L’obbligo di creare ad ogni traccia una nuova “Stan”, una nuova “Just Don’t Give a Fuck”. L’obbligo di giocare ancora ad essere Slim Shady, riascoltare una volta al mese uno di quei dischi adolescenziali tipo Blink 182, o Limp Bizkit e di tutto un armamentario tardo adolescenziale e incurabile come le maglie Santa Cruz o le scarpe Dc Shoes. L’obbligo di farsi produrre da Dre, di avere un feat con Xzibit, i capelli ossigenati e quattro barre contro Britney Spears…
Chi davvero pensa questo di Marshall Mathers, è probabilmente il suo killer più spietato, il demone virus, che ha avvolto ed avvolge la carriera di Slim Shady. Chi lo fa, chi lo ha fatto è colui che dopo “Encore” si è messo strisciante, a braccia conserte, aspettando i passi falsi e i cali sul beat, per dire che “…non è più quello di una volta“, addirittura azzardandosi a definirlo meteora di passaggio. Poco importa del rispetto incondizionato di tutti i suoi colleghi, poco importa che Eminem spaccasse letteralmente il culo appena apriva bocca anche solo con un freestyle.
Rimane in effetti l’annoso problema dei beat: i beat di Eminem non valgono Eminem, i beat per Eminem li fa lui con Fruity Loops, Eminem dovrebbe farsi produrre da Dre, da Kanye, da Night Skinny, da Sandrino. Si può essere d’accordo, ma forse in parte; perché se è vero che Eminem non ha più i beat come “Guilty Coscience” o i ritmi saltellanti e tarantellanti di “The Real Slim Shady”, è anche vero che sono passati vent’anni da quei suoni e il mondo del rap è profondamente cambiato. Sono cambiate le skills, i beat, i crescendo, i ritornelli praticamente spariti (almeno quelli di un certo tipo). Si contano sulle dita di una mano i rapper e i producer capaci di mantenere un’integrità ed una coerenza musicale nel corso della loro carriera. Chi l’ha fatto, perché (solo) quello sapeva fare e perché quello voleva fare, ha raccolto molto ma molto meno di ciò che ha seminato, coerente soprattutto verso i dettami della disciplina, un po’ meno verso se stesso e il suo portafoglio.
Eminem viaggia ormai verso i cinquanta (ne ha quarantasette), è un business man che ha guadagnato milioni, è passato verso mille problemi mentali (che forse non ha sfruttato a dovere, secondo le ciniche regole del mondo dello spettacolo), non dice messa, non produce scarpe, fa rap a spesso più a suo uso e consumo, con il risultato di farsi più spesso del male che del bene. “Music To Be Murdered By” nuovo album uscito in questi giorni, inaspettato e forse nemmeno troppo desiderato, dopo il seppur sufficiente “Kamikaze” di un paio di anni fa che poco aveva smosso, riesce invece a sorprenderci, a piacerci e addirittura a farci riascoltare un paio di tracce in loop continuo da te giorni.
(Eccolo, il nuovo album; continua sotto)
Slim Shady è morto e sepolto, e non è nemmeno in fase di resurrezione; rimane Marshall Mathers, controverso, provocatorio, litigioso e menefreghista, che sotto l’egida sorveglianza di Sir Alfred Joseph Hitchcock sforna una sequela di barre per, come dicevamo prima, dimostrare a se stesso prima che a gli altri che è il migliore, quello con la tecnica migliore e le barre migliori. Nelle 20 tracce, è il solito Em in procinto di avere un travaso di bile, capace di fare a pezzi sé stesso in primis, nemici, ex fidanzate, padri addottivi e tutta la decadenza non solo americana ma mondiale, compresi i finti moralismi da dissacrare (vedi la storia delle vittime dell’attentato a Manchester, su cui nel disco spende parole ciniche, come personaggio vuole, ma nella realtà e nel mondo reale dei fatti lui ha dato un grande contributo alla raccolta fondi). Chi con lui divide le tracce con un featuring o un ritornello, dà il meglio, sì, compreso Ed Sheeran, obbligato com’ è a tenere botta al matto e a reggere un ruolo da comprimario più difficile di sempre.
Quella che racconta Eminem è una “America perdida” che odia Trump ma probabilmente lo rivoterà, che odia i morti assassinati dalle troppe armi di libere circolazioni, ma che mai e poi mai si schiererà contro la Rifle Association come da anni dovrebbe fare. In questo contesto risulta normale, anzi anche abbastanza scontato non trovare più l’Eminem che ci faceva sghignazzare e tollerare frasi come il vecchio ritornello di “Kim”, e che ci ha fatto tollerare la sfilza di bitches, pompini e genitali negli orifizi, a cui ci ha abituato agli inizi, a cui ci siamo assuefatti per anni e in cui solo ora ci svegliamo dal nostro complice torpore.
Pensare di prendere esempio dai rapper, pensare che i rapper siano di esempio tanto quanto potevano esserlo i Beatles, Hendrix, Prince o Carmelo Bene anni orsono, è una mezza stronzata. Il mondo non è mai migliorato per merito dei rapper, anzi forse è diametralmente vero il contrario. Ricordiamoci cosa cantavano i Moob Deep, ricordiamoci gli anthem degli Onyx (“Gheto life? Fuck that, betta off death“), negli anni non si è evoluto nulla a livello di concetti, anzi semmai si è cementificato sugli errori e sui dogmi che il livello socioculturale di chi faceva rap ai tempi ha creato.
Non c’è nulla di culturalmente trascendentale nel rap di vent’anni fa, tolte ovvie e sporadiche eccezioni, come non c’è nulla di rilevante e politicamente o socialmente importante oggi. Poco importa che oggi gli esempi arrivino da un Sunday Service misogino e omofobo, come lo scorso a cui avrebbe partecipato Yeezy; e davvero poco importa, passando all’Italia, se gli stessi input arriveranno da chi si andrà ad esibire sulla storica passerella del nazional plastico popolare, dove tra poche settimane sentiremo di Marco che se ne andato con Licia, trottolina amorosa conosciuta su Tinder in una one night stand da urlo. Accade? Pazienza. La cosa ti tocca solo se ti vuoi far toccare. La storia, secoli di storia e di battaglie ci hanno restituito l’arma fondamentale del libero arbitrio: quello di non guardar Sanremo, di ignorare Kanye, manifestando noncuranza più che intolleranza.
Peter Pan è ormai nonno, Slim Shady è morto e forse sarebbe il caso di cominciare a vivere anche noi. Prendendoci le nostre responsabilità.