Si scrive Artizhan, ma si scrive anche Franky B: per quelli che non lo sanno, uno dei più grandi turntablist emersi in Italia negli ultimi venti, venticinque anni (…e ricordiamoci di quando il turntablism era la culla anche di giganti della techno e della house, vedi ad esempio alla voce Lory D). Una persona solare, entusiasta, con un sacco di esperienza (ma non te la fa pesare) ed un incredibile competenza tecnica come manipolazione del vinile (ma non la ostenta mai a sfavore della musicalità). In questo passaggio tra 2021 e 2022, è arrivato a realizzare il vertice assoluto della sua carriera da producer: “Breaks From The V”, uscito sulla sempre benemeritissima e stilosissima Apparel (nella sussidiaria Apparel Tronic), è un lavoro di alta qualità che riesce davvero a “raccontare” la personalità di Franky/Artizhan (una personalità che ha il background ben conficcato nella golden age sia dell’hip hop che del clubbing, quindi bisogna andare all’indietro) ma lo fa in maniera 100% contemporanea, dove la citazione è citazione e non retromania, dove l’inventiva non è voglia di far vedere quanti riferimenti colti si fanno e dove l’essenzialità non è un modo per fare musica “facile” che funzioni su Beatport. Ci siamo allora regalati una lunga chiacchierata “a cuore aperto”, con confessioni anche personali e dolorose, che rende benissimo l’idea della sua grande, grandissima umanità. Finché l’ecosistema del clubbing italiano avrà persone come lui, ci sarà sempre speranza, ci sarà sempre del bello, ci sarà sempre dignità. E soprattutto: ci sarà sempre un futuro, anche se il circo crollerà tutto.
Allora: sull’album, mi sono fatto un’impressione ben precisa. Mi sembra che sia un disco molto “londinese”, ma lo è senza essere minimamente nostalgico. Perché sì, spesso quando si cita Londra si va a cadere come “reference” su un certo tipo di anni ’90, o di metà 2000…
Te lo giuro: mentre facevo questo disco, una delle cose a cui pensavo era “Voglio fare qualcosa dove gente tipo Damir non mi venga a dire ‘Bello, eh, il disco, ma comunque un po’ nostalgico nei riferimenti…’”. Davvero, te lo dico senza piaggeria.
E come vedi… Manco ci siamo messi d’accordo, tra l’altro! (risate, NdI) Ad ogni modo: è stato difficile evitare questo scoglio della nostalgie e della retromania?
No. Fare questo disco, è stata la cosa difficile. Il solo fatto di farlo. Ma questo, guarda, per motivi prima di tutto logistici e non artistici: questo disco infatti l’ho fatto tutto a casa mia, che è un buco (come tutte le case a Milano se non sei ricco…), ed è un disco che è stato fatto con un sacco di strumentazione analogica. Risultato? Ho dovuto prima immaginare e poi realizzare un assetto “smontabile”: ogni giorno cioè ricostruivo lo studio e poi lo smontavo a fine serata, perché quando era tutto montato semplicemente gli strumenti erano ovunque, non era possibile “vivere” la casa. Non era manco possibile andare in bagno, non so se mi spiego. Quindi, finite le session lavorative diurne smontavo tutto quando arrivava ora di cena, per poi rimontarlo il mattino dopo. Un lavoraccio.
Una roba folle.
Ma una roba fondamentale. E’ stato durissimo, certo, soprattutto all’inizio; ma anche decidere di andare in palestra all’inizio è un casino, no? Ecco, la dinamica è simile (sorride, NdI). Ma in questo modo piano piano ti fai le ossa e, anzi, il tempo che utilizzi per creare musica diventa veramente sacro – visto che hai speso tanta fatica fisica per dargli vita – e lo sfrutti al massimo, la concentrazione e l’intensità diventano feroci. Comunque confermo: non volevo che te e persone come te, che di musica ne sanno, dicessero cose tipo “Sembra veramente materiale del 1992”, per quanto magari avresti potuto dirlo come un complimento. Ma io non volevo quello, no. Ovvio: con un certo tipo di elettronica inglese anni ’90 io ci sono cresciuto, e lo dico come un vanto, ma questa eredità volevo che venisse attualizzata, non cristallizzata in una cartolina da ritirare fuori oggi. L’album ha nel titolo la parola “Breaks” perché i break sono il “ponte” che ha salvato la mia vita.
Cioè?
Io sono un b-boy che suona l’elettronica. E per molti, questo, soprattutto in passato, è un ossimoro. Il punto è che proprio i breaks sono quello che collegano l’hip hop puro a un certo tipo di elettronica seria e rigorosa. E sono sempre i breaks che, se ci pensi, hanno dimostrato di essere più forti dello scorrere del tempo e soprattutto degli hype. Attenzione però, non voglio passare per boomer, perché nell’animo non lo sono: io i dischi li compro ancora quelli nuovi, cerco di non perdermi nulla, e me ne piacciono tanti – tant’è che ormai non so più dove metterli. Quindi non arriveranno mai da me discorsi tipo…
“…era meglio ai tempi”.
Esatto! Io non sono così. Io so chi sono. Ecco: conoscere se stessi è la cosa più importante, sai? So come sono, so i miei gusti, so anche com’è il mio fisico. Perché vedi – anche il proprio fisico è importante, quando devi creare! Diciamolo! Si sottovaluta un sacco questa cosa! Conosco un sacco di persone che hanno talenti allucinanti ma che proprio perché non si prendono cura di se stessi – e magari si abbandonano un po’ ai propri demoni – alla fine non riescono a fare quasi nulla di quello che potrebbero fare davvero. Se vuoi fare un album di spessore, credibile, devi mettere tutto te stesso, e devi essere al massimo delle tue forze. I demoni, se li hai, li devi combattere. Li combatti prima di andare a dormire. Così poi al risveglio sei al cento per cento in forma per dare il massimo di te stesso. Devono stare fuori dal disco.
(Eccolo, “Breaks From The V”; continua sotto)
Che poi uno dei demoni potrebbe essere: il rimpianto. Il rosicamento. Una cosa tipo “Ecco, non ho fatto abbastanza successo, meritavo e merito di più”. Una cosa così ti ha mai toccato?
Onestamente: no. Conosco persone che magari hanno iniziato dopo di me, o che addirittura facevano all’inizio i PR di serate in cui suonavo o più tardi aprivano i miei set: bene, anni più in là mi capita di incontrarli all’aeroporto e “Ah, dove vai?”, “A Berlino”, “A Ibiza”, “In Messico”, mentre io molto banalmente sono in aeroporto perché sto andando ad Ercolano a visitare mio padre. Ecco, se un minimo di rimpianto l’ho avuto nel non aver fatto più successo è stato solo ed unicamente perché in caso avrei potuto aiutare di più i miei e le persone vicine a me. Quello sì. Ma la verità è che negli anni ho avuto anche la possibilità di entrare nei “giri giusti”, ma spesso e volentieri ho detto di no, perché sono una testa di cazzo, perché se una cosa non mi convince io non ho voglia di provare a fare compromessi. Ma tutto questo è un problema? Lo è davvero? E’ un difetto? Secondo me, no. Sai perché? Perché è da quando ho diciotto anni che il piatto in tavola e i soldi, i volgarissimi soldi per sopravvivere, me li dà la musica. Sì. Lei. In vent’anni e passa di attività sono riuscito a comprarmi una casa a Milano – piccolissima, ma comunque casa mia – e ci sono riuscito solo ed esclusivamente col mio lavoro, che è la musica. Ora, non voglio mentirti: in passato certo che mi sono incazzato e mi è capitato di rosicare, è successo tanto, tantissimo, sì che è successo. Ma siamo umani: fallibili, peni di difetti, capaci di scelte e sentimenti sbagliati. Quindi sì, magari vedi uno col jet privato e ci resti un po’ così… Ma poi se rifletti meglio ti dici: “Ma io, certe cose le farei? Sarei in grado di farle?”. A te capita spesso di scrivere di come il clubbing sia diventato un po’ un Circo Barnum in qualche caso, con tutto il lusso, tutti cachet stellari, tutte cose così, ti leggo sai: ecco, io credo che in passato in questo tipo di circuito abbia avuto la possibilità di entrarci, ma alla fine mi sono ritrovato a dire “No, grazie”. Perché non fa per me. Lo so. Lo sento. Avessi detto di sì, sarei stato molto peggio e alla lunga avrei rovinato la vita a me ed a tutte le persone attorno a me.
Questo è un passaggio importante.
Alla fine più ancora del successo a me dà la soddisfazione il fatto di avere ancora oggi un atteggiamento quasi da arti marziali nei confronti della musica: mi sveglio, mi alleno tutti i giorni. Tutto questo è bellissimo, mi dà una soddisfazione enorme, e basta questa soddisfazione alla fine per farmi stare sereno. Ho capito che non ho bisogno di altro, nel momento in cui comunque riesco a campare con quello che faccio, con la mia passione, col mio talento. Per molti io sono “l’uomo dei no”: no a vari promoter, no a molti agenti, no a certe serate. Ma faccio così non perché sono snob o mi credo superiore, credimi! Lo faccio solo ed esclusivamente perché mi conosco, perché so che sei poi finisco in una situazione che non mi piace poi le cose non vanno al posto giusto. Io a suonare ci vado ovunque, amo così tanto farlo che alla fine posso e voglio farlo in qualsiasi contesto, ma alla fine ciò che fa la differenza è l’empatia. Posso suonare in posti con migliaia di persone davanti, ma se non sento l’empatia musicale ed emotiva con quello che ho attorno dopo un po’ mi consumo e sto male. E l’empatia – o la non-empatia – la puoi trovare quando suoni davanti a cinquemila persone così come quando suoni davanti a venti. Vero. Troppo spesso lo si dimentica, da quando il clubbing è diventato molto una questione di numeri. Ovvero da un bel pezzo a questa parte. Che poi, anche l’altro tuo amore originario – l’hip hop – è diventato molto una questione di numeri…
Ma la verità è che negli anni ho avuto anche la possibilità di entrare nei “giri giusti”, ma spesso e volentieri ho detto di no, perché sono una testa di cazzo, perché se una cosa non mi convince io non ho voglia di provare a fare compromessi. Ma tutto questo è un problema? Lo è davvero?
Eh sì. Con la tua esperienza ormai ventennale e con la tua impronta culturale, come vedi l’hip hop di oggi?
Bella domanda. Voglio rispondere col massimo dell’attenzione, del rispetto e della delicatezza: vero, c’è una grossa fetta di questa scena da cui me ne scappo, che non sento in alcun modo mia, in primis per dei codici di linguaggio che proprio faccio fatica a sopportare. Al tempo stesso, ci sono molti aspetti davanti ai quali mi tolgo il cappello. Sai: nella tesina presentata per il mio esame di terza media io parlavo già del rap, parlavo di “Paid In Full” di Eric B e Rakim, e nel fare questo ero visto come un alieno. Oggi invece? Oggi, anche la signora di mezza età ha sentito nominare il rap, sa cos’è, e non per forza lo associa a Jovanotti che fa le corna e dice “Yo yo” davanti alla telecamera. Abbiamo fatto dei passi in avanti enormi, in questo, ed è una cosa bellissima. Io vivo a Milano: sempre più spesso capita di vedere apparire sui mega cartelloni pubblicitari per strada non degli attori, non degli sportivi, ma dei rapper. Questa cosa per me è una figata! Poi, andando più specifico nel discorso musicale, che dire: alla fine ognuno se la sceglie come vuole, e poi in generale nella nostre vite si va a periodi, quando sei giovane hai bisogno di una cosa, a trent’anni ne cerchi anche di altre, a quaranta fai il punto e ne cerchi o recuperi altre ancora… E’ giusto che sia così.
(continua sotto)
Il clubbing è diverso? La sua musica è destinata a restare sempre come qualcosa un po’ più di nicchia?
Per come la intendo io, sì. Ma mi rendo conto che la mia non è una visione molto diffusa, rigorosa com’è… E’ quella del super appassionato. Il punto è che in Italia abbiamo per il clubbing un pubblico che non è quello di chi legge Soundwall o Dj Mag, di chi si informa, di chi vuole approfondire un minimo. No: spesso sono mille o cinquemila persone che vogliono solo fare casino, far partire i cori. Dove si può andare, con un pubblico così? E non sto dicendo che bisogna fare sempre gli intellettualini del dancefloor, per carità, però sai, io arrivo da una città che della club culture, musicalmente parlando, è stata capitale, ha immesso tantissimi contenuti e tantissimi personaggi eccezionali, quindi sono abituato bene. E per questo posso permettermi di essere critico oggi. Sono critico però anche sul fatto che sui dancefloor di qualità – e ce ne sono – non si riesce a conquistare attenzione popolare, a lavorare decentemente sui numeri. E questo per un eccesso di esterofilia. Eccesso che il Covid purtroppo non ha fatto passare. Gente che si esalta per certe cose di NTS o Boiler Room, impazzisce perché c’hanno passato sopra delle cose del 1991 o 1992 (che noi in Italia suonavamo direttamente all’epoca, e che non abbiamo mai celebrato a dovere). Non lo so. Io a Londra c’ho vissuto e lavorato, lì il clubbing era proprio un fattore socioculturale vivo, presente, qualcosa che entrava nella quotidianità delle persone, non un riferimento snob importato da fuori. Se ci pensi tutti i momenti più importanti della club culture – da Berlino al Belgio, dall’Olanda alla stessa Ibiza dei primi tempi – sono stati contrassegnati da questa attitudine.
(il viaggio è il messaggio: ecco il secondo video estratto da “Breaks From The V”; continua sotto)
Ecco, sei stato a Londra, c’hai vissuto, l’hai respirata. Eri insomma uno pronto a viaggiare. Mi sorprende che non sia finito a stare anche a Berlino – proprio tu che hai l’esigenza di vivere con la musica e per la musica. O che non sia rimasto a Londra.
Purtroppo non è successo per tristi questioni personali. Proprio in quel periodo infatti diventai orfano. Ma come dire… alla fine in ogni evento puoi trovare qualcosa da cui estrarre cose buone. Fui costretto a tornare in Italia, ma quel periodo – parlo della fine anni ’90, primi anni 2000 – Milano era un posto davvero notevole. C’era il Tunnel che faceva una programmazione fantastica ed incredibilmente avanti, c’erano i mercoledì dei Magazzini che erano super, grazie a posti del genere ho visto cose come The Roots o Roni Size con la band; in più, Milano mi dava delle possibilità lavorative che in quel momento, un momento in cui ero comunque un po’ fragile psicologicamente, per me erano fondamentali. A Milano ho potuto lavorare a sonorizzazioni ed a progetti audiovideo, e farlo mantenendo il mio approccio, la mia personalità, i miei gusti: non è una cosa da poco, credimi. Berlino la amo, certo. E lì ho tanti amici. Per certi versi mi è ancora più affine di Londra. Non posso negare che ogni tanto lo penso: magari, fossi andato lì, le cose sarebbero andate diversamente. Vero. Ma perché avere rimpianti? Pensa anche a Londra: ci sono andato e, con tutto il rispetto, sono riuscito a starci senza dover fare il cameriere – che ovviamente non sarebbe stato un problema – ma facendo esattamente quello che più mi piace, ovvero essere immerso nella musica. Dandoci dentro. Una dedizione che mi ha permesso di essere accettato e rispettato per quello che ero: in quegli anni avevo come capelli dei mezzi dread e, non lo nego, all’inizio ci fu chi storse il naso, accusandomi più o meno velatamente di fare un po’ il fenomeno, di appropriazione culturale, di voler fingere di essere quello che non ero. E’ bastato far parlare la musica, è bastato che iniziassimo a suonare insieme, a fare serate assieme: dopo un po’ furono loro a regalarmi una seduta dal barbiere per farmi le treccine. Ecco, a raccontarti tutte queste cose mi viene in mente a quanto bene sono stato là, a quanto forse se non fosse successo quello che è successo magari sarei rimasto, a come in Inghilterra e in altri posti si viva la musica – un certo tipo di musica – in modo pieno e viscerale ed in Italia no… in Italia a già a sedici anni mi rompevano il cazzo perché suonavo techno e house di un certo tipo invece di mettere su “Rhythm Of The Night” di Corona…
Però…?
Però dovevo tornare. Appena saputa la notizia, sapevo che dovevo tornare. Subito.
Questo comunque era ormai vent’anni fa. Ma ora non hai dei piani o mezzi piani per andartene?
A meno che non succeda qualcosa di improbabile, no. Ad una certa età è difficile ricominciare. Che poi, per me non sarebbe un ricominciare da zero: prima che arrivasse il Covid avevo comunque date a New York, a Detroit, tanto per dire… Ma io sono ancora un incompiuto: amo Milano tantissimo, ma casa mia è Napoli. Non riesco ancora a scegliere fra le due. Continuo ad alternarle. E intanto sono passati vent’anni.
(stile e serenità; continua sotto)
Un incompiuto, e uno che non vuole avere un management o una agenzia di booking, anche se oggi ce l’hanno un po’ tutti.
Ma va bene così. Per il tipo di cose che faccio io, non c’è nemmeno spazio per avere management o booking, alla fine puoi fare tutto col contatto diretto; mentre se sali di livello, lì dove effettivamente affidarsi a delle agenzie è necessario e fa la differenza, io non vado bene. Non sono quel tipo di dj, non ho quel tipo di proposta artistica, non vado bene, davvero. Poi mai dire mai, in realtà è ormai un sacco di tempo che io e due entità molto grosse del settore siamo lì, ci parliamo, ci mandiamo segnali di stima… poi però alla fine non cambia nulla. Magari con questo disco cambia qualcosa? Io, in ogni caso, sto benissimo anche così. A me interessa mantenere la barra dritta. Anche perché sai cosa?
Dimmi.
Io già così mi sento un fortunato della madonna. Ehi, parliamoci chiaro: vivere a Milano costa un sacco di soldi, eppure io ci sto riuscendo. Da vent’anni. Permettendomi anche il lusso di dire un sacco di no, se mi arrivano proposte che non mi convincono del tutto. Sono onesto, campo dignitosamente, mi tolgo belle soddisfazioni. E Milano è bella hardcore: si parla tanto di quanto è difficile vivere a Napoli, ma sotto certi punti di vista Napoli invece è buona, buonissima, accogliente, nulla a che spartire con Milano dove invece ogni mattina ti svegli e capisci subito che è iniziata la gara quotidiana, che la concorrenza è ovunque in ogni momento ed è tosta. E io poi non sono nemmeno quello che ama vivere alla giornata: è bello avere una progettualità. Poi, bisogna essere abbastanza maturi da adeguare i progetti a quella che poi è la realtà. Ed è bello così.