Potremmo parlare di quanto sia solido e qualitativo il suo tocco (perché potrà anche non essere il vostro artista preferito, ma il suono delle sue produzioni è di spessore oggettivo); potremmo anche discutere su quanto sia ambiguo se non addirittura controproducente essere uno degli alfieri principali della Drumcode di Adam Beyer o delle chart di Beatport (…e ne abbiamo discusso); ma quello che dovete sapere, è che Enrico Sangiuliano è comunque una bellissima risorsa della musica elettronica di casa nostra. Umana, prima ancora che musicale. Ma anche dal punto di vista musicale, ha un background che sotto molti punti di vista è atipico, per quello che si vede dalle nostre parti. Insomma: meritava un’intervista di quelle belle lunghe, approfondite. Cose da dire ne ha parecchie. E personalità pure, dietro quell’apparenza educatissima, quasi dimessa ed incredibilmente gentile.
Allora, so che il tuo rapporto con la musica nasce – come succede a molti – in buona parte in famiglia, nel tuo caso precisamente da tuo padre…
Sì, proprio così. I primi ricordi che ho della musica, da ragazzino, sono io nella Mercedes blu di mio padre, sgangherata, con lui che mi fa ascoltare la musica che amava, di cui andava fierissimo…
Tipo? Cosa ti faceva ascoltare?
Rock anni ’60, ’70, ’80. Robe tipo Judas Priest, Deep Purple…
…eh beh, bello tosto.
O i Led Zeppelin. Altro ricordo fissato nella mia memoria, e non saprei nemmeno dirti quanti anni avessi di preciso: io affacciato al balcone di casa dei miei nonni, dove vivevo assieme a mia madre (i miei genitori infatti non hanno mai vissuto insieme), e mio padre che arriva e mi chiama “Vieni giù, che ti faccio ascoltare la chitarra che parla!”, riferendosi al solo di una chitarra elettrica in uno dei suoi pezzi preferiti. Insomma, capisci che la musica fin da subito per me ha avuto un senso vero di condivisione, comunanza, aggregazione.
Tutto questo non accadeva a Milano, se non sbaglio.
No, no: tutto questo accadeva in provincia. Esattamente al confine tra le province di Reggio Emilia e Parma. Io sono nato lì. Con la conseguenza di essere sempre stato visto male dai parmigiani, perché ero comunque “uno di Reggio”, e male dai reggiani, perché ero di quel posto “che ormai è quasi Parma”.
Aggiungiamo pure che eri il classico ragazzino anti-sociale perché tutto risucchiato dal magico mondo della musica, dei dischi, degli ascolti? Lo aggiungiamo?
Io ero un ragazzino molto sociale, invece! Ma la musica, in effetti, era la cosa più importante di tutte. E sì, per certi versi ad un certo punto mi ha anche un po’ isolato; ma semplicemente perché ero l’unico nel mio paese che era così fissato. Poi, quando mi sono trasferito a Milano, ho decisamente smesso di essere l’unico fissato con la musica, lì era pieno di persone come me… Che poi, ci sarebbe da raccontare di come è avvenuto il trasferimento a Milano.
Siamo qua per farlo!
E’ nato tutto da un episodio un po’ particolare: un incidente stradale. Un incidente in cui ho fatto fuori la mia prima auto, praticamente nel giorno in cui l’ho presa in mano – povera, è durata solo un pomeriggio! Ad ogni modo, mi sono arrivati un po’ di soldi per i danni subiti: solo che invece di usarli per comprarmi nuovamente una macchina, ho deciso di investirli tutti per trasferirmi a Milano a studiare sound design. E lì finalmente ho incontrato gente come me, appassionata quanto me. Lì ho capito che non ero più solo.
Però nella zona in cui stavi tu non è che la musica mancasse… anche musica di un certo tipo. Penso ovviamente al Maffia in primis, anche se forse per motivi anagrafici quella è una esperienza che tu non hai intercettato davvero.
Certo che c’era il Maffia! E l’ho pure frequentato, anzi, ti dirò di più, mi sono pure ritrovato in zona mixer audio – non quindi come performer sul palco ma come tecnico. Sì, sono entrato in contatto con la crew che lo portava avanti, però in effetti per motivi anagrafici ho intercettato solo la “coda” di quella esperienza… Non era più il Maffia di Goldie, della drum’n’bass e del breakbeat, era il Maffia un po’ più house e “convenzionale”; soprattutto, era il Maffia che aveva probabilmente perso o stava comunque perdendo in modo definitivo la spinta originaria, la sua specificità. Quindi ecco, avevo chiara la percezione che ero entrato in contatto con qualcosa che era al tramonto, qualcosa che stava compiendo la parte finale di una parabola, che comunque era stata magica.
(Schegge di storia del Maffia; continua sotto)
Ad ogni modo insomma prima ancora di trasferirti a Milano eri già entrato nelle questioni di musica elettronica…
Quello senz’altro, eccome. La passione per la musica l’ho sempre avuta, fin da bambino: all’inizio ho sfogato tutto diventando un maniaco delle percussioni, e intendo proprio delle percussioni improvvisate – a scuola ero un cagacazzi infinito che appena poteva percuoteva il banco con le mani a ritmo! E con il mio migliore amico dell’epoca, con cui ho condiviso tante avventure negli anni, già in quinta elementare avevamo fondato un duo che faceva performance per voce e mani. Per dire. Poi sono passato ad uno strumento vero e proprio: ovviamente la batteria. Ma quando mi si sono parate davanti le macchine, i computer, e ho scoperto che da loro potevo tirare fuori dai suoni che nessuno strumento avrebbe potuto produrre mai e che l’unico limite sarebbe stata la mia fantasia, lì ho trovato il mio approdo definitivo. Capisci la differenza? Non solo potersela giocare con suoni pre-esistenti, ma proprio poterne creare ex novo! Incredibile! Ecco, in tutto ciò mi ci sono tuffato. In tutto e per tutto. Ho creato il mio microcosmo personale definitivo. Mi ci sono perso. Fino a quando un amico mi ha detto “Ma senti, a te che piace tanto ‘sta roba, conosco dei ragazzi non lontano da qui che organizzano dei rave, mi sa che è il caso di farteli conoscere”. Beh: non mi dimenticherò mai il giorno in cui c’è stato quello che, beh, potremmo chiamare “colloquio di lavoro”. Era nel quartier generale di questa crew, c’era il sound system dentro, ovviamente in buona parte smontato. Prima parliamo, poi mi fanno “Ok, prova a mettere due dischi, prova a suonare qualcosa”. Dopo una ventina di minuti mi fermano, e mi chiedono se mi va di entrare a far parte della loro crew. Certo che mi andava! E’ così che è iniziata la mia avventura in quel contesto. Era il giro dei rave, quelli di matrice in primis psy-trance.
Uh, bello peso. Molto psichedelico, diciamo. Anche forte come situazione, ecco. Non hai avuto dei momenti in cui ti sembrava tutto un po’ forte, un po’ estremo?
Mai, assolutamente. Anzi, percepivo una gran bella energia. In quegli anni quel movimento era parecchio forte, anche perché si trattava di un periodo in cui c’era molta meno repressione contro i rave rispetto ad adesso e, nella mia zona come in altre, proliferavano. Tante, tante serate illegali; e io ad un certo punto non ne mancavo una. Poi sì, da cosa nasce cosa: a una di queste serate era presente l’organizzatore di alcuni eventi molti più grossi, mi sente suonare, si avvicina e mi fa: “Senti, ti vorrei a suonare alla Street Parade a Bologna”. E così è stato: mi sono ritrovato su uno dei carri più grossi. Alla Street Parade.
Che in quegli anni era una cosa grossissima. Così grossa che in una edizione addirittura venne dato il permesso di transitare in pieno centro storico, cosa inaudita. C’ero, ovviamente.
Ecco, quella! Capisci: avevo 17 anni, stavo suonando di fronte a centinaia, anzi, migliaia di persone, e il dj che suonava prima di me aveva dieci anni in più almeno, quello dopo idem.
Ah, mi immagino la scena, tipo che quando sta per toccare a te si dicono fra di loro con accento emiliano “Dai, fai suonare il cinno ora!”…
(ride, NdI) Esatto! Anche perché ero cinno (ragazzino, NdR) davvero. All’inizio ero meravigliato, quasi imbarazzato, era un mondo del tutto nuovo… Ma mi ci sono abituato presto. Tant’è che sempre abbastanza presto è iniziato anche a starmi stretto. Oh, sia chiaro, abbiamo fatto cose fantastiche: abbiamo suonato al Livello 57, al CaCuBo, alla Street di Firenze, in molti altri party. Ed era bello vedere come fosse una realtà al tempo stesso supercapillare e molto coesa: suonavo a Firenze, e vedevo di fronte a me le persone che erano state a Bologna nell’appuntamento precedente… C’era proprio una scena compatta, che seguiva gli appuntamenti, che non voleva perdersi nulla.
Una coesione che oggi si fa fatica ad immaginare, nei contesti “nostri”. E’ sempre più raro vedere gente che si sposta apposta per un evento. Al massimo per i festival principali, ecco. Ma allora non c’era bisogno di un festival per viaggiare e non volersi perdere una cosa.
Vero, vero.
Ma in tutto questo, il mondo delle discoteche e dei club “regolari” era il nemico, no?
(sorride, NdI) No dai, non era il nemico. Diciamo che era, come dire?, una strettoia: se finivi in quei contesti c’erano molti più paletti di cui tenere conto. Lì contavano molti i numeri, contavano molti i soldi; ciò che contava molto di meno, invece, era quello che facevi realmente come musica e quanto si creava il giusto rapporto e la giusta intensità nelle onde emotive che ti scambiavi col pubblico. Nei rave, diciamolo chiaramente, si generava un’atmosfera che era davvero qualcosa che ti portava “fuori” dalla realtà. Qualcosa di magico. Qualcosa che all’epoca non poteva accadere praticamente in nessun club convenzionale…
…e forse neppure oggi, non solo all’epoca.
No, non è vero. Perché nel frattempo le cose sono cambiate. Anche per me personalmente: da un certo momento in avanti, come ti dicevo, ho iniziato a sentire un po’ “strette” le situazioni in cui mi ritrovavo. Quella dei rave era una scena molto coesa ma anche molto circoscritta, e insomma faceva un po’ di fatica a comunicare col mondo esterno. Era molto chiusa, sotto tutti i punti di vista.
Si creava proprio questa dinamica di chiusura ed ostilità da “noi contro il mondo”.
Esatto. E io ad un certo punto ho sentito l’esigenza di superare questa ostilità, questa chiusura, e di provare a vedere meglio cosa succedeva nel mondo “normale”. Anche perché io proprio per carattere sono uno che ama molto il cambiamento e si sente a disagio a stare per troppo tempo in una “comfort zone”. Nelle “comfort zone” si sta tutti bene, vero; ma la cosa che mi piace di più è vedere le cose cambiare – e se stai bello racchiuso in una “comfort zone” il cambiamento è l’ultima cosa che vedrai. Insomma, succede che nel 2009 mando un demo, lo faccio per la prima volta nella mia vita. Questo demo finisce col diventare una release vera e propria, stampata da una label svedese, la Abyss, la label di Hertz.
Titolo?
“By Train”.
Ok, è quella che è indicata pure su Discogs.
Il punto è che io, in quel momento della mia carriera, avevo già tantissime tracce che erano già delle vere e proprie party hit, ma mai e poi mai le avevo pensato di mandarle come demo in giro. Questo non per caso: era proprio parte della mia filosofia, per due motivi. Primo, non sentivo l’esigenza di uscire con delle release ufficiali; secondo, ero convinto che il valore aggiunto che potevo offrire era proprio il fatto che certe tracce le si potevano sentire solo se mi si veniva ad ascoltare, se mi si beccava in giro in qualche party. Ad ogni modo: quando ho deciso di uscire un po’ da questo isolamento auto-imposto come circuito, sono arrivato subito dei primi riconoscimenti. Un contest di Beatport, un altro organizzato da Mauro Picotto… Insomma, quelle piccole cose che ti fanno pensare “Ehi, qualcosa si muove, la roba che faccio un minimo si nota anche nel mondo normale”. Fino a quando, nel 2012, mando un demo alla Drumcode. Il mio primo demo mandato a loro. Che diventa subito una release. Non precisamente per la Drumcode, ma per la loro sublabel, la Truesoul.
Ok, dimmi: in quel momento qualcuno dei tuoi vecchi soci del giro dei rave ti ha dato del traditore?
No. Nessuno.
Strano.
Anzi: tanti dei miei più accaniti sostenitori di oggi sono proprio le persone che avevo conosciuto stando in quel giro lì. E questo è bellissimo. Hanno capito fin da subito quali erano le mie esigenze e i miei desideri, io un giorno mi sono fermato e gli ho detto “Ragazzi, scusate, devo prendermi una pausa, devo capire cosa fare, mi sento sempre meno legato a questa situazione qui. Anche perché occhio, l’impressione è che tutto quanto stia un po’ implodendo, io almeno la sto sentendo così”. Anche perché era un momento delicato: si era diventati davvero scomodi per le autorità, e questo portava anche a non essere ben visti in generale nell’ambito del clubbing più tradizionale, eravamo scomodi, e questo aumentava l’isolamento. E sai cosa, senza rigenerazione le cose appassiscono, c’è poco da fare. Ho capito che qualcosa non andava quando alcune di queste serate diventavano già dei “Remember”: cioè, io a 22 anni dovrei suonare in contesti che sono già dei “Remember”?! No. A 22 anni vuoi suonare per qualcosa di nuovo, inedito; vuoi creare il futuro, costruire qualcosa che ancora non c’è. I rapporti, comunque, sono rimasti serenissimi. Guarda, ti dirò di più, a Capodanno suonerò a Bologna in un mega party in Fiera (con anche la Lens ed Ilario Alicante) di cui uno degli organizzatori è proprio uno dei personaggi principali di quella mia epoca dei rave.
Insomma, cerchi che si chiudono. Ma facciamo un passo indietro: eravamo arrivati a Milano. Si chiude la fase “emiliana” di provincia, arrivi nella grande città.
La città in cui le cose accadono.
Ah, allora è veramente così?
Sì, lo è. E quando ti ci abitui, a questo, fai un po’ di fatica a rinunciarvi: se ti allontani, ti sembra di perdere qualcosa, di perdere il focus.
Ok.
Poi chiaro, una città come Milano ti mette di fronte anche a tante faccende che sono scomode ed impegnative: lo stress, la vita frenetica. Ma la cosa buona è che in una città del genere, anche coi freni e coi limiti che ciascuno di noi ha, se vuoi incontrare delle persone e delle situazioni particolari – ci riesci. Milano infatti è la città dove c’è un intero fulcro di persone che operano in un certo tipo di contesto e, per giunta, hanno anche gli spazi e le possibilità per farlo. In più, cosa che prima ovviamente non avevo preso in considerazione ma ora fa la differenza, Milano comunque è comodissima per muoversi in tutta Italia e tutta Europa, e anche in giro per altri continenti. Credimi, questo è davvero importante.
Ok. Arrivi a Milano. E Milano ha tutte queste caratteristiche, come effettivamente le ha. Ma a questo punto ti chiedo: quanto è difficile “muoversi”? Quanto è difficile fare il promoter di se stesso? Quanto è difficile doversi creare un network di conoscenze?
Oddio, non è difficile. Almeno: non per me, perché è qualcosa che mi è sempre venuto naturale e spontaneo. D’altro canto, scusa: il ragionamento è “Ok, questo sono io, questo è quello che faccio, mi fa piacere poterlo condividere con qualcuno che secondo me può apprezzare o comunque può darmi degli insegnamenti costruttivi”. Tutto qui. E io, te lo assicuro, ho fatto sempre e solo così. Tutte le cose che si sono realizzate nella mia vita sono sempre nate in questa maniera; tutte le persone con cui lavoro o ho lavorato, le ho conosciute in questo modo.
Senti, quanto è importante oggi questa caratteristica, quella del sapersi muovere, del saper creare una rete di interesse attorno a ciò che si fa?
Oggi è fondamentale. Pure troppo: è così fondamentale che va oltre al contenuto concreto di quello che stai facendo ed offrendo in giro. Ovvero, la musica. Pensaci: dieci anni fa, anzi, anche più di dieci anni fa, per farsi notare era fondamentale essere un drago in console, no? Poi da un certo momento in avanti dovevi essere un produttore bravo e prolifico, perché era così che ti facevi notare (e prendevi le date). Oggi? Oggi, spesso è più importante l’impatto che hai sul mondo dei social network. Viene valutato più di quanto spacchi su un palco o in studio. In fondo, ormai sempre meno gente si chiede se sei davvero bravo a mixare, o se i dischi li fai tu davvero: no, quello che è interessa ed emoziona è l’hype. C’è, da parte del pubblico, una forma di ricezione che è molto più passiva, superficiale e, direi, molto meno “esplorativa”.
Buona definizione, questa del meno “esplorativa”. E dimmi, questa è una situazione che dobbiamo combattere o, semplicemente, è così che va e amen, passiamo oltre?
Penso che sia una situazione che vada combattuta. Ma lo dico nel modo più gentile possibile, ecco. Questo “combattere” non deve essere una guerra fatta di odio ed ostilità. Secondo me la battaglia va combattuta invece in un modo molto più sottile e, al tempo stesso, più nobile: con la qualità. Offrendo qualità. Non invece lamentandosi un sacco e, peggio ancora, lamentandosi proprio sui social. Che poi, guardarmi: che caratteristiche ho io per fare buoni numeri sui social? Direi quasi zero. Eppure le cose le sto ottenendo: sto in una realtà che mi piace, riesco a vivere con la musica che faccio, vado in posti interessanti, collaboro con persone che stimo. E tutto questo succede anche se non ho proprio nessun hype alle spalle. Capisci? Io sono convinto che un percorso “sano” sia più che possibile, ancora oggi.
(Continua sotto)
Senti un po’: fino a che punto è possibile trovare l’Italia, nella musica che fai?
Buona domanda. Onestamente, non lo so.
Probabilmente c’è molta Italia nei tuoi modi di fare, ma nella tua musica sinceramente mi pare ce ne sia poca.
C’è molta Olanda. Molta Svezia, anche. Ci sono le mie prime influenze, i miei primi background: quello psy trance, quello breakbeat, le cose insomma che mi influenzavano nel periodo dei rave, e peraltro già lì ero quello degli ibridi strani, tra techno, breakbeat ed altro. Sai cosa, ho sempre ascoltato la musica senza infilarmi in micro-suddivisioni: d’altro canto un po’ di tempo fa era così, si mettevano insieme un sacco di cose che poi dopo si è iniziato a separare…
…negli anni ’90 per molti Prodigy e Daft Punk facevano la stessa cosa.
Esatto. E citi proprio i primi due gruppi di cui mi sono innamorato.
Eh ma infatti li citavo non a caso. Lo sapevo.
Con questo tipo di approccio, figurati se mi ponevo il problema di quanto fosse “italiano” o meno il mio modo di suonare; e anzi, c’era la tendenza naturale a guardare fuori, a guardare in paesi dove le cose andavano alla grande. Prendi appunto l’Olanda. Cioè, è una nazione che è riuscita a dare vita ad un evento come Awakenings: come puoi non considerarla un esempio?
Tra l’altro nel periodo in cui tu hai iniziato ad immischiarti seriamente nella musica elettronica, in Italia regnava il monocolore minimal. Davvero sembrava che se volessi avere una minima chance di suonare in giro nel circuito dei club, dovevi fare quella cosa lì. Confessa: hai mai avuto la tentazione di mettertici anche tu?
Ti giuro: mai. Non ho mai guardato a quella cosa lì, non l’ho mai “sentita”, non so che dirti, ma è così. Sai, forse perché nel momento di massima popolarità della minimal io uscivo dalla mia sfera rave, una sfera comunque molto locale, italiana; quindi inconsciamente volevo guardare solo fuori, solo a quello che succedeva all’estero. E lì l’ondata minimal non era così pervasiva.
Quando ti sei reso conto che la tua dimensione poteva essere direttamente europea? Per molti anni un dj/producer italiano faceva fatica ad avere un peso extra-nazionale. Oggi è più comune ma, insomma, quando iniziava a succedere a te eravate veramente in pochi. E quei pochi difficilmente erano giovani alle prime armi, come nel tuo caso.
Me ne sono resto conto quando Secret Cinema mi ha detto “Sai cosa, mi farebbe piacere lavorassimo assieme, mi farebbe piacere tu entrassi nella mia agenzia”. Lui in Olanda è a dir poco un’istituzione, nei primi anni ’90 ha fatto veramente la storia del movimento rave, lui e pochi altri. Quando mi ha chiesto di entrare nella sua crew, non solo era l’unico italiano che ne avrebbe fatto parte, il che sarebbe stato anche normale; no, ero l’unico straniero! Ecco, lì mi sono detto “Ehi, forse valgo qualcosa, forse veramente riesco a fare qualcosa di serio in tutta ‘sta faccenda”. Abbiamo iniziato a fare party assieme, ad avere release sulla sua label, la Gem Records, e in poco tempo… beh, i feedback erano pazzeschi da quanto erano positivi.
Oltre ogni tua aspettativa?
Mah sai, avevo comunque la consapevolezza di essere sulla strada giusta, quello sì, perché i feedback che mi avevano accompagnato e che continuavano ad accompagnarmi erano sempre decisamente positivi; ma come fai ad avere delle certezze in questo mondo? Non ne ho ancora adesso, figurati. Chiaro, ora magari ho qualche pezza d’appoggio in più, non parto certo da zero, sarebbe stupido pensarlo. Ma la variabili in gioco sono sempre tante: dipende dalle scelte che fai, dagli equilibri che ti costruisci… Non si può mai sapere che piega possono prendere le cose.
Mah, fai sembrare tutto semplice e naturale.
Perché è stato così, credimi.
Ci sono però stati dei momenti di crisi, quelli in cui prendi a dirti “Non lo so, non so se sto andando nella direzione giusta, non so se quello che sto facendo ora vale davvero”…?
No.
Fortunato.
Ma vedi, io vado in studio, lavoro alla mia musica… e quando ad un certo punto mi ritrovo con le lacrime che scendono dagli occhi, ecco, lì capisco che sono nella direzione giusta. Vivo la mia creatività e le mie scelte molto intensamente. Poi, è tutto in qualche modo collegato: perché poi nel mio set ci sono sempre molte produzioni mie, e le mie produzioni spesso le penso in origine come qualcosa che deve arricchire un mio dj set… sono sfere che si “parlano” fra loro.
Insomma, anche quando fai il producer ragioni un po’ da dj. La tua vera anima sta lì.
Non lo so nemmeno io. In realtà non potrei mai rinunciare alle sessioni in studio, che sono qualcosa di radicalmente diverso dallo stare in console e fare il dj. Ho bisogno sia dell’uno che dell’altro. Davvero: quando faccio il dj, le mie produzioni in un set sono un elemento fondamentale, ineludibile; quando mi chiudo in studio spesso la prima domanda che mi faccio è “Ok, che tipo di traccia manca nella mia borsa dei dischi?”. Poi beh, poi è arrivato l’album… qualcosa di personale e particolare all’estremo.
Non ti chiedo di fare nomi, ma: vedi tra i tuoi colleghi molte persone preoccupate più di azzeccare il suono giusto del momento piuttosto che seguire la propria personalissima ispirazione?
Sì.
Eh, non è una cosa buona.
E’ un problema. Metti proprio Drumcode, la realtà che per ovvi motivi conosco meglio: se mandano dischi a me o anche ad Adam, sono quasi sempre delle cose che suonano come delle release già uscite per Drumcode. Non è il massimo tutto ciò. Non è positivo. Bisognerebbe far capire ai producer lì fuori che la techno è un contesto ampio, in cui ognuno può costruirsi una propria visione e un proprio tocco. Può, e deve. Se invece ti fermi ad inseguire una tendenza passeggera o un suono ben specifico già disegnato da altri, dove vuoi andare? Cosa vuoi realmente fare? Bisognerebbe lasciarsi andare, cercare ciascuno il proprio tocco, i propri modi, i propri mondi – e tutto ciò può accedere solo se ti fai il necessario percorso di esperienze in studio, e in generale nella vita. Perché quello che fai è il frutto di quanto sai, di quanto hai imparato, di quanto hai vissuto, questa è la verità. Oggi invece vedo che c’è un’esigenza diversa: quella di arrivare subito al successo. D’altro canto il ruolo dei dj è così sotto i riflettori, di questi tempi, che insomma questa un po’ la capisco; ciononostante, non la trovo positiva. L’ansia e la fretta di avere successo sono più forti di qualsiasi tipo di pulsione e propensione più artistica e creativa. Sai qual è una delle conseguenze? Che spesso, ad andare in giro, ti rendi conto che entri sempre più di frequente in contatto con persone che non stanno comunicando con te, no: sono in competizione con te. Questo ti succede soprattutto quando sali di livello.
Trovo molto divertente una cosa: sono abbastanza vecchio per ricordarmi quando tutti schifavano la techno perché era troppo dura e pesante, e la Drumcode era ai primi posti in queste rimostranze; oggi invece la Drumcode non va bene perché è troppo morbida e “commerciale” nel suo essere techno.
(ride, NdI) Non ne azzecca una, Adam!
E insomma, come ti senti a far parte della schiera della “techno commerciale”?
In realtà mi sento benissimo (risata, NdI). Sto alla grande con tutti. Il mio rapporto con Adam è fantastico: è più un amico, anzi, un vero e proprio compagno di banco, c’è quel tipo di complicità lì, è splendido. In più, andando in giro, ti rendi conto dell’importanza del brand Drumcode, della sua identità: tutti lo conoscono, e se vanno ad una serata con questo marchio sentono di fare parte di una comunità ben precisa. E, di conseguenza, sanno quel che vogliono, e sanno cosa possono chiederti. Un senso di comunità molto forte. Un senso di comunità che non trovavo dai tempi della mia fase più intensa nella scena rave. Vedi che i cerchi in qualche modo si chiudono? Il senso di comunità ed unità che prima vivevo nei party illegali ora lo ritrovo in club più strutturati.
Tra l’altro non solo hai la macchia di essere un artista strettamente legato a Drumcode, sei pure un cocco di Beatport.
Eh… già.
Orrore. Come mai Beatport è così uno stigma, secondo te?
Guarda, partiamo dai fatti: in questo modo forse riesco anche a darti una risposta sensata, se partiamo da loro. Io sono arrivato in cima alle classifiche di Beatport già ancora quando incidevo in label molto piccole, che non avevano nessuna esposizione particolare o potere “politico”. Prendi il caso di Alleanza, l’etichetta di Malta presso cui è uscito il mio primo brano che è stato a lungo in cima alle chart di Beatport. Beh: è stata proprio quella circostanza ad incrinare il nostro rapporto.
Come mai?
Mah? Forse il fondatore della label, anche lui dj e producer, si è sentito scavalcato? Non lo so, davvero. Io di sicuro non mi sentivo di aver scavalcato niente e nessuno: per me è sempre stato un gioco di squadra, in cui si stava tutti dalla stessa parte. Appena sono diventato numero uno su Beatport hanno iniziato a non cagarmi più, a snobbarmi. Io ero tutto gasato per questo successo improvviso, per questa esposizione, pensavo che sarebbe stato un bene per tutti e avrebbe fatto piacere a tutti. Invece mi sento dire “Eh, basta, ora dobbiamo cambiare completamente genere”, che era un modo per dire che non volevano avere più nulla a che fare con me. Poi anche successivamente, su altre label, sono arrivati altri brani che su Beatport sono andati alla grande. Ma, che posso dire? Cosa ci posso fare? Sai, è anche scomodo finire numero uno in una chart, qualsiasi essa sia: perché ti senti osservato da tutti, giudicato da tutti. Poi guarda, secondo me nella musica non esiste un suono “giusto” e uno “sbagliato”: esistono le visioni che un artista ha. Quindi da un lato posso dire finire in cima alle chart di Beatport fosse qualcosa che faceva crescere la mia credibilità e mi dava anche più fiducia in me stesso; dall’altro, mi rendevo conto che tutto ciò mi stava guadagnando pure l’ostilità di una parte della scena. Ma che colpa ne ho io, se dei dischi funzionano in certi contesti, ma questi dischi io li ho fatto assolutamente senza scendere a calcoli e compromessi? Poi ora che sto con Drumcode, figurati… sempre più sospetti. Ma l’approccio senza calcoli e senza compromessi è sempre assolutamente lo stesso. Con in più la fortuna di poter contare sul tipo di spessore e credibilità che la Drumcode comunque offre e rappresenta, piaccia o non piaccia. Poi oh, sì, certo, c’è una parte di integralisti della techno che su questo spessore e credibilità hanno da ridire.
Ogni tanto ho la sensazione che siano più modaioli loro, i contestatori, in questa divisione in ciò che è figo e ciò che non è figo. Che sia una divisione dettata dalle mode lo prova il fatto che molti dei cosiddetti “veri esperti” sono quelli che prima impazzivano per la minimal, poi per il Berghain rinnegando la minimal, ora per Theo Parrish rinnegando il Berghain. Insomma: il sospetto che più che dei tuoi gusti personalissimi, tu sia ostaggio di ciò che è più o meno cool per me c’è. Anzi: per me è più che un sospetto, spesso.
Io posso dire che con un certo tipo di personaggi tra gli addetti ai lavori non dico di avere le porte chiuse, però di sicuro la comunicazione è scarsa.
E’ anche giusto che uno cambi idea, sia chiaro; di più, è anche giusto che si persegua una “nobiltà” nell’attitudine da avere all’interno della club culture e che questa possa, di volta in volta, trovare dei suoni diversi che la rappresentino in diversi momenti storici. Però boh, certe volte ho l’impressione che certi atteggiamenti “alti” siano in realtà solo dei travestimenti molto “culturali” di un’attitudine invece piuttosto modaiola, paninara quasi.
Non vorrei essere così drastico, però certe volte mi pare che sia più figo fare un disco “brutto”, che cioè non ha la minima chance di avere successo, perché se hai un certo tipo di successo allora diventi automaticamente un venduto. In realtà questo atteggiamento per certi versi lo posso anche capire, ha pure le sue ragioni, ma il dato di fatto finale è che porta delle divisioni della scena, lì dove invece dovrebbe esserci coesione e voglia di darsi una mano reciproca. La techno storicamente è sempre stata una scena molto coesa, questa è stata la sua forza nei primi anni: ora la vedo invece abbastanza crepata.
Quanto è difficile gestire il successo? Non sei una superstar, ma giri molto; hai dei cachet non altissimi ma comunque solidi, di sicuro ti capita di guadagnare più di quanto guadagneresti facendo un lavoro “normale” (ammesso e non concesso che lo si trovi, di questi tempi); per giunta il lavoro che fai è perfettamente coincidente con la tua prima passione. Già questo direi che è “successo”. E già questo può portare al rischio di perdere un po’ il senso delle proporzioni, dei limiti, delle difficoltà della vita reale… Perché hai l’impressione di avere sempre ragione, di essere sempre nel giusto, visto che tutto ti va apparentemente bene. Hai corso il rischio di farti un po’ “mangiare” da tutto ciò?
No. Credo di no. Credo di non aver mai perso davvero la testa. Certo, ho avuto una fase in cui vivevo tutto questo in maniera meno consapevole, più diciamo “passiva”: cioè, quando pensi di avere sempre il controllo, anche nel momenti in cui tutto quanto sta crescendo improvvisamente di livello, ma in realtà sei tu che ti fai tirare dentro da una giostra e no, non ne stai controllando i ritmi. Ci sono voluti un paio d’anni d’assestamento, sì. Il tempo per capire che la tua vita sta cambiando realmente e, di conseguenza, che devi re-imparare a gestire i rapporti con la tua famiglia, con i tuoi amici, con la tua vita: perché sei arrivato in un punto dove non puoi più guardarti indietro e dove soprattutto non stai più giocando. Hai delle responsabilità che prima non avevi e degli occhi addosso che prima non avevi. Qualsiasi cosa tu faccia, da un certo momento in avanti, viene soppesata e giudicata.
Lo percepisci.
Assolutamente sì. Tutti si aspettano che ogni cosa che farai sia “meglio”: il tuo set sarà migliore di quello precedente, la tua release sarà migliore – e di più successo – di quella precedente. Tutto questo ti può snaturare. O, anche, ti può far sentire molto solo. Sei al centro del mondo, ma al tempo stesso ti senti tremendamente solo: bel paradosso, no? Questo succede perché si vive in una bolla. In questo la musica è bellissima, ma anche pericolosa: la musica ti può far sognare e far star bene, ma ti può anche accompagnare fuori dalla realtà e farti perdere il contatto con essa. Del resto, io cosa voglio fare con la mia musica? Voglio accompagnare le persone in una dimensione “altra”, al di sopra della realtà! Ed è una bella sfida, è una bella vertigine; che ti può portare anche, poi, a fare fatica a tornare sulla terra, a relazionarti con la vita vera.
Chi ti ha aiutato di più a riprendere le giuste proporzioni?
Sicuramente mia madre.
Che risposta italiana! (risate, NdI)
Ma è così! Lei; poi sicuramente anche la mia psicologa. E il prendersi tempo. Il sapersi prendere del tempo: tempo per pensare, per vedere, per capire, per parlare con persone di cui ti fidi. Ecco, ho parlato sempre molto con Adam, e questo mi ha aiutato tantissimo. Lui, il mio management, la mia agenzia: con loro posso parlare non solo come persone che guidano il mio business, ma anche come amici. Mi hanno sempre lasciato libero di scegliere. Mi hanno sempre permesso, ed incoraggiato, ad essere quello che sono. Mi hanno fatto fare il giusto numero di date, senza spingermi a forza in qualcosa che poteva essere più grosso di me e delle mie capacità di gestirlo. Perché arrivi ad un livello dove se solo lo vuoi puoi fare anche cento date al mese, ma se entri in questo tunnel poi non hai energie per fare più nient’altro. E, attenzione, ti inaridisci. Oltre ad imbruttirti. Ti inaridisci artisticamente. Se io non ho più il tempo per stare a casa, per stare con la mia ragazza, per stare coi miei amici, per vivere momenti di vita vera e reale, perdo anche la possibilità di vivere delle emozioni sincere ed autentiche – che poi sono quelle che mi permettono di creare e di immaginare musica nel modo migliore possibile. C’è stata una fase in cui dicevo di sì ad ogni proposta mi venisse fatta, in quanto a date: beh, dopo un po’ andavo avanti ma mi sentivo vuoto. Vuoto. Mi è stato poi molto utile, anzi, direi purtroppo utile, vedere alcuni esempi attorno a me di artisti che, mi pare, il controllo un po’ l’hanno perso. Non voglio dire che io ho ragione e loro torto, attenzione; diciamo solo che hanno fatto scelte che io non avrei mai voluto fare, e si sono ritrovati in situazioni in cui non mi vorrei mai ritrovare. Preferisco fare meno date, anche a cachet più bassi, ma avere modo di godermi di più la vita reale. Restare a casa, e magari fare un album. Come ho appena fatto.
(“Biomorph”, l’album; continua sotto)
Sai qual è l’ironia? Più hai successo, più in teoria saresti nella posizione tu di decidere per te stesso, potendoti permettere dei sì e dei no.
Per quanto riguarda l’album, fin dall’inizio ho avuto la percezione che stavo per fare qualcosa che non avevo mai fatto prima: qualcosa di davvero personale, che mi rappresentasse soprattutto a trecentosessanta gradi. Ho iniziato ad unire mie personalissime fisime (le domande su chi siamo, come sono le interazioni energetiche in questo universo…) con il mio modo di fare musica. Per un anno e sei mesi, lavorare all’album è stato il mio primo pensiero quotidiano. La regola era avere minimo, e dico minimo, un weekend libero al mese. Col senno di poi, ho chiarissimo in testa che se non avessi fatto così, l’album non sarebbe mai venuto fuori. O comunque, non sarebbe venuto fuori così. E io così lo volevo. In una fase storica, questa, in cui la musica è una materia soggetta a grandi sprechi: ne circola tantissima, ma proprio per questo “scompare” dopo poco tempo, è programmata per avere un ciclo di vita veramente basso. Io invece ho provato a fare l’opposto. Poi oh, facile scompaia anche la mia di musica, quella in questo album, tanto più che almeno metà delle tracce non sono suonabili in pista quindi chissà quanto circoleranno; ma di sicuro il tentativo è stato quello di fare qualcosa che duri, che non sia effimero, soprattutto che possa essere in qualche modo un mezzo di riflessione e di condivisione.
Ti chiedo a questo punto quali sono i dj/producer italiani che stimi di più. E non intendo solo a livello musicale.
Uno è Gabry Fasano.
Uh, risposta non scontata.
L’altro è Francesco Farfa. Lui e Fasano li reputo due giganti. Anche se dalla mia prospettiva, avrebbero forse potuto fare ancora di più di quanto hanno fatto: anche in questo li accomuno. Però oh, è solo una mia prospettiva.
A proposito di prospettive, di Ibiza cosa diciamo?
(ride, NdI) Ibiza è un punto interrogativo piuttosto grosso… Allora: ci sono stato, facendo il party di Resistance, al Privilege. Ho la sensazione che stiano per succedere delle cose, sull’Isola. Al tempo stesso, l’Isola è… un’isola: è come un mondo a sé, che non è realmente integrato con tutto il resto. Ibiza vorrebbe essere lo specchio di quello che succede o deve succedere in tutto il mondo; ma in realtà ciò che succede lì, succede lì e solo lì. In più, lì le cose stanno decisamente cambiando, e mi pare sempre più un contesto dove si preferiscono stappare bottiglie di champagne piuttosto che diffondere buone vibrazioni. E’ un indirizzo che le persone che hanno in mano le redini del sistema stanno perseguendo in modo più o meno deciso, e fa sì che il posto sia sempre più meno speciale e meno particolare. Ci sono ancora situazioni molto belle ed affascinanti, certo, ma in tutta onestà io oggi, da appassionato di musica, non andrei ad Ibiza a cercare la musica che amo di più. Non perché non la possa trovare lì, perché per trovarla la trovo; ma perché anche nel trovarla, ho come l’impressione che lo stesso artista che amo, ad Ibiza mi piacerebbe fino ad un certo punto, altrove me lo goderei invece molto di più. Questo per vari fattori. In primis perché mi spolpano a livello economico; ma poi anche perché ci si ritrova in un contesto in cui sembra quasi che tutti debbano dimostrare di essere nella serata migliore fatta nel club migliore con la line up migliore. Boh. Io, per dirti, a Ibiza ho sentito KiNK e in cambio ho avuto un senso di vuoto…
Con lui è quasi impossibile.
Esatto! Bodzin: stessa cosa. Stessa sensazione. Ma probabilmente non erano loro, non era colpa loro; era proprio l’atmosfera a non esserci. Mi sembrano club belli ma “vuoti” quelli di Ibiza, posti dove manca un certo tipo di vibe. In alcune situazioni c’è: penso a Resistance, e non solo perché c’ho suonato, poi mi pare anche Afterlife abbia messo su qualcosa di molto interessante; ma in generale mi sembra ci sia ormai troppo una corsa al vip e al tavolo. Insomma, in questo momento secondo me Ibiza non sta dando un contributo utile alla nostra scena musicale.
Se non per i meccanismi dell’industria.
Esatto. Ma creativamente, artisticamente, mi pare che i poli oggi siano ben altri.
Tu dove stai guardando?
Continuo a guardare verso l’Inghilterra. Ovviamente, guardo sempre anche verso l’Olanda, così come verso la Germania. Ma oggi forse il vero posto verso dove guardare non è un luogo fisico; un tempo lo era più facilmente, oggi non più. Oggi i dischi che posso suonare per due anni di fila, e che magari in giro non si sentono, li trovo su Bandcamp. Fatti da tipo uno sconosciuto di Seattle. Queste cose dimostrano che la bellezza esiste ancora, la forza della creatività pure – anche se non fai parte di nessun pacchetto preconfezionato pronto per prendersi il mercato.