Si dice che dall’altra parte dell’oceano, ed in particolare a New York, l’house music stia rifiorendo per merito di artisti come Levon Vincent, talento texano (di Houston, per la precisione) che è entrato a contatto con la musica elettronica proprio nella Grande Mela dell’era pre-Giuliani (l’Alemanno di turno, perdonate il paragone azzardato e benevolo per il nostro Gianni) e che ora chiama Berlino casa sua. Che ovvietà, non c’è nemmeno da sottolinearlo: ora tutti stanno lì, tutti respirano quell’aria e si nutrono della stessa energia. Per questo, se si vuole conoscere per bene un artista, è necessario scavare a fondo (sempre che il background lo consenta) e sbirciare tra le vecchie “foto di famiglia”.
La New York vestita in stile Pat Field (Sex And The City vi dice qualcosa?) doveva essere proprio stimolante, oltre a rappresentare un bel salto di qualità per il giovane Levon. Kim’s, Tower e Music Exchange, come cliente e collezionista di dischi, e Halcyon (storico store di Brooklyn) come commesso, sono, nella fattispecie, il suo punto di contatto con la musica da ballo. Qui l’allora ventiseienne texano conosce Anthony Parasole (con cui aprirà nel 2008 l’ormai mitica Deconstruct) e Jus-Ed, la mente che si cela dietro Underground Quality (label che non ha il solo merito di aver lanciato i vari Anton Zap e Nina Kraviz, anzi), iniziando a mettere le basi per quella che potrà sembrare una quanto mai rapida ascesa, ma che in realtà è figlia di una crescita e di una consapevolezza formatasi col tempo e col confronto con personalità che fanno dell’house music una vera e propria vocazione.
E poi? E poi c’è la nascita di Novel Sound (sempre nel 2008), la pubblicazione “Games Dub” (vera e propria hit uscita su Underground Quality nel 2009), il supporto di veterani della scena come Craig Richards e di artisti importanti come Marcel Dettmann. A questo punto Levon è pronto per il grande salto e club come Fabric, Berghain (a proposito, ripescate “Late Night Jam” su Ostgut Ton), Rex e l’ormai defunto Tape, teatro dei leggendari party organizzati da Jus-Ed e dalla sua banda, sono pronti ad accoglierlo. Il resto è storia recente: chi di voi non ha letteralmente preso fuoco quando ha sentito suonare “Man Or Mistress”? Il disco è stato capace di mettere tutti d’accordo diventando contemporaneamente inno del Panorama Bar, da un lato, e pezzo forte dei set di Sven Vath (quello che ancora oggi suona “Blaue Moschee”, per intenderci), dall’altro.
Raggiunta la consacrazione di fronte al grande pubblico è venuto il momento di firmare una compilation di prestigio. Cosa c’è di meglio, quindi, di un Fabric? Messi via gli ultimi due episodi che se definissimo “così-così” finiremmo per premiare giusto la buona volontà (ma dopo Dave Clarke che ci aspettavamo?), eccoci alle quindici tracce selezionate per l’occasione da Levon Vincent. L’americano chiama all’adunata gli immancabili Dj Qu, Anthony Parasole, Jus-Ed e Black Jazz Consortium (per gli amici Fred Peterkin), oltre alla “new entry” Miquel De Frias, e li mescola a sette suoi cut: il risultato è una miscela fatta di ricchi synth analogici, complicate ed articolate linee di drum e muscolose linee di basso. Il tutto suona caldissimo (il tocco dub della sua musica si fa sentire qua e la) ma non si tratta della solita compilation missata come “Ableton comanda”: in questo Fabric numero sessantatre Levon rinuncia sostanzialmente ai dj-tricks, ricorrendo ad uno stile che ricorda Mancuso e gli altri “disco guys”. Qui però non siamo al The Loft di New York, ma in fabbrica.
Che sia il sound della prossima rivoluzione industriale?