Quando abbiamo intervistato Roni Size, proprio grazie alla partnership di lunga data che Soundwall ha con Exit Festival, abbiam voluto chiedergli cosa pensa dell’era dei grandi festival e di come stanno cambiando il modo di fruire la musica nei nostri giorni. Gliel’abbiam chiesto perché l’Exit rientra comunque nella categoria dei festival europei di grande dimensione, ma – e ce ne siamo accorti tornandoci anche quest’anno – il festival di Novi Sad è ben diverso dal classico festival grosso che conosciamo. Non è il Time Warp, non è il Sensation né tantomento il Tomorrowland. L’Exit nasconde in realtà ancora lo spirito genuino e affabile dei piccoli festival, quella sensazione di confidenza che ti fa sentire fortunato ad essere lì, a godere di una bellezza in fondo assimilabile da pochi, così vicina all’idea romantica di underground che risiede nella nostra testa.
È come d’improvviso si è ritrovato a scoprire il nostro Lorenzo Cibrario al pomeriggio del sabato, prima dell’inizio delle danze, nel momento in cui ti siedi nella food arena con quel cielo azzurro come un sogno e quella splendida vista sul Danubio che ti mette in armonia con qualsiasi cosa: “Ecco, la Serbia, Novi Sad, l’Exit è come questo tavolo a cui siamo seduti adesso: è solido, robusto, sta qui da anni e ci resterà ancora per una vita e mezza. Ma non ha nessunissima spocchia“. È esattamente così. Nell’anima, nel modo di accogliere e far sentire come a casa i ragazzi, l’Exit è ancora come quei piccoli festival in grado di conquistarti per la loro franchezza, per come ti fanno sentire in famiglia. Solo che tutto è moltiplicato per un fattore che nei numeri, alla fine, lo rende un festival enorme: 4 giorni, 16 stage, 400 artisti e una varietà di offerta che copre tutto, dal metal alla techno, dal folk al pop, inclusi stage dedicati al reggae, alla chill, alla fusion, alla disco, alla latina. C’è persino il palchetto del karaoke. È un festival per tutti, dove ognuno può trovare il suo spazio senza sentirsi costretto a seguire scalette prefissate o stazionare in spazi indesiderati. Ci si sente liberi di seguire il proprio istinto, fosse anche quello di lasciarsi alle spalle le piste per un attimo e andarsi a stendere in pace, lontano dai volumi alti, a osservare il tramonto sul fiume. Sempre restando nella location dedicata al festival, la storica Petrovaradin Fortress, grande abbastanza da permetterti di trovare un posto di pace anche quando dentro ci stanno girando più di 50.000 spettatori.
E questa sensazione di sentirti libero di goderti il momento senza ansie e scalette, quest’anno è stata ancora più netta degli anni passati. La sensazione è che non si era lì per uno o due nomi grossi, ma per apprezzare l’esperienza complessiva. Perché ok, c’erano i Motorhead, i Faithless, i Leftfield, c’era Goldie e Roni Size, Manu Chao e Martin Garrix, ma in una dinamica così ampia il singolo nome, per quanto grosso possa essere, ha un peso specifico relativo. Più che i nomi, all’Exit contano i luoghi. Come lo Urban Bug stage ricavato in una rustica nicchia appartata, che tutte le notti ha offerto una deep calda e affabile offerta da dj locali e non, che ti serviva da mood base di partenza per tutti gli altri itinerari. Come il No Sleep, l’ultimo avamposto del festival, raggiungibile imboccando un tunnel oltre l’ultima area organizzata, il brodo primordiale in cui poter sfogare i propri istinti con una techno sempre tagliente e cattivissima. Come la Dance Arena, una specie di anfiteatro naturale accessibile da due percorsi opposti, affascinante visto dall’alto ed eccitante quando sei dentro, dove il festival ha ospitato tutte le sfumature di dance elettronica per i tempi moderni. O come lo stesso main stage, pensato per contenere quelle 10 e passa mila persone per i live più attesi. Sono i luoghi, il vero fascino del festival. Perché è con essi che crei il legame affettivo, indipendentemente dal nome sul palco. I luoghi creano la chimica, predispongono alla sorpresa, accentuano la ricettività. Ti prendono bene. Ti prendono proprio alla grande. E quando sei preso bene, sei pronto ad accogliere al meglio la dimensione musicale, attesa o inattesa per quanto possa essere.
È in questa cornice che poi hanno luogo le sorprese del festival, quelle che ti dan da pensare, ti fan riflettere sul momento e lo stato della scena musicale dal punto di vista generale. Come quando ti accorgi che, ok Octave One, Chris Liebing o Adam Beyer per cui ormai non avete più bisogno di commenti da parte nostra, ma come ci si è scatenati con la techno diabolica di Charlton e Sleeparchive al sabato, o come ti sei sentito felice sul serio con la sensualità house di un tris di donne che altrimenti non avresti mai sentito nominare (Lady Dee, Loco Baby e Dark Angel, in caso vogliate approfondire), non lo ricordavi proprio da un sacco (file under: il piacere di essere underground). Oppure quando, osservando la risposta del grande pubblico al susseguirsi dei nomi al main stage, noti che van bene i risultati in qualche modo sicuri di Motorhead e Manu Chao, ma il concetto di entusiasmo applicato agli anni 10 in realtà lo realizzi sentendo le urla del pubblico giovane da qualsiasi angolo della fortezza quando suona John Newman, classe 1990 (file under: le fiamme più alte son quelle che bruciano più in fretta, soprattutto coi giovani di mezzo, e chi organizza deve anche tenerne conto). O ancora, quando vedi il genuino coinvolgimento che viene a formarsi quando torna a farsi sentire la drum’n’bass e tu ti senti contento di essere di fronte a due brutti ceffi come Roni Size o Goldie a saltare come una cavalletta impazzita dimenticando per un attimo se è il 2015 o il 1996 (file under: il tempo non esiste, a meno che non sia tu ad essere invecchiato dentro).
All’Exit Festival abbiamo incontrato per qualche minuto Goldie, l’uomo dietro la rivoluzione drum and bass, l’artista che più di ogni altro ha rivoluzionato la musica negli ultimi vent’anni. Ovviamente durante un festival e quindici minuti prima del suo show, l’intervista non poteva essere una rilassata chiacchierata, ma un rapidissimo scambio di opinioni a bordo palco, con una sfilza di giornalisti in fila ad aspettare il proprio turno.
La prima domanda che vorrei farti è la seguente: quando hai scritto la tua musica, capolavori come “Terminator”, “Angel” e l’immenso “Timeless” sapevi che avrebbero fatto la differenza, sapevi che stavi facendo qualcosa che nessuno aveva mai fatto?
Ovvio. Sapevo che sarebbero durate almeno vent’anni! [ridiamo]
Tipo che sapevi che nessuno aveva mai fatto niente di simile?
Ehm, si abbastanza certo. [seguono risate da parte di entrambi]
Quando scrivi e produci musica, qual è e qual è stato il sentimento che ti spinge e che ti ha spinto a scriverla? Rabbia? Felicità? Tristezza? Odio? Amore?
La musica migliore l’ho scritta quando ero fottutatemente triste! Voglio dire, Monkey Boy [che sarebbe lui] è una volta felice e a volte è triste, ma entrambi vivono nel fantastico mondo di Goldieland e concorrono a produrre musica. Per due settimane abbiamo avuto un’orchestra composta da settantotto elementi pronti per suonare Timeless ed ovviamente il sentimento dietro questa produzione è stato la felicità. Un’esibizione come quella di Timeless con l’orchestra ti dimostra quanto la musica elettronica funzioni a livelli, quanta stratificazione esista nella buona musica elettronica. E questo è molto importante e questo show lo mostreremo per il mondo durante il prossimo anno. L’abbiamo da poco presentato a New York ed è stato fottutamente epico! Sai una cosa? Penso che la musica elettronica sia ancora una ancora in evoluzione, voglio dire, Johnny Greenwood ce l’ha dimostrato con i Radiohead, è ancora possibile comporre ottima e complessa musica elettronica. C’è ancora chi pensa che scrivere musica elettronica sia più che schiacciare un bottone, come fanno quei fottuti ingegneri del suono. Per quello che io non voglio essere un fottuto ingegnere del suono, di quelli che c’hanno la faccia schiacciata contro le partiture e non comprendono il senso generale delle cose, io sono un musicista. Sai quanti ingegneri rimangono bloccati, vorrei dir loro: “zio, alza la testa dal computer e mettiti a suonare veramente!”.
Capitolo a parte per la tragicommedia avvenuta all’alba dopo sabato notte. Lì capisci che il record assoluto di paganti battuto dall’Exit quella stessa sera (52.000 paganti) è dovuto soprattutto al tipo in piedi in consolle sulla dance arena coi fuochi d’artificio nel cielo sopra di lui, di nome Martin Garrix, il capo indiscusso della peggio onda EDM vuota di significati che abbiamo oggi, piena di adrenalina sintetica in batteria e sempre più prossima alla musica per autoscontri, ma che in realtà è il vero divo del festival quest’anno. Poi dopo di lui, nello stesso luogo con lo stesso pubblico, è costretto a salire un giovincello come MK. È una scelta intenzionale, ci dirà il giorno dopo un membro dell’organizzazione, perché – parole sue – “quest’onda EDM prima o poi dovrà finire ed è bene che i giovani aprano gli orizzonti“. Pensiero sacrosanto, ma è lo stesso una scelta che ci ha fatto sudare freddo. Tu temi il peggio, già ti prepari a piangere lacrimoni di amarezza nello scoprire quanti giovani saranno fuggiti dalla pista al momento in cui la vuota apparenza lascia il posto alla classe genuina. Ti riavvicini all’arena quasi coprendoti gli occhi, mentre senti i primi pezzi messi da MK e pensi che, pover’uomo, ci sta anche dando dentro con un set grintoso e ben tagliato, fatto di classici che dovrebbero funzionare con tutti, e quei giovani irriconoscenti già li odi nel profondo. Poi gli occhi li apri e scopri che – cacchio! – i giovani sono ancora lì e si stanno divertendo sul serio, ballando di gusto una musica che nella scala di valori sta all’estremo opposto di quella messa prima da Garrix. E allora capisci che alla fine la grande musica vince sempre e la fiducia non deve morire. File under: non temete, le anomalie vanno e vengono, la sostanza resta sempre. Per sempre.
Son queste le cose che accadono all’Exit. Coprono uno spettro enorme e ti danno la possibilità sia di trovare le cose che ti elettrizzano ma anche di scoprire, analizzare, se è il caso prendere posizione, quando ti confronti con le cose da cui solitamente ti tieni lontano. È anche questo che rende l’Exit un grande festival. In certi momenti, in certi angoli della fortezza, ti senti a casa, ti senti l’unico privilegiato a osservare i vari spettacoli che scorrono davanti agli occhi. Poi ti giri e ti torna in mente che sei in un posto dall’organizzazione imponente, dove c’è tutto e il contrario di tutto. Un momento è la tua piccola famiglia, il luogo che ti riconcilia con te stesso, e il momento dopo è una delle esperienze più grosse che ti capiterà di vivere nell’anno in corso. Potere di chi pensa in grande, ma non per questo ha perso di vista il fatto che la vera bontà delle cose viene sempre dal cuore.
[A cura di Carlo Affatigato e Lorenzo Cibrario]