Inutile girarci attorno: o si è musicisti e si produce della musica, o d’istinto ci siamo lamentati tutti ma proprio tutti quando è saltato fuori che ogni giorno vengono caricate su Spotify 100.000 tracce – una rappresentazione numerica e plastica di quanto sia tutto davvero tanto, anzi, troppo. Di più, la roba divertente è che si sono lamentati anche molti musicisti: si sa, la “musica inutile” non è mai la propria, è sempre quella degli altri. Poi però a rifletterci meglio arriva la domanda, certo che arriva: ma ha veramente senso lamentarsi? Ha un senso porre un limite alle cose?
Forse dobbiamo semplicemente abituarci ad una dinamica diversa rispetto al passato. Oggi, la moltiplicazione esponenziale dei contenuti (musicali, e non solo musicali) potrebbe essere una dinamica normale quasi come respirare, qualcosa insomma di semplicemente inevitabile, e il compito nostro – come giornalisti, come ascoltatori, come addetti al settore, come semplici appassionati, come quello che volte voi – forse non è più quello tout court di scoprire, ma quello di farsi largo in questa giungla di overload totale trovandoci una direzione, una traiettoria, una narrazione.
Proprio partendo da queste premesse, dobbiamo dire che è stato molto interessante trovarsi a tu per tu una mattina con Andreea Gleeson, la CEO di TuneCore. Per chi non lo sapesse: TuneCore (qui il suo hub italiano) è un po’ il gigante del “grado zero” della distribuzione digitale, quella improntata al più semplice ed efficace fai-da-te. Ovvero: paghi un fisso d’ingresso veramente basso, TuneCore distribuisce per te la tua musica su varie piattaforme (dandoti qualche tool utile per monitorare e gestire); da lì in poi sta tutto a te, sta davvero tutto a te. Anche il guadagno: ti finisce infatti in mano tutto, il 100% di quello che maturi.
Ovviamente ci sono servizi molto più evoluti ed articolati, a partire da Believe, il colosso francese della distribuzione on line su scala globale, ben presente nel nostro Paese (dove comunque sta diversificando le operazioni, diventando sempre più anche label a tutti gli effetti per alcuni selezionati act), che anni fa ha acquisito proprio TuneCore, lasciandogli tuttavia totale autonomia operativa; come primo approccio però – o per chi vuole “tornare alla base” – TuneCore appunto è una soluzione perfetta: quella in ogni caso con le barriere all’ingresso più basse, anzi, praticamente inesistenti. Ed è così che arrivare a nutrire il mondo di materia musicale, un nutrimento che passa ormai quasi interamente tramite la distribuzione digitale, diventa ancora più facile ed immediato, grazie all’implementazione della semplicità e del fai-da-te. Arrivando più agilmente ai 100.000 e passa brani caricati al dì. Una cifra spaventosa, appunto. Ma…
…ma, Andreea arriva a darci una chiave di lettura veramente interessante. Spingendosi a dire che tutta questa polemica contro l’eccesso di musica in circolazione, beh, è insufflato dalle major: “E certo che loro detestano il fatto che ci sia tanta musica che viene messa in circolazione!” (corollario implicito: tanta musica messa in circolazione da chiunque, quindi in primis da realtà indipendenti ed artigianali). “Perché ‘questa’ musica erode il loro fatturato. Erode la loro quota di mercato. Ti cito i numeri: quando io sono entrata nell’industria musicale, nel 2015, le produzioni completamente indipendenti avevano una market share dell’1,7%. Oggi questa quota, dati dell’ultimo anno alla mano, è arrivata al 5,3%. Capisci? Ci credo, che a loro dia fastidio che ci sia tanta musica in più che entra sul mercato! Certo che gli dà fastidio! Io sono convinta che una maggiore quantità di musica in giro lì fuori possa, in realtà, offrire una esperienza migliore per il fruitore”. Ah sì? Sicura sicura, Andreea?
“Sì. Allora: io arrivo dal mercato del retail, lavorativamente; e sono stata testimone in prima persona della rivoluzione che Amazon ed altri servizi simili hanno portato. Possiamo onestamente dire che oggi per l’acquirente finale la situazione sia peggiore? Vogliamo spingerci a tanto? Un tempo, se volevi comprare una maglietta, dovevi andare nei negozi, sperare di trovarla ad un prezzo decente; e comunque c’era un modello solo, e non era detto che ti andasse bene. Ora? Ora puoi scegliere tipo, taglia, colore e prezzo, in una abbondanza di scelte che può andare incontro a tutti i gusti e tutte le tasche. A me pare un miglioramento”. Beh: lo è. “Anche perché al di là di darti maggior scelta al momento dell’acquisto, in realtà succede anche un’altra cosa: migliora anche l’esperienza d’acquisto sul lungo periodo, per acquisti successivi, perché il ‘negozio virtuale’ piano piano si modella attorno a te, ai tuoi gusti, e quindi ti fa arrivare più velocemente a quello che cerchi o potresti cercare”. Ok. Ma qui stiamo parlando di abbigliamento, o simili. La musica invece… “La musica mi pare si comporti sempre più secondo dinamiche simili mi pare”, ci rintuzza convinta Andreea. “Mi pare che tutti ci siamo abituati ad ascoltare musica tramite playlist, e a farci suggerire cose dagli algoritmi – algoritmi che sono diventati talmente sofisticati e ben fatti da saper ‘leggere’ bene quali sono le cose che ci potrebbero piacere. No?”.
Se vi sembra terribile un mondo in cui si è progressivamente schiavi degli algoritmi e via via sono loro a decidere per noi, Andreea però sottolinea l’altro lato della medaglia. Ed è un lato molto importante: “Gli algoritmi li possiamo gestire, li possiamo ascoltare anche solo fino ad un certo punto, li possiamo indirizzare a nostro piacimento. Abbiamo questa possibilità: certo che ce l’abbiamo. Ma prima? Vogliamo pensare a come stavano le cose prima? Che possibilità avevamo prima? Vogliamo ricordarci che era solo una ristretta cerchia di persone – etichette, programmatori radio o tv – a decidere quello che potevamo ascoltare e quello che ci poteva piacere? E allora: era meglio allora o adesso? C’era più libertà e sincerità allora o adesso?”.
Nella conversazione poi scivola un altro asso nella manica di Andreea. Anche qui, come darle torto. “Ma parliamo non di grandi sistemi, ma di fatti reali. Un ragazzo o una ragazza che si approcciano alla musica hanno, inevitabilmente, una scarsissima conoscenza almeno all’inizio di quello che sono i meccanismi dell’industria musicale ed anche i modi per poter arrivare ai suoi circuiti. Per farcela, fino a pochi anni fa, e per poter quindi iniziare a farti sentire, dovevi in qualche modo legarti a realtà esterne, che ti potessero ‘introdurre’, aiutare. Per farlo, dovevi entrare in contatto loro in qualche modo, giusto? E lo sappiamo bene che il modo migliore per entrare in contatto in modo efficace è, ancora oggi, beccarsi di persona. Questo dà un grandissimo vantaggio a chi per un motivo o per l’altro riesce a gravitare attorno alle grandi città, in primis Milano nel caso italiano. Ma chi invece non può, per mille motivi suoi? Chi semplicemente non vuole? Un servizio come TuneCore offre comunque la possibilità di mettersi sulla mappa. E lo fa ogni anno sempre meglio, offrendo più servizi: ad esempio recentemente abbiamo implementato la possibilità di entrare nelle library sonore delle piattaforme social (TikTok in primis, ovviamente), aumentando in maniera considerevole la possibilità di essere notati”.
Dobbiamo quindi sperare di entrare nella libreria sonora di TikTok, per avere un futuro o per iniziare a pensare di averlo? “Non è questo il punto. Dobbiamo sperare di essere notati – ma di essere notati dal pubblico, che è la cosa che interessa di più a chi fa musica. Ci sono molte storie di artisti che hanno bussato alle porte delle varie etichette discografiche e poi, ricevendo solo rifiuti, hanno scelto TuneCore. In questo maniera hanno potuto farsi finalmente sentire, hanno iniziato ad ‘esistere’, e in più di un caso il riscontro del pubblico è stato subito eccezionale. Dopodiché, sono potuti tornare dalle etichette che prima li avevano snobbati, trattando da una posizione di forza ed ottenendo contratti anche incredibilmente remunerativi, a livello di anticipi, parliamo in qualche caso di cifre a sei zeri”.
Ma Andreea ci tiene a ricordare anche due specifici casi italiani (è CEO a livello globale, ma evidentemente arriva molto preparata sui mercati locali): Egreen e Vacca.
“Loro due sono artisti di una certe rilevanza, ed hanno fatto uno statement molto forte con la loro scelta di andare con TuneCore. Perché per loro infatti è stata una scelta, non un obbligo, visto che una etichetta l’avrebbero trovata di sicuro. Ma evidentemente sono in una fase della loro carriera in cui hanno deciso di voler prendersi il controllo di tutto, senza delegare niente a nessuno, totalmente indipendenti, decidendo ogni singolo aspetto di come viene veicolata la loro musica. Ad esempio anche il timing: perché quando entri in una etichetta, devi sottostare allo schedule di release dell’etichetta suddetta, ci sta, è normale che sia così. Ma con TuneCore decidi tutto tu”.
Anzi. I casi italiani specifici sono tre. Il terzo è quello di La Sad, il – mmmmh – pittoresco trio che intreccia hip hop, emo, glam, pop-punk e quant’altro. Piacciano o non piacciano, loro hanno ottenuto un sold out all’Alcatraz milanese, la maggior venue indoor in Italia (palasport esclusi). “E lo hanno ottenuto sull’onda di tutto il lavoro fatto con TuneCore”, spiega Andreea, “un lavoro che li ha portati ora ad essere stati firmati da Believe Italia, cosa che mi fa piacere e mi riempie di orgoglio. Per loro però TuneCore è stato un passaggio fondamentale: arrivavano da esperienze passate diverse, volevano ripartire da zero, fare qualcosa di nuovo senza essere confrontati a niente o a nessuno, mantenendo una totale indipendenza. Quello che hanno ottenuto ad oggi, lo hanno ottenuto con le loro forze – con quelle e solo con quelle. Ora è arrivato il momento giusto per loro per affidarsi ad un contesto più strutturato, ma TuneCore ha permesso loro di arrivarci nel modo migliore e più autentico possibile”.
Vuoi vedere che dare a tutti la possibilità di caricare la propria musica non è insomma un fenomeno così negativo? E riguardo al problema della insensata “massa” di dati, informazioni e suoni, una “massa” che va anche gestita e sopportata a livello tecnologico”, Andreea ha le idee chiare: “È un problema soprattutto per Spotify direi, visto che Google ed Apple sono proprietarie dei loro server. Ed anzi YouTube, che è di Google, se ci pensi è nata proprio come piattaforma di User Generated Content, accumulare più materiale possibile è nel suo DNA originario. Ma al di là di questo, io sono convinta che il progresso tecnologico ci aiuterà a gestire sempre meglio, sempre più agilmente e con meno consumo energetico una massa crescente di dati. C’è molta ricerca e sviluppo, in questo campo, e sono piuttosto certa che i risultati non tarderanno a farsi vedere. Quindi anche questo mi sembra un non-problema. Ricordiamoci sempre: la questione principale è che piattaforme come la nostra hanno ‘liberato’ la musica: hanno evitato che esse venisse fatta circolare solo ed esclusivamente se c’era un assenso da parte dei ‘gatekeeper’, di quelli insomma che controllano le cose nell’industria musicale. Una ristretta cerchia, che fisiologicamente controllava, limitava, influenzava fino a pochi anni fa i gusti e gli ascolti di tutti”.