Sono passati ormai due mesi dall’Exit Festival, che nell’edizione 2011 ha infilato numeri trionfali tanto quanto quelli degli anni precedenti. 170.000 presenze, ovvero più di 40.000 a sera: roba che in Italia solo i dinosauri Vasco Rossi e Luciano Ligabue possono permettersi, e cifre a cui fra i non dinosauri si possono avvicinare solo i giovani-ma-nati-vecchi alla Biagio Antonacci e Laura Pausini; siamo ormai un paese che flirta con la sclerosi. Ma non è solo per il numero degli spettatori paganti che per Soundwall è stata una soddisfazione essere partner del festival serbo; e nemmeno per la bontà della line up (abbastanza epocale anche quest’anno, come d’uso, con le scene rock e dance rappresentate con una completezza impressionante). Tant’è che non saremo qua a raccontarvi i set uno per uno, né a fare considerazioni sui top (molti) e flop (quasi nessuno) qualitativi nelle quattro giornate.
Molto più utile fissarsi su alcune questioni un po’ diverse. Cercare di capire perché un festival di queste proporzioni e di questa qualità si possa svolgere in Serbia (in Serbia! Un paese grande poco più di una qualsiasi regione italiana, con una popolazione totale che è pari a quella della sola Lombardia, con una situazione economica che qua nello Stivale al confronto sembra di stare in Svizzera), mentre da noi in Italia si faccia sempre più fatica, e intendiamo tanta fatica, veramente tanta fatica, come del resto sotto gli occhi di tutti, eccezioni torinesi a parte.
Proviamo a fissare un po’ di fattori. Il primo, in ordine cronologico ma anche in importanza: la motivazione. Exit nasce con un’idea forte, fortissima. Addirittura una sfida di sopravvivenza politica. La prima edizione infatti era una cento giorni di concerti no stop di protesta contro il regime dell’allora presidentissimo Slobodan Milosevic, uno dei leader politici più abbietti dal secondo dopoguerra ad oggi. “Noi continuiamo a suonare finché tu non te ne vai!”, da cui il nome del festival. Milosevic non se n’è andato (l’ha fatto qualche anno più tardi, cacciato da una sollevazione popolare), ma Exit da lì ha continuato a crescere anno dopo anno, passando da adunata di gruppi locali a festival di statura mondiale.
Il secondo, a modo suo diretta conseguenza del primo, la consapevolezza che il lucro non è tutto. “Il potere acquisto in Serbia e in generale nelle popolazioni delle altre regioni balcaniche, il nostro primo pubblico di riferimento, è basso. Ecco che quindi noi facciamo ogni sforzo possibile per calmierare i prezzi”, ci spiega il capo supremo del festival, Bojan Boskovic. Non sono parole: quattro giorni d’abbonamento per una line up spaventosa costavano quest’anno 115 euro, ma se si comprava il biglietto con grande anticipo si arrivava a spendere la miseria di 65 euro, sempre per l’abbonamento. Non esiste altro evento musicale in Europa con questo rapporto qualità/prezzo. Una linea che viene condivisa con gli artisti invitati, a cui viene chiesto di suonare per quanto possibile con un cachet ridotto. In moltissimi lo fanno. “Gruppi come Groove Armada ed Underworld, giusto per nominarne due, ci danno praticamente assegni in bianco: pur di suonare da noi accettano cifre che altrove non accetterebero: gli piace l’atmosfera, gli piace lo spirito”.
Già. Lo spirito, l’atmosfera. Terzo fattore. C’è un’identificazione fortissima tra Exit e il suo pubblico, testimoniata dal fatto che i volontari che lavorano alla macchina organizzativa del festival sono cinquemila (sì, avete letto bene: 5.000). Pubblico che a sua volta si identifica non con il tasso di coolness (vai ad un evento milanese o ormai anche al Primavera Sound: ti sembra di essere fra le pagine di una rivista di moda, per come la gente si atteggia e per come è vestita), ma con la voglia di essere partecipe di un evento tanto di massa quanto culturale: non ci sono infatti solo concerti, ma ogni anno anche delle precise battaglie culturali. Sempre Boskovic: “Questa è una parte integrante del progetto Exit. A parte le battaglie originarie contro Milosevic, siamo stati fra i primi a voler gettare un ponte fra le nazioni della ex-Jugoslavia poco prima in guerra tra loro, mentre quest’anno per dire abbiamo toccato un argomento delicatissimo nei Balcani, quello dell’omosessualità, ancora mal tollerata nella stragrande maggioranza della popolazione: abbiamo voluto montare un palco esplicitamente gestito e pensato per la comunità GLBT. Qualcosa di inimmaginabile in qualsiasi altro grande evento di questa parte d’Europa. Ad ogni modo, anche se Exit è conosciuto prima di tutto come un grande festival musicale, ed è normale sia così, per noi resta sempre prima di tutto un evento politico. Vogliamo che quest’anima non si perda, vogliamo che chi ci viene a visitare se ne renda ancora conto”.
Quarto fattore, l’ultimo di questa nostra disamina pronto uso: la location. La fortezza di Petrovaradin, alla periferia della città di Novi Sad (la seconda città della Serbia, con un bel centro austroungarico ed ampi boulevard alberati), è un posto assurdo: non solo dà a picco sul Danubio, ma ha delle dimensioni impressionanti – tant’è che dentro riescono a montarci ben ventisei palchi, e a tenere appunto più di 40.000 persone a sera. Ma non è solo questione di numeri: per andare da un palco all’altro devi passare per tunnel antichi, ponti levatoi, fossati, crepacci, discese vertiginose. Vero: una commissione di vigilanza italiana non darebbe mai, e sottolineiamo mai, l’agibilità al festival. Troppi punti rischiosi. Ma è anche vero che in Italia il principio dell’agibilità di un posto spesso e volentieri pare animato dall’idea che bisogna ridurre il rischio a zero, e per ridurre il rischio a zero l’evento o non lo si fa svolgere o lo si fa svolgere obbligando l’organizzatore a spese senza senso o ad allestimenti e location senza sugo. No, c’è qualcosa che non va. E comunque ad Exit la sensazione di pericolo non si avverte mai, nonostante la molta folla e nonostante certi spazi veramente acrobatici. Questione anche di pensare il pubblico come un insieme di persone responsabili, non come bufali pronti a distruggere o distruggersi (che è il modo in cui le istituzioni italiane vedono chi frequenta eventi musicali).