Eraldo Bernocchi è un personaggio scomodo, questo bisogna dirlo immediatamente, anticiparlo, metterlo in chiaro e dunque nero su bianco. Eraldo le cose te le dice come sono, nude e senza giri di parole. Lui è uno di quelli che se gli metti sotto il culo un caterpillar, è capace di schiacciare un sacco di roba (e un sacco di persone) senza farsi troppe remore. Eraldo è questo, ma prima di ogni altra cosa arriva la musica, il suo lavoro, il suo amore grande. Il compositore milanese è la quintessenza della passione spropositata verso qualcosa, basti pensare alla quantità di progetti che ha sfornato nel corso di quasi tre decadi, ma soprattutto la mole e la qualità delle collaborazioni. Ci sono, nella sua discografia, cooperazioni che spaziano in quasi ogni genere; dall’industrial, al metal e tornando all’ambient, fino ai corridoi bui e talvolta inesplorati di sperimentazioni audio-visuali geniali con artisti d’importanza mondiale. Una cosa la devo mettere in chiaro anch’io: sono di parte e sarò di parte, cercherò di mantenere la professionalità di chi intervista, ma tant’è. Giusto che chi legge, lo sappia. Eraldo è a Londra nel momento in cui ci contattiamo tramite Skype Call, domando perché si trovi in Inghilterra e lui dice soltanto che l’intenzione è quella di ‘levarsi definitivamente dai coglioni’. Sta parlando dell’Italia.
A che cosa ti stai dedicando in questo momento?
Una marea di roba.
Immagino, considerando la mole di produzioni e collaborazioni che hai buttato fuori dagli anni ottanta ad oggi.
Allora, sto lavorando su un nuovo disco dei Metallic Taste Of Blood, ancora insieme a Colin Edwin (Porcupine Tree), ma abbiamo cambiato il batterista, dato che Balàzs Pàndi (Obake) è attualmente impegnato su altri fronti. Al suo posto c’è Ted Parsons (Swans, Godflesh, Jesu, Killing Joke) e siamo contentissimi, perché sta uscendo un buon lavoro. Dobbiamo capire quali guest inserire nel progetto, ma già come trio direi che è convincente.
Confermo. Molto convincente.
Sto lavorando su di una nuova band insieme ai Morkobot e a breve faremo sapere i dettagli. Il disco uscirà per Subsound Records, ma il nome della band non te lo voglio dire, perché lo sveleremo solo all’ultimo. Harold Budd ed io stiamo ragionando sull’idea di fare un altro album insieme, ma sarà lunga, considerando i tempi bliblici di Harold. In uscita anche il nuovo album di Obake, con relativo tour in partenza per settembre, un paio di cose con Sigillum S e un progetto insieme ad un beat boxer giapponese.
Un beat boxer giapponese?
Sì, un mostro di bravura. Si chiama Ryo Fujimoto (Humanelectro) e fa dei loop con la voce, controllandoli poi con delle nuove tecnologie. E’ fuori come un balcone, quel ragazzo. Parte dall’idea di essere un beat boxer, ma è parecchio di più, tanto che sta diventando molto popolare e rischiamo di non riuscire più ad organizzare il nostro “incrocio magico”.
Ci sono altre cose in ballo oppure possiamo fermarci qui?
No, ci sarebbero molte altre cose in realtà, ma che sono ancora embrionali e quindi sarebbe inutile parlartene. Ad esempio, ho un progetto in duo con Jamie Saft (Zorn, Bad Brains, New Zion Trio, Black Shabbis), un lavoro ambient, soundscapes molto scuri in cui io suono chitarre trattate e lui il pianoforte. Stiamo cercando di trovare lo schema giusto, poi partiremo.
Ok. Mi hai parlato dei Sigillum S e di Ashes, che sono i primi noti progetti della tua seconda vita, quella dopo il rock. Dietro i Sigillum S c’è il concetto dell’ anti-band, ovvero l’idea di fondere il suono, la parola e l’immagine senza che nessuno di essi prevalga sull’altro. Credo sia un’impresa tanto chiara sulla carta, quanto difficile poi nell’attuazione. Era il 1985, con il senno di poi pensi di esserci riuscito?
Sigillum S è una ricerca continua, non posso dire se ci siamo riusciti realmente, sicuramente ci abbiamo provato e continuiamo a provarci. E’ un percorso senza fine, perché ogni volta facciamo una nuova ricerca, proprio perché siamo tre elementi molto diversi come attitudini. Luca Di Giorgio, per esempio, probabilmente è l’elemento più stranbo del trio. Lui ha un’educazione musicale classica, passa ore a studiarsi gli spartiti di Bach e Chopin e quando sale sul palco, in mezzo alla barriera di rumori, infila delle parti d’organo che resti spiazzato. Per farti capire, Luca è uno di quelli che ha ancora l’autoradio con le cassette. E’ la persona meno tecnologica che io conosca, veramente, però è anche quello che tira fuori il suono perfetto.
Ora a me e Paolo Bandera è venuta in mente un’idea, che in realtà stiamo maturando da diverso tempo, tenuto conto del fatto che sono diventato completamente avverso al computer: tornare alle “scatolette”.
Alle “scatolette”?
Sì, i synth, anche quelli autocostruiti, senza abbandonare completamente il computer, però dedicandoci di più all’analogico. Abbiamo anche pensato di provare a fare alcuni concerti invitando dei batteristi.
Nomi?
Abbiamo qualche idea. Per esempio, Bàlazs Pàndi potenzialmente potrebbe essere perfetto. E’ talmente abituato ad improvvisare e a passare dal metal al free jazz e al dub, che cadrebbe a fagiolo. Anche Ted Parsons potrebbe funzionare, ma a quel punto dovremmo cambiare l’ottica del progetto e andare verso un discorso “macchina”, dato che Ted è un groove man mostruoso. Lo metti sul palco e ti tira fuori i suoi drumming alla Swans o Killing Joke. È veramente una macchina. Ti dico, nel disco di Metallic Taste of Blood di cui ti parlavo prima, ci sarà una traccia che va a 48 bpm e Ted su questo tipo di cose è un mago. Comunque, tornando alla domanda, Sigillum S è in costante ricerca di cose nuove, magari, per esempio, domani incontro un pakistano bravissimo che fa cose stupende e gli propongo di collaborare. Non abbiamo limiti, è il progetto dove io mi sono sempre sentito estremamente libero di sperimentare. Questo è il concetto di anti-band. All’epoca tutti avevano un gruppo, noi volevamo essere l’opposto, ovvero diventare un contenitore dove ogni elemento poteva scambiarsi ed dove chiunque poteva entrare a farne parte. Non era facile, voglio dire, erano gli anni ottanta, ci si doveva scrivere delle lettere per comunicare. Vivevamo a Milano, per rendere la cosa più semplice avremmo dovuto trasferirci a Londra, dove avevi l’opportunità d’incontrare molta gente interessante.
Era una cosa parecchio più lenta.
Sicuramente, anche se in realtà aveva i suoi vantaggi. Ti faccio un esempio; la prima volta che ho comunicato con Harold Budd era il 1993 e gli scrissi una lettera, dato che un amico di un amico mi diede il suo contatto. Dopo due mesi mi arrivo la sua risposta per posta: otto pagine scritte con una calligrafia perfetta che sembrava uscita da un testo antico. Era un mini racconto in cui riportava tutta una serie di cose interessantissime. Morale della favola: sono ventuno anni che ci conosciamo e che collaboriamo, continuando a scriverci. La lentezza di cui parlo ti dava la possibilità di ponderare meglio le cose. Ora vai su Facebook e comunichi alla velocità della luce in qualsiasi punto del mondo, cosa che ha dei vantaggi immediati, sia mai, ma che in realtà trasforma tutto in qualcosa di più effimero rispetto a prima.
E’ il discorso legato alla tecnologia che mi ritrovo a fare spesso con le mie conoscenze: la ricerca spasmodica verso la perfezione e l’immediatezza che indubbiamente ha dato una scossa, ma che si è portata via tutta una serie di cose. La velocità con la quale entri in contatto con le cose e le persone è talmente impalpabile, che queste stesse cose e persone, a cui potresti e dovresti dedicare più tempo, risultano lievi e perdono immediatamente d’interesse. Qualcos’altro catturerà la tua attenzione, svanendo anch’esso l’attimo successivo.
Il discorso è proprio questo. Hai una quantità d’informazioni decisamente rilevante. Noi pensiamo che avere questa mole di dati sia un vantaggio, ma fondamentalmente non facciamo altro che graffiare la superficie della nostra conoscenza. Mentre prima era diverso, ti dovevi prendere la briga di leggere per imparare e questo voleva dire andare a cercare dei libri, dovevi incontrare delle persone con cui scambiare determinati punti di vista. Il sabato per me era dedicato a comprare i dischi, non m’importava di nient’altro. Erano queste le cose che facevano la differenza. Oggi accendi Facebook, chatti con duemila persone, hai la possibilità di ascoltare musica con un click. E’ proprio da questo perdiamo il sapere. Ci sono una quantità indefinita di producer e band che mi scrivono e mi mandano demo inascoltabili. C’è tutto un filone sperimentale, industrial, noise (che comunque sta avendo un grosso ritorno) che propone produzioni imbarazzanti.
Tu, comunque, da quanto mi risulta, sei molto attivo su Facebook.
Io sono un rompicoglioni. Sono polemico di natura, a volte posto delle cose esclusivamente per far polemica, aspettando quello che mi risponde incazzato.
Immagino. Torniamo indietro: Ashes. Il tuo primo progetto solista.
Esatto, nel 1994 esce il primo disco, autoprodotto e auto stampato. L’idea che c’era dietro era di creare colonne sonore per stati d’animo. Solo che a lungo andare il lavorare da solo a me stufa.
Si era notato.
Ecco, su alcune cose va bene, ma su altre la trovo una forma di narcisismo tipicamente artistico. A me piace lo scambio, quindi a quel punto ho coinvolto Raiz (Almamegretta). Il giornalista Luca Valtorta, che è un fan di Sigillum S e altre cose legate soprattutto al noise giapponese, mi dice: “Secondo me dovresti incontrarti con il cantante degli Almamegretta perché sicuramente potreste collaborare.” A quel punto, nel 1994, io e Raiz ci siamo incontrati e da allora siamo come fratelli. Abbiamo cominciato a mettere insieme delle idee e a lavorarci, nel frattempo io sono entrato in contatto con il bassista Bill Laswell (New York Gong, Zakir Hussain, Tabla Beat Science), il quale s’innamorò della voce di Raiz ed entrò a far parte del progetto. Questo è quanto. Ad ogni modo, è diverso tempo che io e Raiz stiamo pensando di fare un lavoro, sempre con Ashes, che abbia dei tratti più desert rock. Una cosa che mantenga il nostro germe primario, che è il dub, ma che vada a miscelarsi con temi più pulp o morriconiani. Ci piace l’idea di vagabondare in altri territori. Alla fine, parlandoci chiaro, Ashes è per Raiz quello che per me sono i Sigillum S, un progetto dove esprimersi in totale libertà. Il confronto è solo tra di noi, non abbiamo label con cui raffrontarci, con questo non dico che l’etichetta discografica c’imporrebbe determinate cose.
Ma è anche ovvio che una label dei paletti te li mette, in ogni caso.
Assolutamente. E’ chiaro che se tu fai un canto da muezzin di ventotto minuti su una barriera di rumore, l’etichetta non sarà entusiasta di fare un recordings budget che, verosimilmente, non vedranno mai. Questo è anche uno dei motivi per cui io sono stato sempre piuttosto lontano dal quel mondo di labels e management. Oddio, management in realtà c’ho anche provato, ne ho avuti due o tre, ma sono durati pochissimo. Uno di questi non lo dimenticherò mai, ricordo che mi chiese: “Ma tu, esattamente, che genere fai?” E’ stata la fine. Io non faccio un genere, faccio quello che mi passa per la testa, ma lo faccio professionalmente.
Tipo i Somma.
Loro sono stati l’evoluzione della parte rituale di Sigillum S, concettualizzata benissimo da Petulia Mattioli, la quale ha avuto una grande intuizione. Io ho coinvolto Laswell e, proprio come di base, Sigillum S parte dal presupposto di creare degli strumenti rituali per la società contemporanea, così Somma è l’attuazione del guidare sul palco quel rituale collettivo. Tutto quello che ascolti è improvvisato, che è una cosa pericolosa, considerando che durante lo show si esibiscono contemporaneamente sette/otto musicisti, dei monaci tibetani e un live visual. Il rischio è dietro l’angolo. Per esempio, quando nel 2001 abbiamo fatto il concerto per il Dalai Lama al Teatro Santa Chiara di Torino, per me è stata pura perfezione. Alla fine del concerto ci siamo guardati e ci siamo detti: “è stata una follia”. Improvvisavano anche i monaci. Una cosa incredibile, credimi. Tra l’altro di quel concerto abbiamo sia una registrazione audio che ho fatto uscire in edizione limitata, che una registrazione video ripresa da sei telecamere.
Non mi risulta sia in vendita.
No, ma sto pensando di farne una serie limitata in DVD.
Dove sei andato a prenderli i monaci tibetani?
E’ l’unica causa social/politica su cui lavoro e per cui combatto da quando ho diciassette anni. Con gli anni mi sono creato una serie di contatti con centri tibetani e associazioni varie.
Il che combacia con gli anni che hai passato in estremo oriente?
In parte. In realtà ho lavorato di più nel sud est asiatico; Thailandia, Malesya, Indonesia, Cambogia. Non sono mai stato in Cina, anzi, probabilmente non mi danno nemmeno il visto per entrarci. Ho fatto talmente tante cose a favore del Tibet che, sicuramente, i servizi segreti cinesi mi hanno schedato già da diverso tempo. Almeno tre o quattro volte l’anno mi chiedono lo show di Somma da diverse parti del mondo e ogni volta finisce nel nulla, perché i cinesi mettono il veto. E’ successo anche l’ultima volta a Milano, quando abbiamo fatto Suoni e Visioni e siamo riusciti a fare il concerto solo grazie a Enzo Gentile che l’ha presa come una sfida personale. Quindi adesso stiamo ragionando su dove e quando fare il prossimo Somma, anche perché, al di là di tutto, è un progetto costoso. I musicisti vengono quasi tutti a rimborso spese oppure a metà cachet, ma sono parecchie persone con tanti alberghi e tanti voli.
Che radice ha il nome Somma?
Inizialmente, con Bill, avevamo pensato a Soma, ma ci sono già diversi altri progetti già legati a quel nome, allora abbiamo cambiato in Somma, da una parte la parola in italiano spiega già tutto, ma è anche un acronimo di Segret Order of Magic Music and Art. E’ la stessa cosa che avevamo inizialmente pensato di fare con Sigillum S, ovvero tenere Sigillum e cambiare, a seconda dei progetti la lettera finale, così da dargli una connotazione diversa. Alla fine, però, è rimasto come in origine.
Mi piacerebbe sapere una cosa, come vi siete conosciuti tu e Harold Budd, al di là della lettera da otto pagine.
Abbiamo avuto uno scambio epistolare per diverso tempo fino a quando lui è scomparso nel nulla per quattro anni. Un buco nero. Sono riuscito ad avere sue notizie solo dal manager di David Sylvian, il quale mi disse che Harold era in una situazione strana.
Ovvero?
Si era letteralmente eclissato dal mondo. Non voleva più avere a che fare con nessuno. Solo nel 2001 Bill Laswell mi disse che sarebbe venuto a Roma a fare un concerto insieme ad Harold Budd e io rimasi stupito. Stava parlando del progetto di Jah Wobble, Solaris, e al pianoforte effettivamente c’era Harold. Così finalmente ci siamo incontrati, improvvisamente catapultati dentro l’era delle e-mail, quindi con la possibilità di tenerci in contatto molto più agevolmente. Nel 2003 ho invitato Harold Budd al Palazzo delle Papesse, per sonorizzare una videoinstallazione di Petulia Mattioli. Devo ringraziare, per questo, Marco Pierini, che all’epoca era direttore del Museo delle Papesse e che oggi è direttore della Galleria d’Arte Contemporanea di Modena, il quale finanziò il progetto. Noi registrammo tutto e con quella registrazione nacque Fragment from the Inside per Subrosa. Ti do un’anticipazione: uscirà a breve una ristampa in edizione limitata su doppio vinile.
Sempre sotto Subrosa?
Sì. Non lo mollano. (ride) A parte gli scherzi, in realtà sono molto contento di questa cosa. I diritti sul disco li abbiamo noi, ma io parto da un presupposto: se una label ha investito dei soldi su di me e mi ha dato la possibilità di fare delle cose, considerando che un Eraldo Bernocchi, se ha la possibilità di produrre dei dischi, è soprattutto grazie a delle label che hanno una visione differente. Io non sono un musicista mainstream, quindi se qualcuno vuole fare uscire una ristampa di un mio disco, ha tutto il diritto di farla, al fine di recuperare anche quel denaro che ha investito su di me. Comunque, io e Harold ci siamo risentiti quando, insieme a Giacomo Bruzzo, ho fondato RareNoise, e gli ho chiesto di fare un’altra collaborazione. Lui mi ha detto che ne era molto felice e mi propose di coinvolgere anche Robin Guthrie. Ti lascio immaginare la mia gioia. Ci siamo chiusi tutti e tre in uno studio in Toscana ed è uscito Winter Garden, da quel momento io e Guthrie siamo rimasti in contatto e qualche tempo fa abbiamo pensato di fare un disco insieme, una sorta di duo di chitarre. E’ una di quelle cose che si dicono davanti ad una bottiglia di vino e poi bisogna vedere se accade, ma generalmente ci vuole solo un po’ di tempo ma si arriva sempre a qualcosa. E’ la differenza sostanziale tra i produttori americani e quelli europei, Harold si considera un europeo in questo senso e, al contrario degli americani che fanno tutti immediatamente, gli europei si prendono il loro tempo. Va bene così, perché ti da il tempo di ragionare bene su tutta una serie di cose.
A proposito della RareNoise, me ne vuoi parlare?
RareNoise Records l’abbiamo fondata Giacomo Bruzzo ed io, solo due pazzi potevano aprire una label mentre tutte le altre chiudevano, fallivano, licenziavano. Lo abbiamo fatto e ora raccogliamo i frutti. C’è la fila fuori dalla porta per far uscire qualcosa con noi. Siamo riusciti a mettere insieme nomi importanti del jazz e dell’improvvisazione, del metal estremo e, più o meno, ogni genere che ci piace. Abbiamo il release schedule pieno fino a quasi metà del 2015 e stiamo crescendo sempre di più. E’ dura, molto dura, ma ci stiamo riuscendo. Ci interessano musicisti che condividano la stessa visione che abbiamo noi della musica e della creatività. Persone aperte alla collaborazione e che abbiano passione per ciò che fanno. Alla fine tutto ciò paga.
Per chiudere il discorso collaborazioni, che nel tuo caso è molto ampio, vorrei che mi raccontassi qualcosa su di una band alla quale sono molto affezionato: i Crisis. Anche perché, aggiungo, è una cosa che si allontana un poco dal resto dei tuoi lavori più conosciuti.
Anche io ci sono molto affezionato. Tieni conto che arrivo dal metal e dal punk, a conti fatti quella cosa ti rimane dentro, quindi continuo ad avere i miei contatti, vedi Ted Parsons, oppure Justin Broadrick (Napalm Death, Godflesh, Jesu) con il quale sono in costante contatto. I Crisis li ho conosciuti nel 1994 ed è stata una sorta di rivelazione, perché all’epoca non c’era nessuno con quelle sonorità. A parte il fatto che ancora oggi non c’è nessuno che fa quel tipo di roba, rimasi impietrito dai riff di chitarra di Afzaal Nasiruddeen, il quale usava delle scale e delle melodie pakistane di una complessità incredibile, insieme a quella voce da angelo e demone che era Karyn Crisis. Andai a sentirli per la prima volta in sala prove a New York e rimanemmo in contatto. Nel 2004, volai a Los Angeles insieme a Petulia, ospiti di Afzaal e Karyn, che ai tempi erano ancora una coppia, però ormai in rotta. In quei giorni registrammo delle cose insieme, proprio perché avevamo idea di fare una collaborazione e, infatti, una di quelle registrazioni entrò, in seguito, nella tracklist di 23/20 di Sigillum S. E’ una traccia con Karyn alla voce e sembra realizzata apposta per quel disco, ma in realtà era stata registrata per una canzone metal. Ho estrapolato il vocals e ho costruito sopra un pezzo di 23/20. Nel 2008 andai a San Francisco (nel frattempo Karyn e Afzaal si erano lasciati) con l’idea di produrre il disco solista di Karyn e il resto è storia, perché non è andata a finire bene. E’ una di quelle cose che ancora oggi non riesco a capire, dato che avevo coinvolto anche Davide Tiso (sposato attualmente con Karyn) nel progetto. Nel momento in cui lei venne in Italia per registrare le voci ci fu un enorme malinteso, di cui io sono tutt’ora all’oscuro, il quale ha mandato all’aria il progetto. Sono anni che tento di capire cosa sia accaduto, ma credimi che non ne ho la più pallida idea. Nonostante questo, resto convinto che Karyn sia una forza della natura, se guardi i videoclip dei Crisis, nonostante siano passati più di dieci anni, ti rendi conto che quella ragazza, quando canta, è un pugno nello stomaco. Infatti, quell’avvenimento è una cosa che mi è rimasta sul gozzo, perché sono convinto che avremmo potuto fare una grande cosa.
Chi è Eraldo Bernocchi quando non produce?
E’ uno che cucina parecchio, fotografa, soprattutto è appassionato di dettagli. Adoro i macro mondi. Insomma, cerco di fare delle cose normali. Una lezione che ho imparato da Laswell nel corso degli anni è quella di non andare in studio di registrazione se non ho nulla su cui sto lavorando, mentre prima andavo comunque a creare qualcosa. Non ho più voglia di sprecare energie creative per poi buttare via il lavoro, piuttosto le uso per cercare concerti, mettermi su Skype a parlare di musica, leggere ed informarmi, oppure, semplicemente, non fare niente per due o tre giorni e giocare alla PS3.
Sei appassionato di videogiochi?
Certo. Va bene che ho cinquant’anni, ma non sono ancora morto. Voglio divertirmi, non che faccia delle cose esaltanti, sia chiaro, ma almeno la mia PS3…
Com’è partito tutto? Voglio dire, quando e dove hai incontrato la musica?
La storia inizia quando un mio amico italo-americano, alle scuole medie nel 1976, mi diede questo doppio vinile, che altro non era che Alive dei Kiss, un disco epocale, e mi disse: “Devi assolutamente ascoltare questa roba.” Io avevo tredici anni e sono impazzito. In quel momento mi è cambiata la vita. Dopo i Kiss sono arrivati i Pink Floyd, dopo di loro i Motorhead, i Sex Pistols e via dicendo. Io, come tutti i ragazzini dell’epoca, ho iniziato a suonare la chitarra elettrica. Così formammo una band io, Ciro, che all’epoca era il batterista dei Tiratura Limitata, Brigel e Andrea Scaglia dei Ritmo Tribale. provavamo in una soffitta e ci divertivamo tantissimo, ma dopo un po’ mi sono reso conto di essere un incubo per gli altri membri della band, perché ho una sorta di autismo che mi porta a non riuscire a suonare la stessa cosa sempre uguale. Un minimo devo cambiare, anche se solo un riff. Un mese fa stavo riguardando il concerto dei Rolling Stones che hanno fatto ad Hyde Park, bellissimo, un grande concerto, ma dentro di me pensavo: “Questi sono cinquanta anni che suonano le stesse cose uguali, ma come cazzo fanno? Non si sono ancora impiccati a delle casse?” Io non ci riuscirei, dentro un brano come Brown Sugar dovrei necessariamente metterci almeno trentadue battute di qualcosa. Qualsiasi cosa, ma che ad ogni concerto cambi. Oltretutto, per tornare alla mia band, nonostante ascoltassimo le stesse cose, io ero interessato anche ad una parte più elettronica che a loro non interessava. Adoravo il kraut, i Tangerine Dream, Ash Ra Tempel e i Kraftwerk, quindi, ad un certo punto mi sono messo a sperimentare da solo. Il fatto è che non sono mai stato un appassionato di rock italiano, questo era già un punto a mio sfavore. Mi piaceva qualcosa della progressive degli anni settanta, come i Goblin oppure gli Area, cui nutro grandissimo rispetto, ma le altre cose rock italiane mi sembravano delle forzature, anche se in realtà il rock è un linguaggio universale. Quasi tutta la musica in fondo lo è, però la cosa che più mi ha dato fastidio e continua a darmelo, perché trovo che sia un errore madornale da parte di chi si occupa di comunicazione, è etichettare in rock italiano, disco italiano, scena sperimentale italiana. Capisci? Se tu vuoi che la musica non abbia confini, non puoi approcciarti in questo modo. Ci sono delle band italiane fantastiche che riescono a superare i confini del nostro paese, questo perché fuori di qui nessuno si pone il problema del capire se sei italiano, svedese o inglese. Non gli frega niente. Altra cosa, il cantato in italiano non mi fa impazzire, infatti collaboro con Raiz che canta in dialetto napoletano. (ride)
A parte Lindo Ferretti, con cui hai collaborato. Lui canta in italiano.
Sì, anche Joe dei La Crus mi piace parecchio, ma in fondo il suo è un cantato italiano molto particolare.
Allora la domanda viene da sé: la discografia italiana. Tu sei passato attraverso l’età dell’oro fino alla crisi nera, cos’è successo?
Sai, a me, dopotutto, è andata piuttosto bene. Io la discografia, non solo quella italiana, l’ho presa per quello che poteva darmi. C’è stato un momento in cui giravano veramente tanti soldi, cifre come l’equivalente degli attuali trentamila euro per far uscire un disco sotto etichetta indipendente. Ora te lo puoi sognare, arrivi a cinquemila euro massimo e devi anche essere felice che te li stiano dando. Nella discografia italiana, in tutti questi anni, mi è capitato di trovare della gente molto competente, con una grande passione per la musica e altra gente assolutamente incompetente, che non aveva e non ha la più pallida idea di cosa voglia dire occuparsi di musica e avere a che fare con degli artisti. Ora, nel momento in cui tu decidi di far uscire un disco, anche se te lo produci e te lo stampi in casa, comunque sia stai facendo del mercato. E’ inutile farsi dei castelli etico-morali che non esistono. Stai vendendo un prodotto. Lo fai per guadagnare, per rientrare delle spese, per finanziare il prossimo progetto, per arrivare alla fine del mese oppure, semplicemente per far conoscere la tua musica al mondo. Non importa. Stai vendendo e non ci piove. Detto questo, creare qualcosa di magico tra label e artisti è tutto un altro paio di maniche, altrimenti non esisterebbero etichette come la Mute Records o la Roadrunner, per fare due esempi calzanti. Se ci fai caso, questo tipo di etichette che hanno fatto la storia, spesso smettono di esistere nel momento in cui vengono ingoiate da label più potenti, dove, negli uffici, trovi gente che sta seduta tutto il giorno dietro una scrivania e non sa minimamente cosa vuol dire fare musica. Questo non te lo puoi permettere. Devi sapere cosa significa vivere di musica, devi sapere cosa c’è la fuori. Puoi essere un genio del marketing, bravissimo nel tirare delle righe sui budget e arrivare a fine anno che sei in pari, ma se lo fai a discapito della qualità o dei rapporti con gli artisti, non andrai lontano. Il problema della discografia italiana è che, spesso ti trovi davanti a dei sistemi in cui le cose si fanno solo se c’è un tornaconto. Si stampano dei dischi perché c’è un editore che ci mette i soldi, quindi il budget è già coperto dato che li distribuisce nelle sedi sindacali, le quali hanno già garantito migliaia di copie di acquisto e a quel punto il culo è parato. Quindi, che il disco vada bene o vada male non è importante, tanto c’è un’entrata garantita di svariate migliaia di euro che vanno a coprire. Capisci cosa voglio dire? Nella mia strada ho incontrato gente con una grande passione e gente che avrei voluto prendere a martellate.
Capisco perfettamente, credo sia un sistemuccio non esclusivo dell’Italia, comunque. Ovunque è così.
Ovvio e aggiungo una cosa che probabilmente farà incazzare parecchia gente: spezzo una lancia a favore delle major rispetto alle indipendenti.
Attenzione.
Te la spiego, però nonostante io sia socio fondatore di un’etichetta indipendente, questa è una di quelle cose che ho sempre sostenuto. Premettendo che almeno il 50% delle label indipendenti sono gestite da persone competenti e appassionate di musica, questo non toglie che ce n’è un’altra metà che ragiona come le major, ma senza averne il budget a disposizione e che, di fatto, pretende dagli artisti molto di più di quanto non facciano le major. Dando molto di meno a livello puramente monetario. Voglio dire, meglio quelli che ti dicono: Questo è il budget a disposizione, se vuoi è così, altrimenti abbiamo una fila di gente dietro di te, perché siamo una major. Noi ti garantiamo un certo tipo di promozione e visibilità, se ti metti sotto, può darsi che tu ce la faccia. Io ho fatto uscire ormai più di cento dischi, sono passato dalle musicassette per le micro etichette, ai dischi con le major, editori sconosciuti, editori famosi, le ho provate tutte. Non ci credo più a quelli che parlano di etica e morale, credo ai professionisti. Quando qualcuno oggi mi dice che vuole iniziare a fare musica, io gli dico di non farlo. Se mi stai chiedendo un consiglio ti dico di non provarci. Se pensi di vivere facendo il musicista, sei veramente fuori strada, è una cosa difficile, c’è da buttarci il sangue. Ho letto, recentemente, una bellissima intervista a Robert Fripp dei King Crimson, in cui lui dice: Se io potessi tornare indietro, mi troverei un lavoro in ufficio e non farei il musicista a tempo pieno.
In tutto questo discorso sulla crisi della discografia, non hai mai accennato alla pirateria. Non lo vedi come il male maggiore.
Se ti devo dire la mia riguardo la pirateria, sappi che è un discorso che può essere frainteso. Vado?
Prego.
Secondo me, se la gente si scarica l’ultimo di Ligabue, non è un reato. Sto dicendo una cosa scorretta, lo so, ma il discorso non è riferito a Ligabue come artista, è per il semplice fatto che, a mio parere, vista la quantità di copie che vende, gli converrebbe metterlo, per un certo periodo di tempo, in free download. Dall’altra parte, se tu scarichi il mio disco con Black Film, stampato in cinquecento copie da un’oscura etichetta finlandese, sei uno stronzo. Perché non dai la possibilità a questa oscura e sconosciuta etichetta di finanziarsi il prossimo progetto.
Secondo il tuo punto di vista, quindi, bisogna sapere selezionare cosa scaricare illegalmente e cosa no.
E’ un concetto che può essere inteso male, me ne rendo conto, anche perché la gente scarica per il semplice fatto che gli si da la possibilità di farlo. Qualcuno potrebbe decidere anche di mettere un intero album a dieci centesimi oppure ad offerta libera, ma non cambierebbe niente, perché verrebbe scaricato gratis. E’ il gratis che vince. Questa cosa dovrebbe essere cambiata alla radice, ma non so come.
Esatto, forse il problema più grosso è proprio quello. Non voglio espormi su cosa sia giusto e cosa sbagliato, ma non credo ci sarà alcuna inversione, fintanto che chiunque può avere qualcosa gratis cliccando su di un’icona. Non c’è offerta libera che tenga.
Purtroppo è così. Mia nipote sa che faccio musica e ultimamente mi ha detto: “Zio, ma non è più facile cercare una cosa su internet piuttosto che comprarla su Itunes?”
Ti rendi conto che è la normalità.
La normalità assoluta e forse definitiva.