Ensi è, semplicemente, uno dei più grandi patrimoni della cultura hip hop italiana. Lo è dagli esordi, lo è da quando era diventato imbattibile nelle sfide a freestyle a livello proprio nazionale; ma lo è stato anche – e soprattutto? – quando è finito nel “grande giro” dell’ultimo decennio, quello Milano&lustrini, riuscendo però in qualche modo a restare sempre fedele a se stesso, portando avanti un rap competentissimo dal punto di vista tecnico ma sempre legato ai contenuti, “sensibile” alle mode ma mai paraculo e, anzi, sempre profondamente personale anche come approccio stilistico. Di oggi la notizia dell’uscita in una specialissima edizione in vinile, in sole 500 copie, della sua ultima fatica, “Oggi”: un EP-quasi-LP, che da un lato segna una continuità rispetto agli ultimi lavori dall’altro è una specie di “nuovo inizio”. Il momento giusto per guardarsi indietro: e questo abbiamo fatto, in una lunga chiacchierata che rende bene l’idea dello spessore di Ensi artista, e di Yari Ivan Vella essere umano.
Sai, prima di iniziare questa chiacchierata ho fatto un po’ di mente locale e ho pensato che quando tu hai esordito nella faccenda del rap, la scena hip hop italiana era messa in maniera abbastanza simile a com’è messo ora il clubbing (e questo ancora prima del CoVid): un bel po’ di macerie e di realtà storiche in declino, poche cose che funzionano, la convinzione che se eri italiano e arrivavi dall’underground, beh, non avresti cavato un ragno dal buco.
Ecco, esattamente così. E infatti esprimo la mia massima solidarietà a chi si occupa di elettronica ora. Lo scenario, davvero, è proprio quello. Posso solo dire: raga, non mollate. Perché era esattamente quello che mi dicevo io, all’epoca, quando ero io in mezzo alle macerie. E lo ero.
Infatti non mi basta la solidarietà. Voglio anche le tue istruzioni per l’uso per venirne fuori, visto che appunto tu ci sei già passato, di tuo.
Vero, e ne sono venuto fuori. Ma guarda proprio cosa è successo a tutto il rap italiano, a come sono cambiate le cose nel loro complesso, e in meglio; bisogna vedere se nell’elettronica di casa nostra succederà lo stesso, non lo si può sapere in anticipo. Ad ogni modo, quello che ho fatto è stato un continuo affilare le armi, man mano che vedevo il terreno di combattimento sempre più pronto. Questo sì. E’ proprio negli anni duri (anni che io ho vissuto prima da sotto il palco e poi sopra, con un microfono in mano, all’inizio senza capirci granché di music biz), sì, è proprio in quegli anni che si traccia una linea, che si compie il destino. Molti che arrivano da lì, dagli anni duri, sono riusciti a resistere nel tempo; non tutti con la stessa qualità, ovviamente, ma devo dire che parecchi anzi ora, proprio ora stanno facendo le loro cose migliori. Perché per andare avanti quando tutto ti rema contro, devi essere al 100% passione. Poi chiaro, devono iniziare ad arrivare anche dei primi, piccoli risultati (perché puoi avere tutta la passione del mondo, ma se non cavi un ragno dal buco dopo un po’ chiaramente smetti). Talento, ambizione, resistenza: queste le doti insomma. Importanti proprio nei momenti più bui. Tutt’e tre. La resistenza, soprattutto: bisogna sentirsi un po’ dei partigiani. Questo è. Non ci sono segreti particolari. Ma quando hai qualcosa che ti motiva in maniera profonda, ti senti ripagato in ogni sforzo che fai, sempre e comunque. Oggi però…
I social network sono un problema. Perché ti danno un confronto immediato con tutto quello che succede in giro, creandoti subito un’ansia smodata. Non ho fatto tanti like? E’ un problema drammatico. Soundwall non ha voluto intervistarmi? Allora è come aver fallito. Non sono riuscito a portare a termine quelle due o tre cose specifiche per farmi notare on line? Sono un fallito
Sì?
E’ più difficile che questo accada.
Come mai?
Perché ci sono i social network. Che ti danno un confronto immediato con tutto quello che succede in giro, creandoti subito un’ansia smodata. Non ho fatto tanti like? E’ un problema drammatico. Soundwall non ha voluto intervistarmi? Allora è come aver fallito. Non sono riuscito a portare a termine quelle due o tre cose specifiche per farmi notare on line? Sono un fallito. Per fortuna però, almeno prima della pandemia, la musica si muove anche su altri binari che non siano quelli del web. Puoi essere bravo quanto vuoi a maneggiare i social, puoi fare il video più figo, puoi avere l’ufficio stampa più giusto, ma alla fine è sempre la musica ad avere l’ultima parola. E il rap guarda può proprio essere l’esempio migliore in tal senso: non esistevamo, poi a forza di tirare testate tipo ariete siamo riusciti a sfondare molte porte, noi da soli, senza l’aiuto di nessuno di “grande” – ed è così che sono cambiate le cose, esattamente, quando sembrava andare tutto male e quando sembrava non interessassimo a nessuno se non a noi stessi, a noi pochi fissati. E quindi: non mollare. Anche perché in ogni caso la musica ti ripaga, in qualche modo: se non con le economie, perché non sempre può andare bene, in qualche maniera comunque ti ripaga, se certe cose le hai dentro la pelle. Devi chiederti: “Che posto ha la musica nella mia vita?”. Perché anche se non fosse arrivato quello che poi è arrivato, io avrei comunque continuato a fare musica. Magari non con questa dedizione, non col 100% del mio tempo, perché avrei dovuto campare in altro, ma puoi star sicuro che avrei continuato a farla.
Ma quando hai capito, da “partigiano”, che stavi “vincendo” e che quindi si poteva iniziare ad uscire dalla trincea?
Il grande lavoro fatto nella prima metà degli anni 2000 con Fabri, con i Dogo, con quelle cose lì, è stato un termometro molto importante che sì, le cose stavano cambiando. Quando uno come Fabri, uno che palesemente dal “nostro” mondo non è stato calato dall’alto da parte di nessuno, arriva a fare certi numeri… capisci. Capisci che qualcosa sta accadendo. Che si stanno aprendo delle porte.
Per fortuna però, almeno prima della pandemia, la musica si muove anche su altri binari che non siano solo quelli del web. Puoi essere bravo quanto vuoi a maneggiare i social, puoi fare il video più figo, puoi avere l’ufficio stampa più giusto: ma alla fine è sempre la musica ad avere l’ultima parola
Ecco, questo è un concetto importante che spesso si trascura: Fabri non era una “invenzione” delle major.
Al di là dei gusti che ciascuno può avere, credo non ci possa essere nemmeno il minimo dubbio sul fatto che Fabri, per storia personale, sia uno dei “nostri”. E quando lui è riuscito a far funzionare le cose così per sé, ha riacceso l’entusiasmo un po’ in tutti. Qualcosina c’era stato anche prima, magari: Mondo Marcio, poi volendo anche i due singoli di Esa con Fish erano andati sorprendentemente bene nel mondo “normale”. Comunque con Fibra c’è stato il cambio di marcia: la presa di coscienza vera da parte nostra, e anche da parte dell’industria musicale mainstream. Qualcuno magari è stato firmato da una major in modo prematuro, e da un certo tipo di meccanismi è stato “mangiato”. Ma sono cose che purtroppo capitano sempre e comunque.
E tu? In quel momento di transizione e di esplicito cambio di scenario come ti sei mosso?
Beh, mi stavo già dando da fare parecchio. Nel 2005 avevo già vinto 2theBeat. Che poi, guarda, pensaci: nel 2005 lo vincevo, ma per arrivare al mio primo disco si è dovuto aspettare fino al 2008. Tre anni! Oggi, se uno vincesse l’equivalente di un 2theBeat, tutto quello che gira attorno al nostro mondo farebbe sì che ci fosse già un disco pronto per uscire subito dopo, a proclamazione avvenuta. Questo ti fa capire quanto sono cambiate le cose, internamente ed esternamente. Un altro passo decisivo per me è stato ovviamente quando ho fatto MTV Spit. Che poi, è curioso come ci sono arrivato…
Ah, raccontami!
Mi chiamò Marracash, per dirmi che stavano facendo ‘sta cosa. Mi chiese se ci potevamo vedere: sapeva bene che, per quanto riguarda il freestyle, io ero un po’ il capo in quel momento, “Per noi sei l’uomo da battere, non puoi non esserci”. La mia risposta?
La tua risposta?
“No. Non voglio farlo”.
Davvero? Quella fu la prima risposta?
Io ho sempre voluto fare il rapper a trecentosessanta gradi, non solo il freestyler. Stava diventando un po’ una croce questa mia abilità nel freestyle: ai concerti la gente non mi chiedeva i pezzi, mi chiedeva di improvvisare, capisci? Volevo dare un taglio a questa cosa, e quindi a Marra dissi che no, non mi interessava partecipare. Ma era comunque molto contento di dare una mano ad individuare le persone e le modalità giuste, per fare un programma credibile: questo sì. Lui dice ok. Io, prendo la cosa molto seriamente. Mi dedico animo e corpo a “costruire” i suggerimenti giusti. La cosa viene molto apprezzata. Un giorno mi viene detto “Senti, dobbiamo fare la puntata pilota, vieni anche tu a farla come partecipante, ma non ti preoccupare, è solo una prova – non andrà mai in onda, vai tranquillo”. Va bene: vado. Registro. Il giorno dopo li chiamo e dico: “Sapete che c’è, voglio esserci. Voglio partecipare”. Cosa era successo? E’ che vedendo tutta la macchina che c’era dietro, e la qualità nonché con la consapevolezza con cui si stava muovendo, ho capito che ne valeva la pena. Poteva diventare davvero qualcosa di importante per me. Già lo era stata la faccenda del 2theBeat, e tanto; ma in quel momento, parliamo del 2011, quando davvero molte cose stavano cioè cambiando, ho capito che Spit poteva davvero essere il “mio” momento, quello in cui tutto muta drasticamente, quello in cui c’è il cambio di marcia e di prospettive. E infatti: è stato lì che ho iniziato a raggiungere un pubblico più vasto, ed è stata quella partecipazione a permettermi di fare quello che poi ho fatto.
‘Sta roba del rap oggi funziona, ha attecchito anche sulla fascia più distratta e meno sensibile all’importanza dell’approfondimento; in più è anche molto facile da approcciare (almeno all’apparenza), e quindi abbiamo un sacco di persone che si limitano ad imitare paro paro. Questa è appropriazione culturale
Interessante, tutto questo: perché hai toccato con mano il “sistema”, che inizialmente eri restio ad affrontare o comunque a fartene cooptare, anche per non essere “ingabbiato” nel luogo comune del freestyler a vita; e poi però hai capito che ne valeva la pena. Ma partivi da una robusta base di scetticismo.
C’era, lo scetticismo, ma sapere che c’era di mezzo Marra per me era già un po’ garanzia. L’Italia è famosa per fare delle puzzonate tremende quando si occupa di musica di un certo tipo nei media mainstream, vero, ma con lui già dall’inizio capivo che c’erano un minimo di garanzie di qualità. E poi si trattava di fare freestyle, ecco, non cazzate: va bene, non era autentico come farlo nella piazza sotto casa o nella jam di provincia, ok, ma alla fine dei conti per improvvisare al microfono abbiamo improvvisato al microfono, per sfidare ci siamo sfidati – e io ho potuto dire tutto quello che volevo dire. Ok, gli argomenti erano magari un po’ da Famiglia Cristiana, ma alla fine credo di averli “girati” tutti in maniera sensata, senza sembrare un boy scout e senza sembrare uno poco intelligente, un ignorante. L’ho giocata a mio favore, insomma: ho letto bene la situazione. E ho vinto. Perché alla fine ho vinto. E anche questa cosa non sottovalutiamola: perché io sono arrivato a Spit ben consapevole che potevo anche perdere. Non giriamoci attorno: ero la “preda” più ambita, tutti volevano farmi lo scalpo; puoi fare tutte le garette che vuoi, puoi vincerle, ma la vera soddisfazione in quegli anni era battere me, che ero cintura nera di quella roba lì. Era talmente consapevole di questa cosa che per allenarmi, prima di Spit, mi sono inventato – perché l’ho proprio inventato io, quel format, per il web – la cosa di Freestyle Roulette. E’ stato fondamentale. Sono arrivato preparato, allenato. Avevo capito che Spit poteva cambiarmi la vita, e non volevo lasciare nulla al caso, volevo arrivarci pronto al cento per cento. Una volta deciso di partecipare, non c’era infatti nessun motivo per escludere che dal nulla saltasse fuori un diciannovenne che mi faceva il culo, esattamente come feci io a diciannove anni con Tormento. Poteva accadere. Ma non è successo (sorride, NdI). Bella storia.
Quanto è difficile switchare dal rap normale, con testo già scritto e già pronto, al freestyle? Sono due sport diversi?
Nella percezione comune sì, sono viste come due cose completamente diverse. In effetti ci sono grandi freestyler che non sono mai diventati grandi lyricist, vero; ma ci sono anche ottimi freestyler che sono lyricist che spaccano. Non c’è una regola precisa. A me è capitato di fare freestyle anche con personaggi che di solito non immagineresti: mi ricordo qualche anno fa fuori da un locale con Gué Pequeno, lui è uno che quando improvvisa tira fuori delle cose megadivertenti e non lo crederesti mai. Noyz Narcos è un altro che non accosteresti mai al freestyle, ma se ci si mette pure lui sa fare decisamente a modo. Ghemon, anche: una volta l’ho sentito fare freestyle, ed ha spaccato. Il punto è che quando eccelli tanto in una cosa, quello diventa un po’ il tuo “marchio”. Magari per tutta la vita, per tutta la carriera. Effettivamente, se parliamo di freestyle io in Italia sono stato abbastanza iconico e rivoluzionario. Ho segnato proprio un cambio generazionale. Il posto che ho nella storia dell’hip hop italiano l’ho guadagnato grazie al freestyle. Però ecco… proprio pochi giorni fa ne parlavo con un mio amico che fa l’art director: “Caspita, reazioni fighissime per questo EP; si vede che il lavoro che avevo iniziato con ‘V’ inizia a dare i suoi frutti. Però cazzo, abbiamo ancora un po’ ‘sta cosa del freestyle da un lato, e il fatto di essere visto come uno di ‘un’altra generazione’ dall’altro”. Insomma, c’è ancora strada da fare. C’è ancora da combattere. Ma il mio pubblico è cambiato, negli anni: ha smesso di chiedere solo il freestyle, ha iniziato a cantare con me le parole, a chiudere le rime. In questo modo siamo tutti più liberi. Io stesso ora mi diverto ad usare il freestyle non “a comando”, ma qualche volta infilandolo proprio a sorpresa dentro un testo, come se fosse un assolo di jazz con cui arricchire una canzone già scritta e strutturata. Un tempo invece lo stacco era netto: o una cosa, o l’altra. Io per primo organizzavo lo show così. Non voglio assolutamente rinnegare il freestyle, sarà sempre parte di me e di quello che faccio. E’ solo questione di trovare un equilibrio.
(Nuovi equilibri: ecco “Oggi” da poco uscito; continua sotto)
A proposito di equilibrio: qual è a differenza tra Ensi il rapper e Yari la persona?
Inevitabilmente, un po’ si sovrappongono. Ascoltando i miei dischi, capisci anche un po’ come è la mia vita – filtrata chiaramente da ciò che è arte. Ci sono sempre aspetti miei personali che vado a toccare, a sfiorare, ma non a caso… penso ad esempio a “Fratello mio”, un brano di “Clash” che trovo molto riuscito: è molto personale, ma al tempo stesso penso possa essere significativo un po’ tutti quelli che ascoltano. Non è che lì racconti tutto, perché comunque ci sono e saranno sempre parti della mia vita che voglio salvaguardare, e in generale i miei testi devono essere comprensibili per tutti e trattare di questioni in cui tutti si possano in qualche maniera immedesimare. Se volessi parlare di me e solo di me, scriverei un libro, un libro autobiografico. Ma io non voglio scrivere un libro: voglio scrivere canzoni. Di sicuro però parlo più di me nei miei pezzi che nelle storie di Instagram, al contrario di altri; però ecco, quando parlo nelle mie canzoni di cose personali cerco di fare in modo che siano significative per molti, per tutti quelli che in qualche maniera possono sentirsi vicini a me. Sento questa responsabilità.
Fino a che punto il rap è veramente l’espressione della “realtà di strada”? E te lo chiedo per quanto riguarda lo scenario attuale, ma anche quello di quando avevi iniziato… Per me è un problema aperto da sempre, spesso ci si è limitati a rispondere con luoghi comuni.
Eh, bella domanda. In effetti è la prima cosa che si dice del rap.
Appunto, un luogo comune. Ma ogni tanto anche nei luoghi comuni c’è la verità, o della verità. Ogni tanto invece no.
Ma sì, secondo me un po’ di verità c’è. Se paragoniamo il rap al resto della musica, credo sia comunque la cosa più “real” che ci sia. No? Ma anche solo per un fattore molto pratico: nel pop e nel rock spesso è un team che scrive le canzoni, le costruisce, e alla fine c’è solo un interprete che le porta sul palco. Nel rap non accade. Il rapper può parlare anche di quanto è bello il suo orologio: ma lo fa perché quell’orologio ce l’ha davvero. Questo ci rende un po’ “diversi” rispetto ai cantanti: parliamo anche di cazzate, sì, ma sono cazzate reali, raccontiamo la nostra realtà immediata. Poi chiaro, all’interno della galassia hip hop si potrebbe parlare un capitolo gigantesco parlando di “appropriazione culturale”. Ripercorrendo la storia: il rap è arrivato in Italia scimmiottando gli americani, certo, ma poi tra fine ’80 e inizio ’90 c’è stato questo switch verso una vita italiana al rap, adottando la nostra lingua e comunque maturando uno stile personale, modi di dire solo nostri. Oggi mi pare siano tornati ad esserci troppi ragazzini che imitano in maniera piatta e banale tutto ciò che arriva dall’America e stop, senza reinterpretarlo. Segno di mancanza di personalità. Ed è un peccato: perché in Italia di gente figa a fare rap ce n’è tantissima, gli esempi validi da cui attingere oggi non mancano di sicuro.
Vero.
Questo perché non riescono ad andare a fondo in quel che fanno, si accontentano della superficie. D’altro canto ‘sta roba del rap oggi funziona, ha attecchito anche sulla fascia più distratta, quella meno sensibile all’importanza dell’approfondimento; in più, è anche molto facile da approcciare (almeno all’apparenza) e quindi abbiamo un sacco di persone che si limitano ad imitare paro paro. Questa è appropriazione culturale. Mera appropriazione culturale. E’ brutto raccontare la “strada” in maniera finta, enfatizzata, perché di suo la “strada” ha una poetica bellissima. Il problema non è tanto l’ostentare, attenzione, perché ostentare fa in qualche modo parte della cultura hip hop, è un po’ il dimostrare di avercela fatta; il problema è quando fingi, il problema è quando sventoli davanti alla telecamera mille euro come fossero nulla in un periodo in cui molte famiglie fanno fatica ad arrivare fino a fine mese: e allora o li hai davvero, tutti questi soldi, e in questo caso non mi fai impazzire ma va bene posso accettare, ma se invece è solo finzione sei semplicemente uno sfigato. Il problema non è tanto il materialismo, la voglia di apparire, lì sono scelte personali nel momento in cui te le puoi permettere; il problema sono il materialismo e la voglia di apparire come valori proprio in sé, slegati dalla realtà che vivi, ed utilizzati solo per credere di essere più efficaci e più credibili. Quando è vero il contrario.
Oggi mi pare siano tornati ad esserci troppi ragazzini che imitano in maniera piatta e banale tutto ciò che arriva dall’America e stop, senza reinterpretarlo. Segno di mancanza di personalità. Ed è un peccato: perché in Italia di gente figa a fare rap ce n’è tantissima, gli esempi validi da cui attingere oggi non mancano di sicuro
L’eterna lotta tra essere ed apparire.
Esatto. Poi, ci sono dei racconti di “strada” esagerati che comunque funzionano, perché chi li racconta è bravissimo. Ma sono casi davvero rari. Sarebbe così semplice, guarda: la realtà. Il rap ha questa immensa fortuna che ti chiede proprio di parlare di realtà, di ciò che è vero, punto. Una cosa così efficace che ha finito coll’influenzare perfino il mondo del pop, che era invece agli antipodi su questo… Oggi anche Laura Pausini è un po’ più hip hop, nei testi.
Giustissimo. Ma ti dirò di più, tutta la nuova ondata indie – che ha rivoluzionato le vecchie ed apparentemente immutabili gerarchie del pop italiano – ha imparato molto dalla scrittura hip hop.
Beh, qualcuno dei capi di questa ondata arriva proprio dall’hip hop direttamente: Coez, Carl Brave, Franco 126, Willie Peyote, Ghemon… è tutta gente “nostra”.
Ah, giusto, parlando di appartenenza: sono andato a rivedermi su YouTube la chiacchierata che ci eravamo fatti per TRX, e ho notato che fra i commenti – lì e non solo lì – ci sono sempre un sacco di “Grande Ensi, che rappresenta Torino! Torino represent!”. Continua ad esserci un legame molto forte, tra te e la tua città d’origine, tra te e i tuoi ex concittadini…
Sì, e ne vado molto fiero.
Ho abitato abbastanza a Torino da sapere che trasferirsi a Milano, come hai fatto tu, spessissimo è visto come un tradimento.
Eh lo so! Mi hanno perdonato solo perché io sono io, sennò col cazzo… (risate, NdI). Torino è veramente calda, in questi anni. Avevo pubblicato questo contenuto su Instagram qualche giorno fa, dando appuntamento a tutti i ragazzi di Torino alle Vallette, un quartiere dove ho sempre avuto tanti amici. Mio fratello più piccolo, che anche lui rappa come un treno, mi fa un po’ da tramite con la scena locale e le nuove generazioni. Bene: ho fatto degli incontri bellissimi. Sentiamo tutti di rappresentare, in qualche modo, il “rap della classe operaia”: ecco, io rappresento quella cosa lì. Ne sono decisamente orgoglioso. Siamo un po’ quelli che “…non andranno mai in paradiso”, va bene, ma che spaccano il culo comunque. Anzi! Proprio per questo motivo sanno e sentono che devono spaccare il culo quattro volte più degli altri! Mi viene in mente la poesia di Guido Catalano, “A Torino non si scherza un cazzo”: a Torino devi fare le flessioni con un dito solo, prima che ti dicano che sì, effettivamente sai fare le flessioni. E’ così. Ce la portiamo sempre appresso, ‘sta roba… Sono molto orgoglioso che in qualche maniera la mia città mi riconosca il fatto di “rappresentarla”, pur non vivendoci più da un po’. La scena poi, lì, è veramente forte. Negli anni ’90 siamo stati la culla dell’hip hop italiano, nei 2000 abbiamo prodotto un po’ di cose che magari si sono perse abbastanza presto. Poi si è ritornati, magari anche con cose un po’ diverse come Willie, che fa numeri incredibili adesso anche se non esattamente con l’hip hop puro, pure se arriva da lì come ci dicevamo. Vivo a Milano da dieci anni, mio figlio mi corregge quando mi sente fare l’accento troppo torinese, ma in ogni disco c’è e ci sarà sempre una rima sulla mia città. Ci sono legatissimo. Poi guarda, sul fatto di cosa venga fuori da un posto, da una città, da un contesto: prendi Genova, per esempio. Quando ci andavo, nei primi anni 2000, mi chiedevo come fosse possibile che una città con un underground così forte e una personalità così decisa non riuscisse a spiccare nel rap. E’ bastato aspettare qualche anno, un ricambio generazionale, e oggi abbiamo Izi, Tedua… certe volte è solo questione di aspettare.
Vivo a Milano da dieci anni, mio figlio mi corregge quando mi sente fare l’accento troppo torinese; ma in ogni disco c’è e ci sarà sempre una rima sulla mia città
Milano tende però a cambiare le persone, una volta che vai ad abitarci. E’ stato così anche con te?
Sotto certi punti di vista mi ha cambiato profondamente, sì. Dal 2010, l’anno in cui ho mollato il lavoro “normale” che avevo, al 2013 le cose sono cambiate proprio in maniera importante, e parlo proprio a livello personale. Mi hanno cambiato in un modo che, ancora oggi, cerco in parte di correggere. Non è solo un effetto di Milano, eh, era tutto il contesto, c’ero io che finalmente potevo dire “Oh, posso permettermi di mollare il lavoro e dedicarmi alla musica, e lo faccio non solo per sopravvivere, ma proprio per spaccare”. Mi ero concentrato solo su quello. Questo ti porta a vivere le cose anche in modo sbagliato, finisci in situazioni che sì, un po’ ti cambiano. Da quegli anni, sono nati strascichi che durano ancora oggi. Se guardi, anche la mia discografia un po’ rivela tutto questo: in quel periodo c’è stato “Rock Steady”, ma poi più nulla fino a “V”. “Rock Steady” infatti è il mio disco più sofferto, quello che mi sono vissuto peggio, e alla lunga anche quello che ha dato meno rispetto agli altri, anche se era il mio debutto in major ed anche se è stato primo in classifica. Anni travagliati, davvero. E un po’ Milano contava, in tutto questo. Ma non perché sia cattiva o stronza di per sé, ora infatti me la vivo benissimo, le voglio bene e mi piace starci, ma perché all’epoca le sue dinamiche furono dannose per me: se tu non hai voglia di uscire ce l’ha l’amico tuo, vai fuori, sei sempre in giro, ti infili in situazioni che boh. Non è stato tutto solo negativo, attenzione: in questo periodo ho scoperto molte cose e stretto molti rapporti che poi sono stati fondamentali per crescere, sia come artista che come persona. E ora siamo ancora qui. A fare bene. A fare sempre meglio. Dopo il periodo travagliato è arrivato un figlio, poi “V” (che è un discone, e ancora oggi suona da paura), poi ancora “Clash”. Adesso è il momento di “Oggi”: che mette un po’ insieme “Clash” e “V”, che gioca con cose più moderne adottando anche breakbeat, che alterna diversi tipi di rap, alcuni proprio senza ritornelli, altri sperimentali, altri invece un po’ per tutti: io sono così. Mettendoci sempre il mio marchio.
Dovessi riassumere Ensi in un unico brano?
Me ne vengono in mente due. Uno è “Ribelli senza causa”, l’intro di “V”; l’altro è “Come il sole”, preso da “Era tutto un sogno”. C’è l’arte del rap, c’è lo storytelling, sono tutt’e due dei pezzi sì motivazionali ma con una loro carica emotiva importante. Sì, potrei riassumermi così.