Intervistare Gigi D’Agostino era una cosa che andava fatta. A prescindere da tutto, superando certe resistenze, agendo di rottura se è il caso. Ma andava fatto. Perché in un discorso di ripresa di certi giganti che negli ultimi tempi ci ha portato a ragionare con gente come Albertino, Linus o Joe T. Vannelli, Gigi rappresenta il tassello parallelo capace di integrare una visione omnicomprensiva di quanto accaduto alla dance italiana mentre la maggior parte di noi era adolescente. Un personaggio storico, che come spesso accade è anche personaggio scomodo, capace di entrare in dialettica coi capisaldi del pregiudizio, di rigirare i concetti e riproporteli con una logica tutta diversa. Ma prima di tutto un personaggio. Con quella filosofia new age che emerge ad ogni parola, ponendolo in una dimensione alternativa, sfuggente, difficile da mettere in cornice. Era un confronto che andava fatto, e ci piace pensare che questa possa essere la sua intervista definitiva. Per ricordare l’entusiasmo di un momento particolare del clubbing nostrano e per offrire una visione sincera e libera da ritocchi di uno dei soggetti più discussi che abbiamo avuto il piacere di ospitare.
Prima di lanciarci nell’intervista vera e propria volevo partire con una premessa: su Soundwall parliamo di musica dance, elettronica & dintorni su ogni fronte, ma sempre alla ricerca di proposte di qualità, seguendo lo spirito di ricerca tipico del cultore, nel quale si identificano molti dei nostri lettori. Seguendo questa scia, non siamo soliti a intervistare nomi famosi, nomi mainstream. Forse perché oggi come oggi, troppo spesso il nome commerciale si pone all’antitesi di quello spirito che dicevamo prima, svuotando la dance di significato in favore dei facili giochetti di pancia, trasformando il parallelo tra commerciale e underground, che dovrebbe essere legittimo e in fondo sano, in una specie di lotta tra il bene e il male. Se siam qui a intervistarti, in qualche modo pensiamo che questo con te non valga, perciò mi interessava sapere il tuo punto di vista sulla questione. L’essere commerciale implica per forza l’essere vuoto di qualità e contenuti? E se la risposta è ‘no’, come si fa a evitare che questo accada?
Ti rispondo chiedendoti: in base a quanto è famosa, “La Divina Commedia” è o non è “commerciale”? Dante Alighieri aveva forse il miglior ufficio stampa? O forse il motivo è che c’è del buono in quell’opera? Ha senso andare a cercare i motivi? Ma soprattutto, perché il più delle volte si vanno a cercare i motivi per poter in qualche modo sminuire un buon piatto di spaghetti solo perché è riuscito benissimo?
Ok, allora mettiamola così: potremmo dire che tu, soprattutto nella fase temporale intorno al tuo album “L’amour Toujours“, sei la cosa più commerciale che sia accaduta alla scena dance italiana. Non te lo virgoletto nemmeno, volevo lanciarla anche un po’ come una provocazione. Come ti senti a essere identificato come icona commerciale, considerando le varie accezioni negative che il termine ‘commerciale’ si porta sempre dietro?
Scusa, qui sarò piuttosto prolisso. Copio e incollo dal dizionario online:
icona [i-có-na] s.f.
1 Nell’arte bizantina e russa, immagine sacra dipinta su tavola. Estens. Immagine sacra.
2 In semiologia, segno grafico che è somigliante a ciò che rappresenta.
3 [INFORM] Simbolo grafico adottato da alcuni programmi di computer per rappresentare istruzioni e funzioni.
Non so bene quale sia la definizione di icona che intendi, per cui scelgo di pensare che tu voglia intendere che io rappresenti la musica “commerciale”. Se è così, mi hai fatto un immenso complimento, non so neanche se me lo merito. Non c’è alcuna accezione negativa, “commerciale” è un prodotto che piace alla maggior parte delle persone e si vende benissimo. Tu riesci a trovarmi un lato negativo in questi due risultati ottenuti contemporaneamente con un solo prodotto?
Per me è chiarissimo da sempre un concetto elementare e logico: è molto semplice criticare o contestare o disprezzare un prodotto “commerciale”, mentre realizzarlo è assai complicato, in molti casi impossibile. Ed è qualcosa che accade in maniera spontanea, non vedo perché ciò dovrebbe far sentire in colpa l’artefice. Mi vengono in mente certe situazioni imbarazzanti in cui mi son trovato, dove era assolutamente fuori luogo ridere per mille motivi e io, nonostante tutto, esplodevo in una risata senza ritegno e senza freni. Perché era successo qualcosa che mi aveva toccato nel profondo e mi aveva fatto perdere il senso del controllo, quindi non potevo pilotare le mie emozioni, i miei istinti e le mie reazioni di quel momento. Quella risata era esplosa a prescindere dall’alto o basso livello di qualità/contenuto del gesto o frase che l’aveva generata. Questo per dire che il risultato di un’emozione non ha nulla a che vedere con la qualità e i contenuti da cui prende vita. Torno a farti le stesse domande di prima: l’amore è commerciale? Oppure: ci si innamora solo di un filosofo o di uno scienziato? E soprattutto: chi ha detto che il filosofo sia di un “livello più alto” di un calzolaio o di un contadino?
Secondo me, l’unico livello davvero misurabile è quello emotivo. Tempo fa mi son ritrovato a rispondere ad alcuni commenti su YouTube sotto un mio video e scrissi queste parole: “io faccio musica per Passione… semplice o complessa o banale o che ne so… la Passione è Passione… non è un circuito elettronico complesso… un abbraccio non è così complesso come movimento… eppure è una cosa immensa… è un “tocco” pazzesco… io suono come mi sento… voglio sentirmi come desidero… voglio circondarmi di suoni che mi danno il mondo che desidero… e quando tutto si incastra e sento che mi Emoziono… …mi piace… …e mi piace che mi piace… Saluti e Pace…”.
“Commerciale” è solamente un termine reso molto famoso in modo totalmente errato dalla nientologia di conversazioni inutili. In realtà è un termine con un significato buono, colmo di vittoria. È un fornaio che fa il pane buono e la maggior parte degli abitanti del paese vogliono il suo pane. È un trionfo, non ha niente a che fare con “l’assenza di qualità e contenuti”. Tu citavi “L’Amour Toujours”: se fosse solo un disco a dare tutto, allora tutti quelli che hanno fatto una hit nei decenni passati dovrebbero tutt’ora essere sempre presenti sulla scena con i loro live e un pubblico interessato. Se fosse così tutto tristemente matematico, ogni singola persona che ha ottenuto molti consensi dal pubblico in merito ad uno specifico brano (tanto da considerarlo poi una hit negli anni a venire), dopo dovrebbe godere di una forte credibilità costante, a prescindere da cosa fa e da come lo fa. Non è così. Una canzone può dare molto, ok, ma se non hai la padronanza di quello che hai fatto, se tu “non sei” quello che hai fatto… tu scompari. E magari è la tua stessa canzone a sotterrarti.
Quindi, a un certo punto a cavallo tra i novanta e i duemila l’Italia diventa la prima della classe in un’onda dance coloratissima che spopola in tutta Europa. Qualcuno la chiamerà “mediterranean progressive”, anche per darle un’identità, l’orgoglio di distinguersi. Insieme a te in quel fermento ci sono nomi come Mario Più, Prezioso, Albertino, Gabry Ponte, Molella, Mauro Picotto, un mosaico di proposte molto eterogeneo e capace di coprire gusti diversi. Tra l’altro con una grande sintonia tra spazi radiofonici e produzione dance…
Io non ricordo nessuna sintonia, anzi proprio il contrario. I discografici/le case discografiche/le radio sono arrivati anni dopo. Senza nulla togliere all’immensa importanza del loro lavoro in quegli anni, ma per diritto di verità devo dire come sono cominciate e poi esplose le cose.
Nel periodo 1992 avevo cominciato a incidere le mie prime produzioni musicali sugli acetati. Per chi non lo sapesse l’acetato (per quanto mi riguarda) è sempre stato la mia copia “unica” di un mio brano incisa su un disco di materiale vinilico laccato. L’acetato era nato moltissimi decenni prima per altri scopi, ci sono diverse teorie sull’argomento ma questo non mi importava, quello che per me era importante era l’immensa possibilità che mi dava. Questa enorme possibilità di poter incidere su copie uniche e solo per me tutte le mie produzioni nate esclusivamente per arricchire i miei live, mi ha permesso di aprire mondi pazzeschi alle mie serate dal 1992 in poi. Da quel momento è cambiato tutto nel mio percorso da dj, dopo qualche anno più del 50% della musica che proponevo nei live era composta da me o rivista da me. In questo modo ho potuto trasformare le mie serate esattamente come le avevo visionate nei miei sogni.
Accadeva che certi miei brani in pista da ballo ricevevano consensi fuori dal comune, pur essendo brani che il pubblico non aveva mai sentito. Questo metteva quelle canzoni all’attenzione degli addetti ai lavori, e ad un certo punto da alcune radio mi è arrivata la richiesta di poter avere quel brano o quell’altro per suonarlo o proporlo in programmazione. Alcune volta ho acconsentito, altre no, dipendeva da cosa sentivo in quel momento, se rendere pubblico il brano oppure lasciare che rimanesse solo per i miei live. Se non fai musica prima di tutto per te, non stai nutrendo la tua passione ma stai nutrendo le tue insicurezze.
Per tornare a quella sintonia che hai citato, l’unica sintonia che ricordo con nitidezza, perché è l’unica che è sempre esistita, è quella con la gente che incontravo in discoteca attraverso la musica che suonavo. Quelle persone hanno sempre scelto con lealtà, nel bene e nel male. Se non gli piace, non ballano, se gli piace, ballano o comunque partecipano alla celebrazione del momento. Senza stare a cercare parole per tentare di spiegare il perché una composizione piace o non piace. Una spiegazione non c’è, o una cosa ti annoia o ti affascina.
Le radio invece sono arrivate molto dopo, a giochi fatti. Di sicuro hanno amplificato il tutto, assolutamente, ma è stato un “dopo”. Una cosa fondamentale c’era in quegli anni, e purtroppo da moltissimo tempo non esiste più: esisteva ancora un minimo di proposta radiofonica, esisteva ancora il disco suonato in radio SOLO perché piaceva al dj, e non perché un programmatore di una radio lo aveva scelto per motivi politici ed economici. Sicuramente la radio fino a vent’anni fa era molto più lo specchio della verità, nel senso che se esisteva una dj chart, era composta dai brani veramente più ballati in discoteca. Invece da troppi anni ho l’impressione che troppe radio musicalmente vogliano dare un quadro della situazione sempre meno vero. Prima nelle radio pulsava il volere della gente, da troppi anni pulsa in maggioranza quello che la radio vorrebbe far credere che piace alla gente. Sia nel caso delle nuove proposte che nel caso dei dischi più ballati. C’è bisogno di verità. La nuova proposta dovrebbe essere il risultato di una selezione tra tutto quello che esce di nuovo, e non la selezione tra una rosa di brani già selezionati e straselezionati, altrimenti non si tratta di nuove proposte ma di nuove limitazioni. Quello che manca tantissimo è il dj che arriva in trasmissione gasatissimo perché non vede l’ora di suonare quel disco che ha scovato chissà dove. Quell’energia arrivava tantissimo nelle case. Negli anni ’70 e ’80 ho scoperto artisti pazzeschi grazie ad un modo di fare radio più istintivo. Ho scoperto Pierre Henry, Tangerine Dream, Ryuichi Sakamoto, Front 242, Azymuth.
Forse non è la storia che vi aspettavate, non quella intrigante e “commerciale” che si poteva pensare. Le cose sono molto più semplici di quel che si vuole pensare a tutti i costi. Per me, quello tra il 1993 ed il 1999 è stato un periodo bruttissimo, di sofferenza. Avrei potuto sprigionare il dolore e la rabbia di quei periodi in cose brutte, invece ho tramutato tutta quell’energia negativa che cercava di soffocarmi, in un percorso di ricerca di emozioni che fossero molto più forti di quelle brutte. Mi sono liberato con la musica. “Elisir” non è un titolo a caso, come non lo è “L’Amour Toujours” o “Bla Bla Bla“. Cercavo stati d’animo differenti tra loro ma forti, per sovrastare tutto quel buio che purtroppo avevo dentro in quegli anni. Poi quei brani sono diventati dei successi grazie ai consensi delle persone, ma sono canzoni nate prima di tutto con lo scopo di darmi sollievo.
Come venivano fuori i tuoi pezzi di quegli anni? “Another Way”, “L’amour Toujours”, “The Riddle”, “La Passion”… oggi suonano così spontanei e immediati che si direbbe tu li abbia scritti di getto, in una serata. È così?
Per quanto mi riguarda, una canzone viene scritta sempre di getto. Poi si può modificare, aggiungere, togliere, ma stai comunque elaborando l’idea madre che è nata in un unico e solo momento. Credo che quella spontaneità e immediatezza di cui parli derivi dal fatto che quei brani siano nati per una mia necessità di benessere al cuore e alla mente, come dicevo nelle risposte sopra.
Prima di allora la tua carriera si è avvicinata gradualmente a quel momento, con pezzi pensati per le discoteche che anno dopo anno sembravano sempre più tagliati per il successo facile. Vedi “Gigi’s Violin” o “Angel’s Symphony“. Quasi si direbbe che tu, in un modo o nell’altro, abbia sempre mirato quel tipo di successo. È vero?
Tutti i brani che hai citato fino ad ora, quando sono nati e poi quando sono stati pubblicati erano diversi, suonavano in modo differente dal resto che si poteva sentire. Non miravo a nulla, non c’era nessun bersaglio, componevo per crearmi quello che mancava nella valigetta dei dischi. E quello che mi mancava per stare meglio. Cercavo quello che non c’era, ero inquieto perché mi mancava tanto il non poter provare delle sensazioni. Le prime necessità di entrare in uno studio di registrazione le ho avute proprio nel 1991 perché, per le mie serate, volevo crearmi delle tracce nuove, che avevo immaginato con la mente, o delle versioni di brani già esistenti. Praticamente durante i miei live sentivo che mancavano determinati scenari melodici e ritmici, che però immaginavo nitidamente con la mente. È come quando da bambino parli con un personaggio immaginario a cui dici tutto, e dal quale ricevi consigli (ehm, a dire il vero lo faccio tutt’ora). Visto che nella musica a disposizione sul mercato non esisteva niente di ciò che cercavo, avevo questo dialogo col mio personaggio immaginario, con il quale condividevo la mancanza di certe sensazioni e il sogno di colmare queste necessità con dei miei esperimenti. Ho iniziato a crearmi tutto quello che mi serviva per i miei live facendo esperimenti su esperimenti, erano racconti musicali molto essenziali, semplici, ma mi davano esattamente quello che mi mancava per raggiungere la completezza secondo il mio modo di fare serata (erano dei set di circa sei ore). Insomma è stato sempre un fatto di necessità. I brani che hai citato non erano nati inseguendo qualcosa di già esistente, o qualche ricetta già testata per avere qualche mezza possibilità che “funzionassero”. Non inseguivo il successo, ma iul mio bisogno di libertà, di equilibrio.
Com’era un tuo dj set al tempo? Hai episodi, aneddoti che ci possano dare un’idea?
È impossibile spiegare. Ci sono tantissime mie cassettine di varie mie serate che contengono mondi musicali infiniti e inspiegabili.
Quanto senti diversa la musica commerciale di quegli anni, dalla musica commerciale di oggi? Percepisci un deterioramento in come si sono evolute le cose nel fronte dance mainstream?
Io non sento nessunissima differenza. La musica dance non si evolve, cambiano i diffusori acustici, le compressioni, si ascolta la musica con strumenti di ascolto differenti, cambia la tecnologia, cambia la dinamica dei singoli suoni e dell’amalgama complessiva, ma non la canzone.
Poi ad un certo punto c’è stata una svolta netta nel tuo sound ed è iniziata la tua lunga fase Lento Violento. Cosa ti ha spinto ad allontanarti in maniera così netta dal sound che ti identificava?
Punto primo: ad essere precisi, io quel tipo di sonorità e di battute lente l’avevo sempre proposto. Semplicemente, ad un certo punto ho deciso di usare il termine “lento violento” anche per una pubblicazione discografica, ma il cd è solo il momento in cui uno decide di rendere pubblico un proprio lavoro e certi propri pensieri, il momento della nascita, di solito, non ha niente a che vedere con il momento della pubblicazione. “Lento Violento” è una definizione che avevo sempre usato dalla metà degli anni ’80, quando ho cominciato a proporre musica in pubblico, definivo così quelle parti della serata dove trasformavo lo scenario dei suoni e dei ritmi in un posto infuocato e appassionato. Desiderio, sesso… era impossibile descrivere tutte le sensazioni, per questo avevo racchiuso tutto in questo termine. Era la mia paranoia personale, quelle cose solo tue che non riesci mai a spiegare a nessuno. Per me è stato devastante riuscire a trasmettere in qualche modo tutto questo delirio che avevo nella testa.
Punto secondo: non c’è un solo sound che mi identifica. Al limite ogni singola persona può scegliere di identificarmi nel sound che preferisce tra quelli che io propongo, ma quella è una scelta dell’ascoltatore. Per quello che riguarda cosa sono io effettivamente, sono composto da differenti tempi, suoni, movimenti, accenti, frequenze, metriche, andamenti, visioni, incoerenze… non mi sono mai allontanato da nessuno dei miei sound, io sono vicino a loro, e loro sono vicini a me nel mio quotidiano e nei miei live, è sempre tutto presente.
Molti son rimasti delusi dalla tua fase Lento Violento. Eppure ci si può sentire sempre quel tuo mirare alla pancia, anche se in modo molto diverso. È stata una cosa più viscerale. Come passare al sadomaso dopo i primi mesi di sesso romantico/passionale con la nuova fiamma. Tu come vorresti spiegarlo a chi non è entrato in sintonia con quella fase?
Non ci provo nemmeno. Secondo te se a qualcuno non piace un brano o un ambito musicale… tu provi a spiegarglielo? In fondo la musica è libertà, non è un qualcosa che ti devi sforzare di capire. Non devono e non possono esistere parole in grado di spiegare la musica in modo che possano indurti a fartela piacere. Quando la Musica la trovi seccante, l’unico rimedio non è cercare una spiegazione per poterla capire e subire meglio, ma cambiare Musica. Però mi raccomando, date la giusta importanza anche al silenzio…
Tornando indietro nel tempo, sempre a proposito di successi internazionali ma anche ricollegandoci alla “mascolinità” di certi tuoi pezzi: a un certo punto hai tirato fuori “Bla Bla Bla”, ed è sembrata il pezzo perfetto nel momento perfetto. E infatti è stato un successone. Come ci sei arrivato? A quel pezzo, a quel tipo di sound.
Ero alla ricerca della libertà. Davvero, è impossibile spiegarlo diversamente, non riesco a spiegare cosa succede dentro di me quando inseguo delle visioni che mi danno spiragli di luce e di spazio. Le inseguo e basta. Come quando ballo: non penso, mi lascio gestire dall’istinto. Se iniziassi a pensare a dove mettere il braccio o la gamba in quel preciso istante non starei più ballando, starei pensando a come mostrarmi a chi mi sta guardando. Il ballo non sarebbe più il fine ma il mezzo. L’istinto non è il frutto di un calcolo. Quando cerchi dei suoni e dei ritmi per crearti “un insieme” che possa darti godimento personale, lo fai perché hai voglia di crearti un gruppo di suoni e melodie che ti facciano ballare, o che ti facciano provare nostalgia, o che ti facciano sentire la sensazione di trionfo e di gioia, o perché vuoi piangere… io sono troppo egoista, non riuscirei a fare una cosa solo per far stare bene un altro, nel momento della creazione ho sempre e solo fatto tutto per poter stare bene io, per provare tutte le sensazioni che volevo, nel modo in cui le volevo. Se poi qualche mia canzone ha dato sensazioni forti anche ad altri è meraviglioso, ma è stato un caso, io non sono altruista.
Come lo spieghi che per molti, moltissimi tu resti un’icona assolutamente positiva accaduta alla dance italiana, e molti di coloro che lo dicono sono gli stessi che oggi mostrano segni di nausea quando sentono gli ultimi singoli di Guetta o Avicii?
Secondo me non esiste questo tipo di matematica. Il fatto che qualcuno possa ritenere che io abbia fatto qualcosa di buono o non buono, non ha niente a che vedere con i sensi di nausea che eventualmente potrebbe provare nei confronti dei brani di qualche altro artista.
E cosa rispondi invece a chi ti considera come una di quelle cose successe in passato che è meglio non ricordare, come una brutta storia di cui magari vergognarsi?
Se è ciò che sentono, vuol dire che in qualche modo li ho delusi. Forse ho deluso qualche loro aspettativa, non sono stato quello che LORO avrebbero voluto io fossi. È l’unica spiegazione, perché io non sono mai cambiato (a parte il fatto che oggi sono più vecchio e non ho più i capelli). Magari sono cambiati loro…
Permettici una domanda ai limiti del filosofico: come si arriva a ottenere il successo che hai ottenuto tu? Il successo è qualcosa che devi puntare come un risultato da ottenere, o è qualcosa che viene da sola se persegui le tue direzioni naturali e fai le cose con passione? E come si impara a convivere col fatto che a volte, semplicemente, il successo può anche non arrivare per niente?
Non è vero che se persegui le tue direzioni naturali e fai le cose con passione ottieni il successo. Ci sono moltissime persone di grande talento, con tantissima voglia di lavorare, con tantissima passione, ma che non ottengono nulla in più del “minimo sindacale”. Purtroppo la triste verità è che bisogna avere anche il rarissimo colpo di fortuna. Non so come si possa imparare a convivere col fatto che il successo possa non arrivare, penso sia più semplice non aspettarselo. Il successo è ingiusto, inaffidabile, ipocrita, scorretto, non ha nessun senso sprecare del tempo per aspettare una roba del genere…
Un’ultima cosa, anche per lanciare un messaggio ai tanti ragazzi che oggi fanno i dj per essere famosi, immaginandosi miliardari secondo il modello DJ americano. Come conduci la tua vita oggi, dopo aver raggiunto probabilmente l’apice di successo più grande che un dj potrebbe raggiungere in Italia? Navighi nell’oro, passi le giornate a contare i soldi o in giro in Ferrari? O la realtà è diversa?
Non sono mai stato attratto dalle auto sportive, non navigo nell’oro perché è molto scomodo. Meglio passeggiare con i propri piedi nei propri sogni, ogni giorno, ma nel modo più concreto possibile. Se dovessi dare il mio consiglio a te, ragazzo che vuoi fare il dj, ti direi che sì, è importante guadagnare i soldi, perché se no diventa difficile tutto, ma i soldi non li guadagni se non eccelli in qualcosa, qualunque sia il tuo mestiere. È importante sbattersi tantissimo perché tu ottenga il meglio dalle tue capacità, quindi prima di tutto bisogna che individui quali sono le cose che ti riescono meglio istintivamente. Le nutri, le perfezioni, e dopo potrai tramutare/tradurre il tuo potenziale in quello che vorrai. Ti allenerai in modo estremo per ottenere sempre di più da te stesso perché vorrai essere il migliore nel fare quello che tu ed il tuo istinto avete scelto, per far sì che poi, il tuo lavoro e la tua esperienza diventino qualcosa di utile agli altri. È importante dedicarsi molto al lavoro in modo da essere sempre il numero uno per se stessi, questo ti rende ricco e libero perché non dipendi da niente e da nessuno. E così anche la tua libertà artistica sarà intoccabile.