Abbiamo avuto l’onore di ospitare per tanto tempo Mattia Grigolo fra i nostri collaboratori: le sue recensioni, la sua intervista a Sven, la sua serie di monografie sulle colonne sonore. Tante perle, tante. Ad un certo punto la sua quotidianità ha subito un’accelerazione improvvisa: il trasferimento a Berlino, il matrimonio, la nascita di un figlio, l’avvio di più attività (il Wale Café, i corsi de Le Balene, Yanez). E’ così che la giornata è diventata troppo piccola per dare il proprio contributo regolarmente anche a Soundwall.
Le porte però sono sempre aperte. Eccome. L’amicizia resta, la stima reciproca anche. Tant’è che qualche giorno fa ci ha mandato uno scritto: “E’ la recensione di un live di Fennesz, ma non so se va bene. E’ molto personale. Se mi dite che non va bene per il sito capirei perfettamente, in caso la uso per i fatti miei. Però intanto volevo farvela leggere, sentivo che dovevo farla leggere a voi”. La recensione è effettivamente molto personale. Non è una recensione. Non è un articolo. Non un momento di critica musicale. Ma è molto importante, e siamo assolutamente onorati di pubblicarla.
C’è un messaggio fondamentale, dietro. Il messaggio è che la musica può emozionare ancora, anche se non si è più ventenni, anche se non si è più liberi&belli nel mondo ma si hanno responsabilità come lavoro, famiglia. Il messaggio è che Berlino è, ancora oggi, un catalizzatore di emozioni – di emozioni molto particolari. Non solo quelle che si vivono facendo gli “Easyjet ravers” al Berghain o al Watergate o in qualche posto più underground, non solo quelle di chi prende la capitale tedesca come un gigantesco playground dove giocare ventiquattro ore al giorno.
Buona lettura.
Sono seduto in terra. L’erba è umida e percepisco il tessuto dei jeans bagnarsi. Le suole delle scarpe scivolano nella brina e non riesco a mantenere le gambe raccolte. Le abbraccio per non lasciarle scappare. Sono appena uscito da un club, è la tipica alba gelida a Berlino. Sotto di me, oltre una palizzata di ferro battuto, scorre il fiume. Si porta via tutto ciò che non è abbastanza pesante da andare a fondo. Penso che la vita, in fondo, è un torrente, ed è buffo immaginare le cose pesanti che restano e quelle leggere che vanno, nel bene, nel male e nel quanto riusciamo ad essere dozzinali, talvolta.
Indosso delle cuffie, mi avvolgono e proteggono.
Ascolto una canzone che si prende i suoni del primo mattino e li mastica.
S’intitola Black Sea e chi l’ha composta si chiama Christian Fennesz.
Il Silent Green è un centro culturale ricavato dall’ex Krematorium Berlin-Wedding, nel quartiere omonimo, a nord-ovest della città.
Il pensiero che all’interno del luogo dove ora siedo, un tempo si bruciavano i defunti, mi fa rabbrividire. Mi guardo intorno in cerca di qualcosa che mi porti un indizio della sua vera natura, ma non ne trovo, a parte l’illuminazione a mio parere eccessivamente fredda. Siedo sul pavimento di una stanza ottagonale, la balconata sopra la mia testa ne percorre il perimetro, in un angolo semibuio un pianoforte a coda giace coperto da un telo nero.
Insieme a me siedono a terra poco più di un centinaio di persone.
Sul palco sta suonando Noveller. Trovo i volumi eccessivamente bassi.
Ho avuto una vita prima e una dopo la nascita di mio figlio, e ho avuto uno spazio-tempo perfettamente al centro, un passaggio fondamentale, utile ad ogni padre, anche se non viene percepito tale da chiunque lo sta per diventare.
Mio papà diceva che essere padre è un lavoro, il più difficile di tutti, ma grazie al quale si guadagna tanto quanto non potrai mai guadagnare nella tua intera vita, nonostante la moneta di scambio non sia il denaro.
Non ho mai capito cosa volesse dire, ora forse lo intuisco, fra qualche anno probabilmente ne padroneggerò il significato. Poi arriverà il giorno in cui userò le sue stesse parole guardando negli occhi il mio ragazzo.
Ho avuto una vita prima la nascita di mio figlio e in quella dopo ho realizzato che non potevo più tornare indietro. Nello spazio-tempo centrale ho avuto paura.
L’alba in cui i miei jeans si inumidirono di brina, mentre ascoltavo “Black Sea” di Fennesz scivolare ovunque intorno a me, ho pensato di andarmene, perché ero terrorizzato. Poi sono tornato a casa e sono rimasto.
Però mi sono sentito un fallito, un codardo, un figlio di puttana.
Ecco perché non volevo venire a questo concerto ed ecco perché ci sono venuto.
Sarah Lipstate, in arte Noveller, musicista e filmmaker americana, imbraccia la chitarra e si muove sul palco, stratificando suoni sopra altri suoni, grazie alla sua loopstation. Sembra scoordinata nei movimenti, ma è proprio questo – quantomeno per me – che ingigantisce il suo fascino.
L’ho detto, i volumi sembrano bassi, oppure sono io che ho sbagliato posizione nella sala. Ho scelto di sedermi defilato sulla sinistra rispetto al palco.
I droni riverberati di Noveller rimbalzano e si distribuiscono in modo omogeneo, creando una morfologia sonora completa ed estatica.
Alle sue spalle scorrono visual dai colori caldi, pennellate digitali lente e liquide.
Ad un certo punto, durante il primo anno di vita di mio figlio, ho sentito il bisogno di ascoltare la musica, di non leggere altri libri, di riempire i miei minimi vuoti di tempo con qualcosa che mi portasse lontano per un momento. Allora ho iniziato ad andare ai concerti. Non avevo una preferenza, se non quella di ascoltare la musica in quanto materia non solida capace di entrare nelle viscere.
Mi sono trovato, sorprendentemente, a scegliere la musica del mio passato, mentre sono sempre stato uno rivolto ai nuovi suoni.
Dopo la nascita di Jonah, è stato sempre più difficile ritagliarmi del tempo per farlo. Allora sono andato a dei concerti da solo, mi sono preso il mio tempo e questo mi ha aiutato a realizzare la necessità di un distacco dal prima e dal dopo. In quel momento mi sono accorto di non aver ancora fatto il passo lungo, quello necessario ad abbandonare la parte centrale.
Ed è lì che ho visto cosa sono stato e cosa sarei diventato, l’ho guardato attraverso la patina vischiosa e agrodolce della malinconia. Poi mi sono voltato indietro, accorgendomi che non ne avevo voglia, perché ciò di cui necessitavo era davanti a me, in quel difficile lavoro che è l’essere padre.
Le luci si abbassano, il buio incombe su di noi, all’interno dell’ex crematorio. Un ragazzo è seduto ad una batteria elettronica. È italiano, ci siamo conosciuti mesi prima, durante una serata in un locale molto piccolo con pochissima gente. Mi hanno colpito prima i suoi occhi e poi la sua musica. Gli uni rispecchiavano l’altra.
È The Nent e questo è il suo nuovo live A/V.
Le visual sono molto belle, creano un connubio perfetto con quello che sta suonando. I droni si impadroniscono della sala ottagonale, lui picchia eco oscure sui pad, lente e magnifiche. Quando applaudo, alla fine del live, lo faccio con fermezza e consapevolezza. Quando lo incrocio, tra la gente che attende l’arrivo di Fennesz, gli stringo la mano sorridendo, mi butto in quegli occhi che sono dei crateri e la vedo, quasi impercettibile, la soddisfazione di chi sa di aver fatto una grande cosa.
Ora, per evitare che il mio ego, sottoforma di esperienza personale, seppure non fine a se stessa, schiacci quello che è un report di un live, provo a chiudere la questione padre-figlio con una morale che potrebbe risultare paternalistica, ma tant’è: la musica è difficile. Difficile farla e difficile ascoltarla. La musica determina dei passaggi. A qualcuno può risultare banale, ma non lo è per nulla. È, invece, meravigliosamente incredibile immaginare che dentro quella cosa astratta eppure così solida e pesante e inviolabile, risieda un io altrettanto intoccabile e intangibile.
Fennesz non ama i colpi di scena, all’uscita, al termine del live, qualcuno sembra non essere convinto fino in fondo della sua prestazione, dicono che ha fatto il compitino, che non ha osato e ha suonato quello che sapeva doveva suonare. Mi chiedo se in fondo non sia giusto così.
Io, che l’ho già visto altre volte, ho sentito la potenza della tempesta e la calma disperata di ciò che ne nasce immediatamente dopo. Per me Fennesz è questa cosa e, per quanto mi riguarda, è un compitino che funziona sempre. La musica è una cosa difficile, dopotutto.
E lui non lo sa, Fennesz. Non ne ha idea. Non sa niente di cosa significhi per me tutto questo. Prego non suoni Black Sea, perchè non potrei sopportarlo. Poi mi lascio andare e, da seduto, scivolo tra le gambe e le costole dei miei amici e delle persone intorno a me, a galleggiare senza saperlo, tra rumori bianchi ed una chitarra che è tutto, ed è la prima e l’ultima cosa che vedo e ascolto prima di chiudere gli occhi e prendermi quello che posso del mio prima e del mio dopo.
“Black Sea” non l’ha suonata e io so che è giusto così. La lascio in quell’alba bianca e congelata di una Berlino lontana, che non riconosco più. L’abbandono a scivolare nel fiume, chiedendomi se resterà o se andrà insieme alla corrente.
La lascio lì, perché definisce il mio passaggio e lo sintetizza.
Ed io continuo a galleggiare, perché io sono una cosa leggera, ora.