Sessantaquattro può essere, per molti, un numero privo di qualsiasi significato ma può anche rappresentare un traguardo, il traguardo raggiunto dal team del Fabric con la loro compilation che è riuscita, col passare del tempo, a raggruppare un gran numero di fans – diventando una delle serie di maggior fama, nonché una delle più seguite attualmente – forte anche della notorietà del marchio del locale londinese. Nomi di tutto rispetto (un giro sul portale ufficiale del Fabric è d’obbligo se non l’avete mai fatto prima d’ora) si sono passati il testimone, con l’intento di proiettare, concentrare, indirizzare, in un duro lavoro di sintesi, il proprio sé musicale nei brani selezionati. A memoria cito, fra le ultime raccolte della serie, Jamie Jones, Dj Sneak e Levon Vincent e.. ultimo, ma non ultimo, Guy Gerber con sedici brani inediti prodotti in questi mesi, in solo, e con la collaborazione di amici come Deniz Kurtel e Clarian North dei Footprintz.
Avete capito bene, sedici brani inediti. Non è la prima volta che succede ok, ma non direi nemmeno si tratti di un fatto usuale: sarebbe molto più semplice e sbrigativo scegliere una ventina di brani, magari di amici e parenti, col fine di creare una selezione di tutto rispetto, piuttosto che utilizzare brani inediti per una compilation. Dunque, questo modo di approcciarsi alla composizione della compilation, quasi del tutto innovativo, avvicina Gerber ad artisti che, sempre riferendomi alla stessa serie, l’hanno preceduto in questa scelta. Shackleton, Omar S e Ricardo Villalobos fanno parte di questa ristretta famigliola. Inoltre, c’è da dire che muovendosi in questa direzione l’artista israelita si auto-esclude dalla massa dei comuni mortali, i quali barattano le proprie menti (e le idee) col successo (nella migliore delle ipotesi), annientando quasi del tutto lo stimolo creativo e, finendo col produrre dischi fatti con lo stampino sulla catena di montaggio. Tutto ciò pare non sfiorare minimamente Guy Gerber che di essere messo al guinzaglio non ne vuol proprio sapere, ne è la prova la sua ricercatezza musicale, unita ad una costante evoluzione stilistica.
Per quel che concerne i brani contenuti nella compilation, lo scheletro, e il corpo della maggior parte delle tracce è concepito ad un livello superiore: sensibilità estrema nella stesura, capacità compositive, scelta dei suoni sempre impeccabile. Queste sono le doti che ti fanno apprezzare Guy Gerber sempre e comunque. Le prime quattro tracce sono un continuo salire, melodie capaci di trasportati e prendersi cura di te per tutto il tempo, una terapia per la mente e le orecchie: “Store-House Consciousness”, “Shady Triangle”, “The Naked Hairdresser”, “The Golden Sun And The Silver Moon”, soprattutto quest’ultima, che mi ha dirottato in un’altra dimensione. Il titolo sarebbe azzeccato per una fiaba, o una poesia, ma anche così, sostituendo alle parole le note, il risultato finale è uno solo: l’incanto. E come potrebbe essere diversamente di fronte alla bellezza e all’armonia delle melodie proposte da questo geniaccio di Gerber?
Muovendosi a zig zag fra le tracce, resto impressionato da una sorta di “romanticismo sonoro” – altra definizione non mi sovviene – che trovo incappando in “Running Trough The Night” e “Lady Falkor”. Provo a scansare i pezzi riconducibili alla categoria del “già sentito” che non impressiona ad un ascolto lucido, come quello da casa per intenderci. E’ pur vero, però, che è proprio la linearità e l’assenza di complessi giochi melodici, minimo comune multiplo di queste restanti tracce, a renderle ottimi strumenti per intrattenere la pista, senza girarci troppo intorno.
Il disco si chiude con una collaborazione speciale – almeno per me: Deniz Kurtel, artista che ho divinizzato e adorato ai tempi di “The L Word” (sì, “The L Word”, che disco!). La traccia in questione è “Just Wanna See You Happy”, un ecosistema di micro-suoni da cui germogliano arpeggi fluidi e umide note di synth capaci di penetrare nella mente e ammaliarti con una sensualità ricercata, raffinata.
Basta davvero poco per entrare nel mondo di Guy Gerber, ma fidatevi, è altrettanto difficile uscirne, e quest’ ultimo lavoro non rende, di sicuro, le cose più semplici.