dell’umanità come KiNK (è lui il nuovo Henrik Schwarz, solo molto più giocoso: sapevatelo) ha fatto sì live belli ma non così portentosi come altre volte, magari anche perché interrotto con svizzera precisione per rispettare fedelmente la line up. Altri promossi-con-riserva, poi: ad esempio Squarepusher col suo nuovo live, che è bellissimo perché bellissimo è il materiale dell’album nuovo, ma quando poi passa alla riproposizione di faccende più vecchie, bastardamente centrifugate al doppio della velocità (riuscite ad immaginare quanto può diventare farraginosa e confusa “Come On My Selector” al doppio della velocità originaria?), francamente esagera e svuota un po’ la sala. Era la prima assoluta o giù di lì del nuovo show: avrà modo, crediamo, di affinarlo.
Oppure anche SBTRKT, parlando sempre di promossi a metà. Lui di tempo ne ha avuto, dal disastro della prima assoluta al Primavera Sound 2014 fino all’esibizione così così a Club To Club, ma non molto è cambiato: ci sono momenti bellissimi, nel suo show, l’intreccio percussivo nel live è notevole, ma sono troppe le pause tra un brano e l’altro e ancora troppe le parti dove la parte vocale viene lanciata registrata tale e quale al disco, facendo veramente venire la sensazione di un concerto in playback. In generale l’impressione è che il producer britannico non riesca ancora a maneggiare la sua ambizione: fare cioè un concerto di musica elettronica molto “umano”, dove chi sta sul palco fa molte cose, a partire da lui, o almeno fa vedere di farne molte (parlando sempre di lui: tastiere e controller disposti a semicerchio ma molto sparsi e molto distanti fra loro, col risultato che il nostro eroe si agita tutto il tempo da un lato all’altro di questo semicerchio, dando l’idea di perdere lui stesso un po’ la trebisonda, qua e là). Il risultato finale lascia l’idea di irrisolto, di qualcosa ancora da sistemare per arrivare all’eccellenza.
L’eccellenza invece pura ed assoluta è DJ Krush, e fosse anche solo per aver invitato lui l’Electron andrebbe santificato (non è un nome che attira le folle, comunque stando di solito in Giappone non è che in Europa si veda spesso). Non ha deluso, il dj giapponese. Anzi: l’abbiamo trovato in forma come forse non mai. I suoi set stanno sempre a metà tra un dj set (suona pezzi per due terzi altrui) e un live set (usa l’MPC, gli effetti, scratcha, taglia, cuce…), ma a questo giro oltre a tenere con sé dei suoi classiconi – le citazioni prolungate di DJ Shadow, Portishead – soprattutto nella prima parte si butta sui suoni “nuovi” dell’hip hop attuale, anche quelli più commerciali e radiofonici, e li stravolge con un gusto e un’inventiva così tagliente e personale da lasciare a bocca aperta. Il tutto con piglio, come al solito, radicalmente hip hop old school: ovvero da turntablist, non da spippolatore di trackpad e cursori. La differenza, credeteci, si sente. Eccome. Ed è fantastica.
Fantastico, in generale, è tutto il comprensorio attorno a cui si sviluppa il “cuore” dell’Electron: il Palladium è una classica sala da concerti, semplice, funzionale, non brutta, con una capienza a occhio da 1500 persone; l’Usine, situato proprio lì accanto, è in piccolo – ma nemmeno troppo in piccolo – quello che era il Link bolognese ai tempi d’oro: due sale, altri spazi in uso durante il giorno, molta progettualità, da sempre un gusto incredibile nel costruirsi delle line up non banali in campo elettronico e sperimentale, alcune cose bellissime (le luci mobili dello Zoo, la sala al piano superiore, dove abbiamo visto in un carnaio totale Lil’ Louis classicamente a torso nudo e parecchio in forma). Tutto questo a dieci minuti a piedi dal centro, in riva al Rodano, servitissimo dai mezzi. Non abbiamo avuto modo di dare un’occhiata ad altre sedi del festival (Graviere, Fonderie Kugler, Silencio), abbiamo avuto modo di visitare lo spazio polifunzionale dedicato alle arti contemporanee dove si svolgevano i set diurni (dalle quattro del pomeriggio), il Cercle Des Bains, molto semplice e terra-terra ma non per questo sgradevole, anzi.
Ecco: riavvolgendo il nastro e tornando all’inizio di questo report l’austera opulenza che di solito associamo alla Svizzera (e il prezzo di kebab o di un Big Mac ce lo fanno ben venire in mente) trova nell’Electron un ottimo antidoto. Un po’ perché Ginevra già di suo è un po’ più francese e “morbida” rispetto alla Svizzera tedesca, un po’ perché l’Electron pur avendo raggiunto ormai dimensioni ragguardevoli – il report di fine edizione 2015 annuncia quasi 20.000 presenze, un dato forse un po’ esagerato ma fossero anche la metà sarebbe tanta roba – comunica veramente passione e atteggiamento molto alla mano in tutte le persone dello staff e anche in piccoli particolari della produzione (quest’ultimi un occhio un po’ allenato e un po’ smaliziato li trova: e, vi assicuriamo, molto meglio questo che i festival super-prodotti, ricchi, gelidi e alteri). Finché poi la costruzione della line up sarà come è stata finora, il consiglio è di segnare sul vostro calendario del 2016 questa possibile gita svizzera. Portandovi dietro abbastanza per fare il pranzo al sacco, ovviamente (ma le birre l’Electron, almeno quelle, le fa pagare molto poco rispetto alla media cittadina).