Quando ho intuito la possibilità d’intervistare Emidio Clementi, ho immaginato che non sarei riuscito a tenere la giusta distanza tra intervistatore ed intervistato, anche se questa spesso si affievolisce fino a diventare sottile come un filo di zucchero, nel momento in cui si tratta di chiacchierare più che di fare domande. Insomma, ho incontrato Mimì Clementi un paio di mesi fa, in occasione di un concerto dei Massimo Volume a Berlino preceduto dalla presentazione della nuova riedizione del suo libro “L’ultimo Dio”, datato 2004. Il mio compito è stato quello di moderare il suo intervento con il pubblico alla Libreria Italiana Mondolibro e quando me lo sono trovato di fianco, seduto sul mio stesso divano, ho pensato all’uomo che mi sono sempre immaginato dai diciassette anni all’attimo prima di stringergli la mano e all’uomo che potrebbe essere adesso, nel momento in cui ogni cosa si dipana e il mito si trasforma in certezza. Le parole dei Massimo Volume e di El Muniria, quei dischi memorabili che ancora conservo gelosamente e che, spesso e volentieri, mi trovo a consigliare ai più giovani, peccando di poca fiducia perché, altrettanto volentieri, vengo smentito da “ragazzini” che conoscono la band bolognese almeno tanto quanto me.
Ho provato a tenermi le domande più personali, quelle che avrebbero voluto uscirmi dalle viscere, probabilmente riuscendoci solo in parte, ma spendendo un’oretta e mezza lontano dal concetto di domanda-risposta e, invece, molto più vicino a quello di una classica chiacchierata davanti ad un bicchiere di vino.
Abbiamo parlato molto, io e Mimì, discutendo di letteratura, di rock e di hip hop, degli anni che passano inesorabili per tutti, nessuno escluso, e di una Bologna che forse si è persa, ma forse ancora no. Abbiamo parlato anche di elettronica.
Ho iniziato ad ascoltare i Massimo Volume quando ero molto giovane e devo dire che, in qualche modo, hanno segnato in parte il mio modo di concepire la letteratura. Ho capito che il ritmo che cerchiamo quando scriviamo, può davvero essere accostato a musica reale. Allora mi sono chiesto qual è stato il tuo pensiero e quello dei Massimo Volume nel momento in cui avete deciso che si poteva anche non cantarle le parole per riuscire ad incastrarle in una canzone. Scarnificare il concetto di cantato e portarlo alla sintesi estrema. Insomma, mi porto dietro questa domanda da molto tempo.
La risposta è che non so cantare. Provo ad articolare meglio: veramente non so cantare, e allora dovevo trovare qualcosa che mi permettesse comunque di fare musica e di essere la voce di una band. Chiaramente negli anni mi sono evoluto e ho creato lo stile che ci ha contraddistinto. Anche ora ho più consapevolezza dell’uso della voce, rispetto a quanta ne avevo vent’anni fa. Secondo me negli anni si è modulata. Mi viene in mente l’ultimo disco dei Massimo Volume, “Aspettando i Barbari”, e percepisco che le parole e la musica sono più agganciate l’una con l’altra. Ad ogni modo, tra la parola parlata e la musica c’è sempre più dimestichezza.
In che senso c’è più dimestichezza?
Per esempio, è vero quello che si dice che la parola parlata risulta spesso fastidiosa, perché ce l’hai molto addosso, come se andasse a spezzare la giusta prospettiva. Quindi tutto quello che viene detto risulta aggressivo ed io ho capito, nel corso degli anni, che un segreto per ripristinare quella distanza prospettica è scegliere le parole più semplici e in cui c’è meno il rischio di diventare retorici. E’ un lavoro su quello che viene detto ed io personalmente, credo di averlo fatto. Forse delle cose me le sono perse per strada, anzi sicuramente.
Senti, che tipo di Bologna era quella dei primi Massimo Volume?
Era vivace. Oltretutto io, Vittoria ed Egle abitavamo vicini, tra il Pratello e la zona appena intorno. Quello era un quartiere interessante nel suo piccolo. C’era un ambiente molto dinamico e non so quanto possa aver inciso su quello che stavamo facendo, ma sicuramente in quel periodo potevi fare quello che ti piaceva, senza pensarci troppo e credo, quindi, che uno scossone alle nostre vite l’abbia sicuramente dato. L’atmosfera di quegli anni a Bologna è stata unica.
E invece cos’è rimasto oggi, di quella Bologna?
Forse c’è una nuova Bologna che a me, uomo di età avanzata, sfugge. Ma molto più probabilmente sono rimasto legato ad un città in cui sono sbocciato artisticamente. Credo anche che ora Bologna rimanga una città comoda, che ti può dare delle opportunità. E’ stimolante e, in qualche modo, ti permette di capire dove sta andando il mondo.
Quanto in quegli anni erano conflittuali i rapporti con l’anima rock che, per quanto alternativa, era più tradizionalista e questi “nuovi barbari” dell’elettronica, con la loro nuova musica, nuove droghe, nuove pratiche e nuovi orari?
Noi li abbiamo sempre guardati con una certa distanza. All’epoca a Bologna c’erano da una parte le chitarre elettriche e dall’altra la prima scena hip hop, quest’ultima dominava decisamente. Non ci siamo mai interessati molto, ma nello stesso tempo devo dire che è stato utile, perché credo che il ritorno della lingua italiana nel cantato è avvenuto proprio grazie all’hip hop. C’era un’attenzione importante verso i testi, verso ciò che veniva detto. La scena immediatamente prima, invece, era quella del garage. Tu forse eri troppo piccolo. Il garage è arrivato e se n’è andato così, senza lasciare molto. Nessuno si ricorda dei gruppi dell’epoca, però è stata una scena molto filologica, con uno sguardo posteriore, mentre l’hip hop vinceva perché descriveva quello che c’era in quel momento. Questo è stato un insegnamento anche per i Massimo Volume, ovviamente con le dovute distanze.
A proposito di questo ti chiedo una cosa forse bizzarra: tu con l’hip hop non c’entri nulla, però in un certo senso utilizzi una grammatica espressiva similare. Stare davanti ad un microfono a parlare invece che cantare. Che ne pensi?
Ci sono dei gruppi e dei personaggi che mi sono sempre piaciuti molto, i Wu Tang Clan su tutti. Invece c’è un lato dell’hip hop che mi infastidisce, mi riferisco alla gestualità o al fatto di sentirsi sempre un clan distaccato dal resto. Ai tempi in città questa cosa si sentiva parecchio. Se non eri dalla loro parte eri dall’altra.
Probabilmente allora molto più di adesso, quantomeno con tematiche più “solide”.
Assolutamente e in più lo facevano cercando d’inserirci testi sociali e politici anche quando diventava un po’ troppo pretestuoso. Mi ricordo, per esempio, quando divisero Bologna in quella “bene” e quella dei “falliti”. Dai, parliamoci chiaro, i figli di papà che però volevano fare quelli che arrivavano dal quartiere malfamato, era una cosa quantomeno ridicola.
Questo accade anche oggi nell’hip hop.
Però c’è una cosa che ho sempre pensato; la loro proposta, che è sempre sembrata la più impegnativa, quella più pesante e la più faticosa sul panorama italiano, quanto sia in realtà estremamente vicina alla forma, invece, più spendibile in questo momento. Perché le mie figlie, che hanno quattro e sette anni, quando sentono l’hip hop mi dicono di non cambiare stazione o canale.
Comunque, per tornare alla tua domanda, anche adesso, per dei testi a cui sto lavorando, cerco di ascoltare delle cose hip hop, per riuscire a dare più ritmicità, lavorare sulle rime, che è una cosa che non avevo mai fatto prima di “Aspettando i Barbari”.
Infatti è una cosa che ti avrei chiesto: con “Aspettando i Barbari” il meccanismo della rima si sente eccome.
Sì, ed è una cosa molto delicata, perché ci metti un attimo a rischiare di finire in cose come “Gatto Matto” di Roberto Angelini, però è vero che allo stesso tempo riesci a dare più musicalità. Quello che ho capito è che devi trovare delle rime insolite, in modo da muovere un poco il testo.
Esatto. Ecco, parliamo di El Muniria, che è stato un progetto che a me, personalmente, mi ha regalato molto e mi ha dato particolare ispirazione. Come consideri, con il senno di poi, quell’esperienza?
Non c’è stato disco che è passato più inosservato di “Stanza 218” di El Muniria.
Infatti lo trovo assurdo.
Ma in realtà con il tempo mi sono ripreso qualche soddisfazione, perché diverse persone mi hanno rivelato che gli è piaciuto molto. E’ stato un disco incredibilmente faticoso, dall’inizio alla fine. Abbiamo fatto poche date e quella manciata sono state massacranti dal punto di vista tecnico e umano. Ci sono stati tanti scazzi all’interno di quel progetto. Il disco l’abbiamo concluso in due, io e Massimo Carozzi e devo dirti che, ai tempi, c’era la voglia di tornarci sopra, però forse andrebbe fatto sotto altro nome. Vedo così stancante tutto quello che ha girato intorno a El Muniria che forse è meglio lasciare perdere.
Oltretutto, se non sbaglio, il disco è stato registrato in parte a Tangeri e in parte in Italia.
Esattamente, infatti anche quella è stata una mazzata, il dover ricostruire i pezzi. Era come un cadavere smembrato che alla fine siamo riusciti a concepire, ma con la stessa difficoltà di un parto.
Talvolta succede che le cose più sofferte diventano poi quelle che più agogni, invece mi pare di capire che per quanto riguarda El Muniria sia diverso. Mi sembri distaccato.
Considera anche che è un disco uscito dieci anni fa. Il tempo è passato e mi sembra inutile, a questo punto, dargli una continuità. Forse prenderei soltanto degli elementi di quel lavoro, che non appertengono ai Massimo Volume. C’erano poche chitarre, ma tanta elettronica. C’era uno stile di voce leggermente diverso da quello che utilizzo con i MV, quindi delle cose potrebbero essere riprese, però continuare non lo so. Mi avevano chiesto di ripubblicare una versione in vinile e su quello ci penserei.
Non sarebbe una brutta idea.
Sì, ma vedi, anche in questo caso, non si può sempre tornare indietro. Perché dobbiamo farlo? Moriremo ricoperti di archivio. Alcune cose è giusto che si perdano, le fai e poi non sai più dove le hai messe. E’ bello, no?
Sì, forse. Non lo so. Tu guardi molto al futuro.
Ma sì dai.
Non è una cosa da tutti, molti artisti restano ancorati al passato in modo viscerale.
Lo so, ma infatti è seducente. Anche su di me funziona così, però poi quando ci rifletti un attimo sopra, ti dici: proviamo ad andare avanti.
Quindi con El Muniria c’è stato anche un passaggio tra qualcosa che hai fatto per tanto tempo e qualcosa di nuovo e avanguardistico. Perché l’elettronica?
A parte che sono un appassionato. No, forse appassionato è troppo, perché poi magari la metà dei nomi che tu mi citi non li conosco, però l’ho sempre ascoltata e mi piace. Anche adesso sto lavorando con il nostro fonico e produttore ad un disco di elettronica e pianoforte. In più l’elettronica ti da l’opportunità di comporre da casa. A me lo studio di registrazione piace, perché è un luogo dove non ti porti dietro i pensieri e lavori solo su quello. D’altro canto è anche vero che, lavorando da casa, puoi smistarti con la tua quotidianeità. Un altro problema con El Muniria, per tornarci un secondo, è che concludemmo il disco, ma ci accorgemmo di non saperlo suonare. Perché era fatto a strati, quindi non sapevamo come portarlo in giro.
In che senso?
Nel senso che noi non lo avevamo mai suonato insieme. Ci abbiamo messo la chitarra, poi qualcuno ci ha aggiunto le macchine, qualcun altro ci ha inserito altra roba e alla fine ci siamo detti: come facciamo a farlo live adesso? Quindi abbiamo dovuto riscriverlo e, ancora più difficile, impararlo.
E’ successo anche con “Aspettando i Barbari”, vero?
Sì, e lo abbiamo riadattato per il live.
Quindi la segui molto l’elettronica oggi?
Ci sto attento. Mi piace Tim Hecker, i Boards of Canada, Actress, ho comprato i loro dischi, ma anche tanti altri. Diciamo che ci sono. Anche perché, non voglio fare lo sciovinista, però è vero che con l’elettronica si ricrea una geografia che non è a tutti i costi “americanocentrica”. Gli Stati Uniti non sono centrali, ci sono i polacchi e gli austriaci che fanno l’elettronica di uno certo spessore, per dire, e questa è una cosa che mi entusiasma. La geografia diversa, anche senza volerci arrivare ideologicamente.
Probabilmente l’elettronica non ha radici comuni solide.
Esatto, allora tu puoi dire ‘sono un austriaco e faccio elettronica’ e appari meno sfigato che se dici ‘sono italiano e faccio rock’, perché nel secondo caso ti recludi immediatamente in una nicchia ai confini dell’impero.
Senti, cambiamo discorso: quanto devi cambiare di ruolo, passando da quello di frontman davanti al microfono a quello di scrittore? Ovvero, quanto sono diverse le due grammatiche?
Sono molto diverse. Io ho sempre cercato di dividere le due cose, quindi prima scrivere i testi di un disco, poi dedicarmi ai racconti. Alla fine, però, si vanno spesso a mescolare e sono passaggi che ho sempre sofferto. Quello che posso impormi di fare è cercare di allontanarli l’uno dall’altro nell’arco della giornata, così da riuscire a sentire i due respiri differenti. Anche se scrivi un racconto, nella sua brevità, le cose le devi comunque dire, mentre con una canzone puoi lavorare un po’ di più sulla fascinazione e sull’evocazione di alcune frasi che possono avere un potere legato alla musica e che, forse, dette senza un suono non sarebbero la stessa cosa. E’ pur sempre scrittura, ma io sento una differenza netta fra le due voci. Preferisco scrivere testi per canzoni, se devo dirla tutta. Raramente mi diverte scrivere narrativa, quasi mai. Detto questo, sono molto contento di farlo, è una cosa preziosa. Quando tiro fuori una bella pagina, mi cambia la giornata, diventa ricca.
Scrivere è sofferenza.
E’ molto faticoso. Certe volte mi sembra che scrivere sia la cosa più difficile del mondo, perché le cose le devi dire per forza, non puoi affidarti ad un segno in cui riesci, talvolta, a racchiudere ed evocare qualcosa, avvalendoti un poco anche dell’inconsapevolezza. Con la scrittura non ce la fai, devi essere lì con tutto te stesso. E’ dura.
Devi stare attento a lasciare il giusto spazio a chi leggerà, perché non puoi permetterti di dire ogni cosa. Il lettore ha bisogno, come anche nelle canzoni, di farsi il suo viaggio. Quindi chi scrive ha un peso in più da sostenere.
Hai perfettamente ragione.
Quindi parliamo del tuo libro che esce ora in una nuova edizione.
“L’ultimo Dio” è il risultato di un fallimento. Cioè l’idea di scrivere un romanzo storico su Emanuel Carnevali, l’autore de “Il Primo Dio” che, per chi non lo conosce, è uno scrittore italiano che da molto giovane è immigrato in America e ha sempre scritto in lingua inglese senza, però, riuscire a pubblicare nulla fino ad un certo punto. “L’ultimo Dio” è diventato, paradossalmente, il mio libro più autobiografico, perché dentro ci ho messo tutto quello che mi ha portato verso la scrittura e verso lo stesso Carnevali, quindi volendo è anche un romanzo di formazione artistica. Insomma, l’abbiamo pubblicato e mandato nelle librerie dieci anni fa, dunque aveva fatto il suo corso e non si trovava più. Mi sembrava veramente un peccato per quelli che credono nella qualità del libro stampato. E’ sempre un peccato quando vuoi un libro e non lo trovi. Visto che sto lavorando bene con la Fandango Playground e loro sono intenzionati a far uscire nuovamente tutti i miei lavori, abbiamo pensato d’iniziare proprio con “L’ultimo Dio” impreziosendolo con le tavole di Andrea Bruno. Abbiamo rivisto il testo, anche se non è così diverso dalla prima edizione. Più che altro abbiamo lavorato sul “raffreddarlo”, perché, in alcuni punti, sembrava eccessivamente emotivo. Pensa che un capitolo l’ho riscritto quasi per intero.
Forse è cambiata la tua emotività rispetto al 2004.
Mettici pure quello. Però c’erano delle pagine – ma anche semplici parole – che rileggendolo ho pensato che avrei potuto dire in altri termini e frasi. Alla fine l’ho fatto.
Quanto sapevi che il ritorno dei Massimo Volume sarebbe stato così solido e non una meteora isolata?
Zero. Pensavamo che la data di Torino al Traffic Festival del 2008, che coincide con il ritorno vero e proprio, sarebbe stata l’unica. E’ vero però, che lavorando alla sonorizzazione di “La Caduta della Casa Husher” * ci siamo accorti che era molto più semplice del previsto. E’ come se il nostro suono fosse rimasto lì dov’era sempre stato, tra gli amplificatori e i jack. Quella è stata la vera spinta per farci dire: Dai, buttiamo giù dieci canzoni. Sicuramente ci verranno. E’ stato rischioso, perché sarebbe stato un attimo in cui, dopo l’uscita del disco, la gente avrebbe potuto dire: Ah, però si sente che sono passati vent’anni. Per dirtene una, io ho ascoltato l’ultimo dei Public Image Ltd., “This is Pil” uscito nel 2012. Ecco, secondo me è un disco che spacca. Però nelle recensioni leggi che si sente il passare del tempo. Voglio dire, è ovvio che è passata l’epoca in cui John Lydon era il vero John Lydon, però perché uno non può valutare le cose nel contesto in cui sono? Ormai il rock non è più qualcosa di post-adolescenziale, perché Tom Waits ha settanta anni, I Rolling Stones ce l’hanno anche loro, e via dicendo. Uno inizia a vent’anni a suonare il rock e muore suonando il rock, perché è la sua musica. I jazzisti e i bluesman l’hanno fatto.
Beh, comunque nel vostro caso è andata bene.
Sì, ci è andata bene. (ride)
Quali sono secondo te i cantautori italiani e stranieri letterariamente più interessanti nel loro modo di fare musica e comporre testi?
Ora non voglio fare lo snob che ti tira fuori il nome particolare, ma Flavio Giurato è fra questi. Lui mi commuove, mi emoziona, è uno che a livello di testi è un mostro di bravura. Anche Vic Chesnutt è incredibile, anche se sono particolarmente legato solo agli ultimi due album. Infatti ho un grande rimpianto legato all’artista, perché secondo me dopo “At The Cut” lui avrebbe davvero avuto la possibilità di scrivere un disco ancora più bello. Ci sono dei dischi di Bob Dylan che sembra assurdo cosa riesca a dire con le parole, oppure Coen è un mostro, nonostante negli ultimi anni si rifaccia molto a se stesso e a quello che è stato, però ci sono dei dischi in cui c’è della pura letteratura. Secondo me i grandi cantautori hanno tolto terreno alla letteratura, perché si sono andati ad appropriare di quel terreno di cui era proprietaria la poesia, rendendola molto più comunicativa ed emozionante. Comunque te lo dico, è pieno di gente che sa scrivere.
Chi si avvicina di più ai Massimo Volume a livello di concetto. Anzi no, a livello di aurea.
Forse i Bachi da Pietra, anche se loro sono un po’ più concettuali di noi, ma a livello d’impatto sul palco ci somigliano molto.
L’ultima, anche se secondo me è una mia pippa mentale. Mi sono sempre chiesto che cosa cercasse di dire Emidio Clementi nei suoi testi. Non che cosa volesse dire, ma cosa cercasse di dire. Secondo me sono due cose completamente diverse.
Ti dico una cosa: quello che ho cercato di dire adesso l’ho dimenticato ed ora resta quello che ho detto, però quel senso di frustrazione legato alla spinta del “ecco come si dovrebbe dire una cosa” e quello che effettivamente riesci a dire, resta sempre. Per fortuna, come quello che dicono riguardo alle donne e al parto, te lo dimentichi.
Secondo me è come quando fai un sogno e credi di ricordartelo benissimo. Poi ti chiedono di raccontarlo e mentre lo fai senti che non lo stai raccontato davvero come lo hai visto mentre lo stavi sognando.
E’ esattamente così. Però certe volte ti stupisci, perché non riuscendo a dire quello che veramente volevi, vai in realtà, e quasi casualmente, ad aprire delle porte molto interessanti.
* E’ un film di Jean Epstein, ripreso da un racconto di Edgar Alan Poe, sonorizzato dai Massimo Volume nel 2008 a seguito di una richiesta del Museo del Cinema di Torino in collaborazione con il Traffic Festival. (nda)