Otierre, Gente Guasta e Siamesi Brother sono le sfumature che Esa ha narrato in oltre trent’anni di carriera. Le prime copertine su Aelle già raccontavano quello che sarebbe stato il primo artista a portare in Italia lo stile del rap oltreoceano. I passaggi nelle radio italiane di questa cultura, partendo da Radio Deejay, hanno suonato la sveglia al grande pubblico. I suoi progetti lo hanno reso un riferimento per l’underground italiano, anche se…:“La mia lotta è questa: far capire che l’underground non è l’anticamera del successo, ma è un ambito culturale alternativo”. Il giusto abito è cucito da una creatività in evoluzione, alimentata giorno dopo giorno. Oltre cento progetti musicali realizzati dal Presidente tra singoli, album, raccolte, Mixtape, Ep e presenze cinematografiche sono la dimostrazione di tutto questo. Tra l’altro, proprio di questi giorni è l’uscita di un nuovo capitolo della storia ormai trentennale targata Otierre, “Per l’amore del funk”. Vi mettiamo subito qua sotto il player con la traccia, e poi via ad una intervista davvero molto densa ed interessante.
In “La grande truffa del rap” eri stato profetico. Nella traccia omonima di Gente Guasta, insieme a Fabri Fibra, avevi previsto lo sviluppo attuale della scena musicale. Quanto ha contribuito quell’album a cambiare la percezione del rap nel nostro Paese?
Ultimamente ne parlavo con Drimer, un freestyler molto quotato con cui ho lavorato negli ultimi anni. Mi diceva che già dalla mia strofa ne “Neffa& i messaggeri della dopa”, ero 10 anni avanti. Ai tempi non avevamo internet, però io spendevo i miei risparmi per informarmi. Acquistavo numerose riviste internazionali e, mentre miglioravo il mio inglese, seguivo l’informazione specializzata su magazine come The Source e Aelle. Erano fatte molto bene. C’era un ottimo giornalismo sul rap a fine anni ’80 e durante tutti gli anni ’90. Ero molto aggiornato su un mercato molto più sviluppato, quello americano. In Italia era ancora tutto in fase embrionale, dimensionato e adattato alla cultura locale. Il rap, come il rock, ha rivoluzionato il costume e la cultura italiana. Anche internet ha contribuito a tenere poi aggiornata la provincia. Non sei costretto a vivere a Milano per informanti e sapere che cosa succede in tempo reale. Oggi viviamo una bella situazione, in cui si dialoga, come speravo succedesse negli anni ’90. In Francia questa rivoluzione culturale era già avvenuta nei ’90. Questo ci ha ispirato e ci ha dato tanta fiducia ad investire nella musica. Lì si era consolidato un riconoscimento artistico per l’hip hop e per il rap a livello mainstream, e non solo. Anche una buona base culturale che poi è stato l’humus su cui si sono costruiti i grandi successi. Artisti come Marracash e Guè hanno dovuto fare 10/15 anni di gavetta prima di perfezionare la loro arte e diventare professionisti amati dal grande pubblico. Nel frattempo noi avevamo già fondato gli Otierre e iniziavamo ad avere un riscontro a livello nazionale. Abbiamo investito tutto nel nostro percorso artistico perché ci credevamo davvero!
(un intenso ritratto di Esa; continua sotto)
Il film “Matrix” racconta l’opposizione tra due realtà: una è l’esistenza che viviamo ogni giorno, mentre l’altra è illusoria e nascosta. Cosa che sta avvenendo in un certo senso anche oggi con i social. Viviamo davvero un mondo che ci allena alla sottomissione?
“Matrix” è una bellissima opera distopica. La fantascienza è una grande ispirazione nel nostro immaginario collettivo perché mostra possibili opzioni del futuro. Il bello è che anche l’arte può mettere in guardia su tante questioni e “Matrix” è un’opera d’arte incredibile! A mio avviso l’arte, in molte situazioni, simboleggia quello che il calcio rappresenta per la gente. Senza le partite molti sarebbero tristi e frustrati. È intrattenimento. E l’arte è anche questo. Molta musica commerciale è così: allegro intrattenimento. Ti accompagna mentre fai la spesa e in quel momento non serve una collocazione concettuale per arrivare chissà dove; serve un accompagnamento musicale per scegliere i prodotti al supermercato. Quindi serve anche il commerciale, serve questa leggerezza. Nello specifico poi ognuno scopre di avere passione anche per altro, e da qui ognuno costruisce la propria cultura personale. Ovvero un’altra opzione, che non è il mainstream. La mia lotta è questa: far capire che l’underground non è l’anticamera del successo, ma è un ambito culturale alternativo. Quando non vuoi andare in un palazzetto con 10.000 persone puoi andare comunque a sentire una cosa molto carina e più ricercata. È un’opzione importante che ci deve essere.
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Il volume 22 di Aelle vede gli Otierre in copertina. Cosa ha rappresentato per te questo riconoscimento?
Noi siamo stati fan di Aelle e poi promotori di Aelle. Quando uscì “Dalla Sede”, Aelle passò dall’essere una rivista per abbonati ad essere venduta in edicola. Noi abbiamo fatto stampare un poster di “Dalla Sede” e fatto regalare alcuni numeri di Aelle all’Hip Hop Village, un evento che ospitava più di 18.000 persone. Oltre al nostro progetto poi ci sono state sovvenzioni da parte di etichette e major con cui noi lavoravamo per promuovere il disco dei Sottotono. È stata una bellissima collaborazione. Non c’era internet e io ho imparato tanto dalla carta stampata e dal giornalismo americano e italiano di quel periodo. Aelle è stata la prima in Italia a fare questo, Sid ha preso questo incarico e noi lo abbiamo sempre supportato. Ero abbonato ad Aelle sin dai primi numeri, poi le copertine sono arrivate successivamente, quando c’era l’uscita di un disco. Con Aelle abbiamo avuto la fortuna di costruire qualcosa quando in Italia non c’era nulla di questo tipo. Si cresceva e ci si supportava assieme!
Ancora oggi “Dalla Sede” è una pietra miliare del rap italiano. Da lì la tua produttività non si è mai arrestata: progetti singoli, album, Ep, graffiti, breakdance e pittura. Cos’è per te la creatività e come si tiene viva?
La creatività è energia! Mark Gonzales è un grandissimo skater che, insieme ad altri, ha inventato lo street-skate. Lui ha affermato che lo skate è stato un modo di trasformare un sovraccarico di energia, che poteva facilmente sfociare in rabbia, in uno sport oggi anche artistico. Salvandolo così dalla sua impulsività. Questo grazie alla creatività. A lui non serviva spaccare il mondo, serviva skatearlo! Lo ha capito e ha fatto lo skater dove non si poteva, dove nessuno avrebbe immaginato. Ora è molto apprezzato ed è un personaggio importante come Tony Hawk. Oggi lo skate è arrivato anche alle olimpiadi e, da grande appassionato di questa disciplina, sono felice dell’evoluzione che ha fatto. Lo street-skate ha una corrente artistica che si avvicina molto alla musica. Sulla creatività vanno a braccetto. Tuttavia, l’energia che abbiamo è ciclica. Le salite e le discese fanno parte della vita e tocca a noi incanalarle nel modo corretto. Anche per me “Dalla Sede” è un fiore all’occhiello! È stato fatto con tanta passione e tanto lavoro da parte della produzione e dal management. Fu lo stesso management che poi lanciò i Sottotono e Neffa. A mio avviso la creatività va alimentata quotidianamente, perché noi abbiamo lavorato proprio così per ottenere quel risultato.
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In “60 Hz” di Dj Shocca sei presente nella traccia “The Industry Don’t Understand”. Lì affermi: “Il nuovo è solo consumismo, io preferisco la normalità”. Cosa non aveva capito l’industria in quegli anni e c’è qualcosa che continua a non capire?
Le mie previsioni erano proiettate oltreoceano. Era una scena che seguivo tantissimo e, andando qualche volta a New York, ho toccato con mano, facendo esperienza anche lì, che l’industria italiana era molto chiusa verso la presenza del rap. C’era spazio per gli Articolo 31, che avevano fatto un bellissimo progetto con un produttore che aveva investito molto su di loro. Quindi, oltre alla loro bravura, c’è stato un appoggio professionale che non tutti hanno avuto in Italia. Tutti gli altri gruppi dovevano lottare per uno spazio e cercare di presentarsi in maniera originale, senza imitare. Sono arrivati gli Otierre, i Sottotono, Frankie hi-nrg Mc e Neffa. Poi è toccato a loro scalare le classifiche dopo gli Articolo, portando qualcosa di cospicuo che non è sfumato nel tempo. Con Shocca collaboravo già quando lui aveva 17 anni. Lo abbiamo sempre incoraggiato, era un ragazzo molto curioso e già si vedeva che la provincia gli stava stretta. Lui era in gruppo con Mistaman. Shocca arriva in un momento storico in cui tutti avevano chiuso capitoli di propri progetti. A fine anni ’90 Shocca è quello che emerge, anche perché trova una scena molto frammentata. Tutti gli artisti che hanno partecipato al disco di Dj Shocca avevano bisogno delle nuove leve e Shocca è stato quello! Ad ogni lustro solitamente c’è un rinnovo della scena, che porta con sé energie nuove. Ha avuto il mio appoggio, quello di Primo Brown, quello di Torme e di tanti altri artisti che hanno partecipato a “60 Hz”, rendendo questo prodotto leggendario. Shocca comunque aveva fatto 5/6 anni di gavetta intensa e la sua passione e dedizione gli vanno riconosciute ancora oggi.
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In “Messaggeri pt.1” con Neffa cantando: “Nelle jam è inutile mirare alla top ten” fondevi ancora l’inglese all’italiano, ma sempre con osservazioni molto incisive. C’è qualcosa che è riuscito a sostituire le jam? E, come hai ottenuto il giusto mix tra la lingua italiana e quella inglese?
È un bellissimo complimento, ti ringrazio! È stato come rompere un tabù. L’Italia all’epoca era molto restia all’utilizzo delle lingue straniere nel parlato. Invece gli scrittori contemporanei osavano innovare e mischiare l’italiano all’inglese, per rendere la nostra lingua più internazionale. Adesso si dice Star Wars, negli anni ’80 si diceva Guerre Stellari. Sarebbe bello però anche mantenere Guerre Stellari, che con una sua antichità, risulta elegante. Così come per altre terminologie. Sulle jam ti dico che, ad esempio, arrivo da un live con Tormento che aveva questo spirito. Noi siamo cresciuti con le jam. Venivamo da un periodo in cui eravamo in pochi a frequentarle. Con lo spirito di unire le energie, quello che veniva fuori per noi era più speciale che uno spettacolo organizzato. Ogni artista aveva il suo viaggio ed era anche difficile portare tutti nella stessa direzione. Proprio questa varietà, però, era fondamentale perché creava un grande dialogo. La jam era l’ideale per i pochi che c’erano perché permetteva di esprimersi e permetteva di potersi confrontare attraverso una sana competizione. Oggi è difficile replicare questo ambiente, ma sono nati molti festival come, ad esempio, il Marrageddon. Quindi, se ci fossero promoter all’ascolto, suggerirei loro di creare nuovi festival perché sono una boccata d’aria fresca, soprattutto nelle grandi città.
Il rap ha portato un codice estetico ben preciso. Karl Kani, 5tate of Mind, Pelle Pelle rappresentano al meglio questa cultura. Qual era il tuo preferito e quali cambiamenti ha portato in questo decennio?
Noi abbiamo avuto alcuni capi dalla Introw, che all’inizio ci sponsorizzava e sponsorizzava anche i Sottotono. Fu un brand importante, sempre sulla linea di Karl Kani. Sono contento che sia tornata la moda dei baggy pants, delle taglie oversize e delle magliette con i rapper americani degli anni ’90. Era una moda globale che abbiamo abbracciato e portato come novità nei ’90. È piacevole vedere che ritorna perché l’Hip hop è un movimento culturale a 360°. Il codice estetico si è diffuso in quegli anni anche grazie al nostro contributo e alla nostra passione. Tutto ciò ha creato posti di lavoro. Gli Atipici ad esempio, un tempo solo una crew musicale, oggi hanno un brand nazionale che ha riscosso molto successo a livello urban e rap. Esistono, però, anche tante realtà minori di street-shop locali che hanno aiutato la scena rap, diventando un punto di ritrovo per gli appassionati. 5tate of Mind oggi si trova anche da Foot Locker. Con il tempo si è creata una cultura attorno allo sportswear e allo streetwear che prima non c’era, mancava.
Hai preso parte anche a cult come “FastLife” di Harsh e Guè e Uomini di Mare con Lato e Fibra. Che ricordi hai di questi due progetti?
Entrambi sono stati progetti fondamentali per la cultura rap italiana. Con gli Uomini di Mare eravamo veri e propri improvvisatori. Quando li abbiamo conosciuti erano felici di avere amici con cui confrontarsi e, noi, a nostra volta, volevamo andare a Senigallia per collaborare alle loro produzioni. Per entrambi c’era l’esigenza di fare rap. Tutti questi progetti sono nati così, da questa reciproca volontà. C’era una bellissima idea del collettivo, uno scambio culturale autentico nel modo di vivere appieno diverse realtà. Ci sentivamo parte di un vero e proprio cambiamento generazionale, culturale e sociale.
(archeologia del rap italiano; continua sotto)
“Siamesi Brother” è il tuo grande cult insieme a tuo fratello Tormento. A lui hai presentato Big Fish, e così sono nati i Sottotono. Ti riconosci questa capacità di coinvolgere? Quanto manca una crew come l’Area Cronica oggi?
Torme era piccolino e monello e fui io a dargli il nome “Tormento”! Quando lui aveva 15 anni non potevo coinvolgerlo nei miei progetti. Io allora avevo 18 anni e, a quell’età, tre anni di differenza sono tanti. Da fratello maggiore dovevo anche contenere il suo estro, che era già strabordante. Crescendo, questo gap si è poi colmato. Sì, mi riconosco questa capacità di coinvolgere. Tanto che Wikipedia mi attribuisce il ruolo anche di discografico! Producer, musicista, rapper e anche discografico, perché come fiore all’occhiello, c’è il merito di aver contribuito alla scoperta di Fibra. Anche Sfera ed Emis Killa hanno detto che si sono ispirati a quello che facevamo. Non ho mai approfondito la parte burocratica. Tante volte l’ho trascurata per curare maggiormente la parte filosofica e stilistica che in Italia mancava. Adesso mi capita anche di fare da giudice in contest musicali e mi rendo conto che c’è un mercato talmente grande, che l’artista deve saper accogliere anche il no come risposta. È fondamentale. Per quanto riguarda l’Area Cronica è sicuramente una crew che manca. Quando capita di cantare strofe scritte in quel momento storico io scompaio mentalmente dal palco e mi lascio andare ai ricordi di quelle giornate in studio a Novara. È una sensazione ancora per me molto forte perché abbiamo vissuto tutto questo fin dal principio.
(continua sotto)
Torniamo a “Matrix”: pillola rossa o pillola blu. Pillola rossa scegli il rap dei ’90 e quello spirito di aggregazione. Pillola blu la scena di oggi dominata dalle case discografiche. Che colore sceglie Esa?
A volte c’è bisogno di prendere la pillola rossa, a volte di prendere la pillola blu. Non voglio essere categorico. In questo momento mi sento di dire che sto prendendo una pillola viola: ovvero il rap con le sonorità della trap, messo su un beat old school. Il producer di Anderson Paak, Knxwledge, ha remixato brani di Rihanna e Drake in chiave old school e ho apprezzato molto questa sua cifra stilistica. Quindi, in questo momento, ti dico pillola viola!