Eravamo stati bene l’anno scorso, molto bene, lo raccontavamo qui; quest’anno, con tutto che c’era la convinzione che i lati forti logistici sarebbero rimasti tali (svizzeritudine sì, ma appunto molto alla mano ed accogliente – oltre alla bellezza dei posti), eravamo invece arrivati un po’ più prudenti. Eravamo arrivati, appunto, per rivivere le buone atmosfere di Ginevra, la bellezza per le robe “nostre” del complesso de L’Usine (che non pare più sotto scacco e sotto sfratto, e questa è un’ottima notizia); eravamo arrivati per goderci un festival molto a dimensione d’uomo, dove lo stress è bandito, le code anche, la qualità del suono è comunque alta, la line up comunque non è brutta nemmeno nei suoi lati meno interessanti.
Però ecco, non c’era un Dj Krush, non c’era uno Squarepusher in prima europea o giù di lì, non c’era un SBTRKT live, complessivamente il programma pareva meno attraente rispetto all’anno scorso, meno farcito di sorprese (o di personalissime certezze); volendo, anche più “normale”, già, se non proprio direttamente più povero – sì, in questa edizione occhio e croce il budget complessivo era più basso e permetteva meno rischi e meno voli di fantasia. Quindi: aspettative buone, ma non buonissime. Risultato finale? Molto, molto buono invece. Anche quest’anno si torna in Italia parecchio contenti. E avendo scoperto delle cose in più.
Partiamo dalla scoperta più strana ed irregolare: Dookoom. In realtà non stiamo parlando di gente di primo pelo, è un po’ che girano per il Sudafrica, un minimo di esposizione l’hanno avuta anche all’estero, ma parliamo proprio di un minimo – infatti il loro live set è stato visto da poche decine di persone, piazzato al piano inferiore dell’Usine, al Rez. Ma mai come questa volta è il caso di dire che gli assenti hanno avuto torto: un live assolutamente esplosivo, magari non nuovissimo musicalmente nella sua commistione di hip hop, electronica e cattiveria rock ma con un twist assolutamente inquietante come presenza scenica. Tipo: dei fratelli scalcagnati, invecchiati, meno spettacolari ma più incattiviti dei Die Antwoord (…sì, lo sappiamo, è troppo prevedibile prendere un gruppo sudafricano ed usare i Die Antwoord come termine di paragone, però se una cosa ci sta, oh, ci sta). Notevoli, tra violenza e lo-fi, anche i visual. Quattro persone sul palco, con la carica di quaranta il carisma (un po’ morboso e malato) di quattrocento. Impatto ed inquietudine, testi davvero taglienti. Una vera e propria scoperta e, lo ribadiamo, la cosa più bella che ti possa capitare ad un festival è scoprire delle cose che non conoscevi, non solo (e non tanto) partecipare alle “messe cantate”, alle “solite” conferme in mezzo a bagni di folla.
Quello stesso giorno però, a proposito di conferme, ne abbiamo comunque avute un paio: lo show di Aisha Devi (bellissimo al CTM) regge più che bene anche senza i spettacolari ballerini/performer cinesi al fianco e senza il mastodontico impianto luci del Berghain; non ha la stessa forza, chiaro, ma sta in piedi eccome. Altra conferma, Matthew Dear: è in forma, sorride, si diverte, ha fatto un set dove non è andato giù nemmeno troppo pesante ma ha sempre lasciato alto il tasso di leggerezza e di “swing”, naturalmente relativamente al suo suono abituale. Altra conferma ancora: Paula Temple, che soprattutto nella prima metà del suo set ha dimostrato come la techno sia ancora un terreno dove si può esplorare, non solo un workshop di fabbri che devono piacchiare senza posa (anche se con berghainiana eleganza). Ci sono stati anche i rimandati, nella giornata del venerdì: Stephan Bodzin, né carne né pesce nel suo live set che pare promettere molto ma ti rendi conto presto che mantiene poco, così come Surgeon & Lady Starlight, piatti e prevedibili.
In quella giornata lì abbiamo perso gli act di chiusura (Adam Beyer e Truss), così come abbiamo perso l’intera giornata del giovedì, il giorno precedente, che aveva un menù notevolissimo (citando alla rinfusa: Todd Terje, The Black Madonna, John Tejada, Michael Meyer, lo showcase Raster-Noton con Byetone, la Hauff, Kangding Ray… tanta roba… ma se il giovedì devi lavorare devi lavorare, non ce n’è, e resti in Italia).
Il sabato, sacrificata la parte pomeridiana (Job Jobse e Todd Terry gli headliner) in favore di una consigliabilissima gita a Losanna, il nostro focus è stato lo Zoo, il piano superiore dell’Usine: bella l’idea di fare una line molto techno e al tempo stesso 100% femminile. Che poi va detto che questa non è stata l’unica “riserva indiana” per le donne, perché in modo molto naturale altre erano disseminate nella line up (tra cui anche la nostra Giorgia Angiuli, messa però KO da un’otite quindi assente giustificata). Ad ogni modo: pure in questa faccenda “Techno Girls” del sabato c’è stata una defezione (Heidi), ma Kim Ann Foxman, Masaya e ANNA si sono spartite per bene la nottata, dalle 23 alle 5, e soprattutto la Foxman ha dimostrato di avere una padronanza perfetta della console e del dancefloor. Atmosfera dominante, sua e delle altre? Techno-ma-non-troppo, con molte concessioni houseggianti. Nessun vezzo, nessun trucchetto da “siamo donne!”, molta competenza, la giusta morbidezza di tocca rispetto al (maschile?) colpire duro senza pietà e in modo aggressivo.
Altrove, Motor City Drum Ensemble non si faceva problemi a dover affrontare il main floor, quello del Palladium, e invece di andare sul sicuro si concedeva molte “theoparrishate”, cavandosela decisamente bene. Non male il live di Weval, media ed accettabile l’UK garage di Alex Metric (meno accettabile l’egomania di volere il suo nome scritto in gigantesco sui led alle sue spalle tutto il tempo: davvero un brutto effetto). Per quanto riguarda il Rez, era terreno di caccia per bassi di tutti i tipi, anche quelli un po’ paraculi e commerciali di Camo & Krooked (pieno ma non pienissimo, con loro: strano). Più interessante quanto accadeva in una delle location dislocate-ma-non-troppo (dieci minuti a piedi), le Fonderie Kugler: la giornata del sabato è stata data in appalto ai resident del Concrete parigino. Musica buona, posto affascinante (una tana post-industriale), aria però irrespirabile: vuoi per l’abuso della macchina del fumo, vuoi per la totale assenza di areazione.
Domenica, giorno finale, ci si aspettava un Palladium un po’ scarico: nel main stage infatti c’erano solo Rone live, Agoria e Carl Craig prima in dj set da soli e poi in back to back. Non poco, ma non tantissimo. Invece, non abbiamo capito un paio di cose: ad esempio, che Rone nelle zone francofone ha una popolarità che in Italia si sogna, e lui ne approfitta mettendo su un live set mastodontico e grandioso sia nelle intenzioni musicali che nell’apparato visivo (luci in primis, una roba che manco Jarre al massimo della grandeur e dell’anfetamina). Una di quelle cose in cui, insomma, di solito si cade rovinosamente e si fa la figura del tronfio trombone che fa il passo più lungo della gamba. Niente di tutto questo: perché, col fatto che live “asciuga” il suo repertorio dalle parti più narcise e meditative, quello che viene fuori è qualcosa che conquista ed appassiona davvero. Molto magniloquente, certo, ai limiti della retorica, ma musicalmente parlando meglio di quello che fa un Woodkid – più rotondo, più avvolgente, più imponente. Pubblico? Sala piena e in delirio. E ripetiamo: parliamo del main stage. Altra delle cose che abbiamo capito, ma in parte già lo sapevamo: Agoria, per il pubblico dell’Electron, è un eroe. Lui da solo ha creato il più grande afflusso di persone e la più grande densità di corpi visti in questo Electron 2016. Pienone. Set ok ma non indimenticabile, tanto da farci togliere la voglia di resistere fino a Carl Craig e all’alba.
Molto più invogliante fare un salto allo Zoo, lì accanto, e godersi qualcosa che andrebbe protetto dal WWF: una serata goa trance / psy trance. Ce l’aspettavamo in realtà più piena e più colorata; ma ce l’aspettavamo in realtà anche peggiore musicalmente di quanto invece è stata, in particolare il set di Psyberpunk è stato davvero notevolissimo per quantità di idee e forza di suggestione (niente stucchevoli trucchetti goani, ma molti campionamenti strani, molte dissonanze, equalizzazioni in continua mutazione e molto intelligenti).
Nel menù dell’Electron ci siamo persi l’edizione svizzera del Torture Garden (aka: feticisti di tutto il mondo, venite a ballare la dance e vestitevi STRANO) ma non ci siamo persi l’installazione di Brian Eno, “The Ship”, molto semplice ma molto gradevole e riposante nella sua diffusione immersiva di musica ambient ben fatta e ben pensata, né ci siamo persi ciò che da un lato prometteva tanto ma dall’altro si è rivelato una cocente e fastidiosa delusione: “Horizons Irrésolus”, installazione piazzata al CERN e dal CERN direttamente commissionata, un inutile reticolo di mini-altoparlanti collegati a rete fra di loro posizionato in un padiglione secondario del CERN ancora più inutile e poco caratteristico.
Ad ogni modo, il bottino artistico e di buone vibrazioni dei giorni spesi a Ginevra è stato largamente in attivo: la città è bella, la gente è molto amichevole e sorridente, il festival mette evidentemente tutti nelle condizioni di dare il prorio meglio; e anche in un’annata apparentemente sottotono come questa, piazza invece colpi interessanti e/o sorprendenti in line up. Insomma: lo consigliavamo l’anno scorso, lo consigliamo ancora di più quest’anno. Il dato diffuso dagli organizzatori, che parla di 19.000 presenze, ci sembra un po’ sovrastimato, magari include anche tutti i visitatori dell’installazione di Eno che è rimasta esposta un mese; e se per caso le autorità ginevrine – che finanziano al 30% il festival – si aspettavano un decollo verticale nelle presenze, beh, anche quest’anno sono rimaste deluse; ma a noi pare che l’Electron vada benissimo già così, crescere troppo potrebbe snaturarlo. Lunga vita. La tredicesima edizione, quella del gatto nero come simbolo (…scelta non casuale, si vede che anche nella Svizzera sanno cos’è la superstizione), quella probabilmente coi cordoni della borsa un po’ più ristretti, è stata insomma superata più che bene. Merita tutto il vostro e nostro supporto, in vista di quello che speriamo sarà la quattordicesima.