Non preoccuparsi mai di essere sulla cresta dell’onda, non adattare mai ciò che si fa al pubblico, il grande pubblico, che spesso ti esalta e ti abbandona con la stessa velocità di una hit di mezza stagione. In due parole è questo Enrico Mantini, quando uscivano i suoi primi lavori era il lontano 1992, non c’erano i social, l’house music e in generale la musica elettronica avevano un pubblico ristretto, il dj non era la star da cachet a tre zeri. Con queste premesse, anche nel nostro bel paese, qualcuno iniziava a coltivare la propria passione, buttava giù idee che a distanza di vent’anni sono ancora lì, attuali oggi come ieri. Il segreto di un artista come Enrico è forse il più semplice anche se spesso ignorato consapevolmente e inconsapevolmente: star dietro a se stessi senza cedere a facili compromessi. Abbiamo scambiato due parole con lui e con piacere abbiamo scoperto la purezza e l’umiltà che da sempre lo contraddistinguono.
Come nasce la tua passione verso la musica, com’è cominciato tutto?
Non so dirti con esattezza quando ho iniziato ad appassionarmi alla musica, penso sia stato qualcosa di innato in me. Ricordo che all’età di dieci anni, contrariamente al trend dei miei coetanei, comperai il mio primo album di disco-music in vinile. Nel tragitto scuola casa ascoltavo sistematicamente una radio locale che mandava brani di questo genere… Le lezioni di pianoforte, la voglia di poter registrare sul vecchio Super8 di mio padre i brani più belli che ascoltavo in radio per poi poterli riascoltare la sera prima di andare a dormire. C’era una sorta di magnetismo tra me e la musica insomma. A distanza di anni penso sia qualcosa di strettamente correlato alla voglia di sognare che avevo sin da piccolo, all’esigenza di dipingermi in un universo tutto mio. L’idea di fare il deejay è arrivata a quattordici anni, non appena ebbi la possibilità di entrare in un club e fare la piacevole scoperta che c’era chi, appassionato di musica come me, riusciva ad instaurare un feeling con il pubblico a tal punto da poterlo trasportare nel proprio universo. Fu qualcosa di davvero affascinante per me. Avrei finalmente potuto condividere ciò che amavo fare di più, la musica, con tante altre persone. Intraprendenza e determinazione hanno fatto il resto, chiaramente coadiuvate da una smodata passione.
Dai tuoi primi lavori su label del calibro di “UMM” ci separano vent’anni, decisamente tanti se si pensa a come spesso artisti compaiono e scompaiono nel giro di pochi anni, se non mesi, tu sei ancora parte integrante della scena, come hai fatto a sopravvivere tutto questo tempo?
Indipendentemente dalle mode, per quanto ne sia stato affascinato anche io nel corso degli anni, ho sempre continuato a fare ciò che mi è sempre piaciuto fare, ciò che mi faceva stare bene. In altre parole ho sempre navigato il mio universo, poco curante di ciò che mi accadesse intorno. Poi è successo che il ritorno alle sonorità house più classiche da parte di personaggi di riferimento nella nightlife internazionale riportasse a galla i miei lavori passati.
La cosa che più colpisce dei tuoi lavori è sicuramente l’essere “fedele” al proprio concetto senza mai adeguare i lavori in studio a quelle che sono le tendenze del momento, mi piacerebbe che ci parlassi di questo tuo modo di procedere senza mai farti influenzare dal “nuovo”.
Quando involontariamente crei qualcosa di originale, di personale, qualcosa che ti riesce naturale fare, va da sé che è difficile discostarsene. Al contrario ho sempre avuto difficoltà nel creare forme di house music differenti dalla mia idea, sebbene ne fossi affascinato, a tal punto da preferire l’esplorazione di nuovi territori quali la drum’n’bass, l’hip-hop, la new wave ed il jazz.
Veniamo ai giorni nostri, da ormai un anno sei parte integrante di Half Baked, come ti trovi in questo nuovo progetto con base londinese?
Scoprire a Londra un party così colorato e dall’energia magicamente positiva è stato per me qualcosa di davvero stimolante. Ne avevo sentito parlare in giro ma il fatto di poterlo vivere in prima persona è andato ben oltre ogni aspettativa. Poi con Bruno e Remi è stato amore a prima vista. Ricordo con piacere che mi proposero di unirmi a loro sin dalla prima volta che mi ascoltarono suonare. Ad oggi credo che Half Baked abbia le carte in regola per diventare uno dei party più belli d’europa e le feste che abbiamo fatto recentemente a Barcellona, Parigi, Berlino e Mosca testimoniano la capacità del gruppo di portare in giro la nostra inconfondibile energia.
A proposito, cosa ci dici di “Overflowing” EP uscito di recente proprio su Half Baked?
“Overflowing” nasce dalla magia di tutto quello che ti ho appena detto. Se avessi voluto sforzarmi di crearlo in un periodo differente non ci sarei probabilmente riuscito. L’EP racchiude in sé tutta la maturità stilistica acquisita nel corso degli anni e la combina con l’esperienza di deejay, facendone al momento la mia release migliore, sia sotto il profilo tecnico-artistico che di impatto sul dancefloor. Adoro suonarlo e la gente adora ballarlo, combinazione perfetta direi!
Nelle produzioni so che sei molto affezionato all’hardware, cosa troviamo nel tuo studio? Vuoi parlarci un po’ delle tue tecniche di produzione?
Affezionato è il giusto termine. Praticamente è quello che uso e so usare da quando iniziai 25 anni fa, per cui lo faccio con una certa naturalezza. Sebbene il mio set-up sia cambiato nel corso del tempo, il fatto di utilizzare ancora la strumentazione hardware, senza intromissione del computer nel processo creativo, mi fa da stimolo, consapevole del fatto che attualmente chi fa uso di macchine lo fa integrandole a sistemi computer based. La MPC1000 è il cuore del mio sistema, la utilizzo all’inizio per lavorare sui suoni grezzi e per dare forma all’idea che ho. Costruisco il groove al suo interno e ne inizio la stesura e l’arrangiamento con il suo sequencer. A lei sincronizzo la TR909 o l’Electribe a seconda del tipo di brano sul quale sto lavorando, e controllo i vari expander collegati. Per i suoni di synth faccio affidamento su analogici quali il recente Tetra o i più vecchi Cheetah MS6 e il Waldorf Pulse, mentre ho un’intramontabile TX81Z che li affianca con la ‘gommosità’ tipica della sintesi FM. I mixer sono un vecchio e piccolo Mackie 1202 nella maggior parte dei casi o un Soundcraft Spirit Live dei primi anni ’90 quando necessito di più canali. Gli outboard per gli effetti di delay e riverberi sono un PCM70 ed un piccolo EMP100. Non faccio uso alcuno di processori di dinamica o equalizzatori di canale, lavoro i suoni esclusivamente all’interno delle macchine e li faccio sommare dal mixer totalmente in flat, aggiungendo un pizzico di effetto dove necessario. Nel registrare il risultato finale su 2 canali entra obbligatoriamente in gioco il computer, sostituendo il tradizionale nastro DAT. Wavelab è il mio software di riferimento che mi consente di monitorare in tempo reale i livelli di picco, quelli Rms e l’analisi di spettro del segnale in ingresso. Fatto il master è Mathieu Berthet a prendersene cura e a finalizzare la traccia in termini di dinamica generale.
In definitiva come artista preferisci l’aspetto della produzione o del djing?
Bella domanda! Sono tentato di risponderti l’aspetto della produzione perché è qualcosa che mi appartiene e che mi da modo di esprimere le mie sensazioni, i miei stati d’animo. Qualcosa di davvero intimo e personale insomma. Ultimamente però, a differenza degli anni passati, fare il deejay sta rivestendo un ruolo chiave nella mia vita e l’interazione che si è creata con il mio pubblico è davvero fantastica. Riesco sorprendentemente a creare stati emotivi e suscitare piacevoli sensazioni in chi mi ascolta, sensazioni che il più delle volte riflettono ciò che sto vivendo interiormente in quel momento. Simbiosi in altre parole. Direi che entrambe le cose se la giocano a pari modo attualmente…
Ultimamente ti abbiamo visto al Tresor di Berlino e al Concrete di Parigi, immagino siano grandi soddisfazioni dopo anni di duro lavoro, toglici una curiosità, preferisci esibirti in Italia o all’estero? Cosa pensi della scena italiana?
Certo che lo sono, soprattutto se penso che locali quali il Tresor ad esempio sono colonne portanti del clubbing mondiale dal tempo in cui techno e house hanno fatto la loro prima comparsa. Preferisco esibirmi all’estero, c’é più coinvolgimento da parte del pubblico, c’é più sensibilità e ricettività artistica. Sebbene sia divertente notare come gli italiani che incontro in giro per il mondo sappiano integrarsi alla perfezione in contesti simili! Cosa che invece non accade nei club italiani, dove il divertimento è troppo spesso forzatamente ‘indotto’ o condizionato dall’artista di turno, troppo spesso straniero…
Tra l’altro stai iniziando ad esibirti in live oltre che in dj set, cosa ci dici di questa nuova esperienza?
Semplicemente fantastica. Non avrei mai creduto di potermi esibire live. Nel senso che non ci ho neanche minimamente pensato. Sono stato stimolato da alcuni colleghi e quasi ‘piacevolmente costretto’ per alcuni versi, e devo dirti che, per la prima volta dopo tanti anni, ho provato un emozione fortissima ed una carica interiore che ricordo ebbi solo la prima volta che entrai in una consolle a quindici anni. Non credevo di poter risultare interessante con un repertorio basato unicamente su mie composizioni, a modo di concerto per intenderci… questo vuol dire che sono ancora in grado di stupirmi e la cosa è incredibilmente stimolante!
Parlando del tuoi progetti cosa dobbiamo aspettarci nel breve periodo?
Non amo svelare le mie mosse! Posso solo dirti che sono ovviamente al lavoro in studio con delle nuove produzioni e che nel 2015 coronerò quello che per me è un grande sogno nonché un traguardo molto importante. Ci sono diverse collaborazioni in arrivo per il prossimo anno, è tempo di allargare gli orizzonti creativi ed aprirmi a sperimentazioni. La mia più grande soddisfazione sarebbe quella di scoprire la mia musica ancora attuale ed interessante anche nel prossimo ventennio.
Da grande artista quale sei vorrei che ci segnalassi qualche giovane promessa, qualche artista in cui credi fermamente e che ha tanto da dare a parer tuo.
Togli il grande, mi va largo. Seguo con interesse l’inglese Isherwood, l’italiano Domenico Rosa e la sua imprint, il francese Ortella, appena uscito su Rutilance e che fece il suo primo esordio qualche anno fa su una delle mie label. Il loro comune denominatore è la creatività.
Come sempre voglio concludere chiedendoti un disco, so che ce ne sono tantissimi che potresti nominare ma vorrei che ci dicessi un disco, uno solo, che è sempre in borsa con te, quello a cui sei più affezionato e da cui mai riusciresti a separarti.
Jocelyn Brown “Ain’t No Mountain High Enough” non è mai uscito dalla mia valigia! È una delle canzoni più belle di tutti i tempi, riadattata in chiave disco in questo caso. Ormai è diventata un mio talismano.