A vederlo così, ciuffo spettinato e look dark, te lo aspetteresti front-man di una di quelle band rock nate in qualche high school di Londra e cresciute nei suoi club più piccoli e underground; uno di quei gruppi che, per quanto riguarda il look, potreste facilmente scambiare per gli Arctic Monkeys degli esordi, i The Vaccines, oppure – meglio ancora vista la somiglianza con Luke Pritchard – per i The Kooks. E invece saremmo completamente fuori strada, perché Mathew Jonson è uno degli artisti più incredibili che la musica elettronica abbia mai conosciuto, un produttore dal gusto e dalla sensibilità unici; una figura capace di elevare il suo stile, attraverso una crescita vertiginosa durata oltre dieci anni, tanto da far sembrare la sua techno la figlia giovane, leggera e incosciente di quel jazz “elevato” che usualmente resta ad appannaggio di una cerchia più o meno ristretta di appassionati.
Mathew Jonson, insomma, è una mosca bianca come ce ne sono poche. Questo non solo perché ascoltando la sua musica, così cerebrale quanto fisica, si ha sempre l’impressione che l’imprevedibile sia dietro l’angolo; che quel synth freddo e sinistro possa rivelarsi solo la penultima delle invenzioni del buon Mathew e che ben presto, potete scommetterci le palle, accadrà dell’altro; che ogni disco, ogni uscita e ogni remix, per quanto riconducibile in modo inequivocabile al suo meraviglioso autore, è lì per svelare nuove incredibili storie e non per far galleggiare la figura di uno che, se proprio vogliamo dirla tutta, potrebbe tirare i remi in barca e campare di rendita. No, Mathew Jonson è l’eccezione, è quello che non conosce soluzioni banali, che non s’è snaturato (e crediamo mai si snaturerà) e che, piuttosto che piegarsi allo stile della label che lo ospita, alza ancora la sua asticella per trasformare Minus e Crosstown Rebels nelle label del momento. Dischi come “Learning To Fly”, “Dayz” e “Automaton”, sfidiamo chi la pensa diversamente a dimostrare il contrario, giocano in un altro campionato.
È un virtuoso e lo dimostra senza incorrere in passi falsi soprattutto quando è all’opera con Danuel Tate e Tyger Dhula, gli altri due membri del progetto Cobblestone Jazz, i prodi e fidati compagni di studio con cui condivide una visione “alta” della musica da ballo. Le raccolte “23 Seconds” (2007) e “The Modern Deep Left Quartet” (2010), entrambe su Studio !K7, si uniscono a una lunga serie di EP in cui il “far ballare” non è l’unico fine a cui mirare incuranti della forma, piuttosto la logica conseguenza del dialogo costante tra gli strumenti con cui la loro musica è composta. Quella dei Cobblestone Jazz, e quindi di Mathew Jonson, è techno “barocca”, dove la forma conta (e deve contare) tanto quanto la sua essenza – una sorta di provocazione per chi vive il genere in modo esasperatamente dogmatico. La cosa che sorprende maggiormente, quando si pensa a lavori come “India In Me”, “B2” e “Dump Truck”, è che se c’è una cosa che proprio non risente di questa ricerca continua della sfumatura, del ghirigoro e della soluzione estrosa è proprio il cuore e l’anima di ciò che il terzetto canadese ha fin qui composto, evidentemente ancora lontano dalla linea che delimita il “troppo”.
La voglia di impressionare e sorprendere che caratterizza i dischi di Mathew Jonson si riversa, inevitabilmente, sui suoi live. Incredibilmente omogenee e coerenti, ma mai banalizzate dal quella forzata ricerca di un “tunnel musicale” che spesso affligge i musicisti dal talento cristallino come il suo, le sue esibizioni sono degli show letteralmente da non perdere. Lo sanno bene tutti quelli che hanno avuto la fortuna di assistervi, compresi i presenti al quindicesimo compleanno del Fabric, il club londinese che ha affidato a lui la preparazione l’ottantaquattresima compilation della sua preziosa collana. La raccolta altro non è che la registrazione del live proposto dal canadese quel 18 ottobre, un vortice sonoro che vive dell’alternarsi di impazienti inediti, stupendi remix e grandi classici tra cui spicca, immancabile nei tre diversi cut/edit proposti, “Decompression”.
Uscita nel 2004, “Decompression” è universalmente considerata uno dei punti più alti dell’intero catalogo della Minus di Richie Hawtin. Non bastasse, lo stesso anno vede la luce anche “Marionette”: è la seconda release di quel fantastico contenitore che risponde al nome di Wagon Repair, la label inaugurata undici anni fa insieme a Graham Boothby, Konrad Black e Loose Change, e che gioca un ruolo chiave nella sua maturazione artistica. È su Wagon Repair, infatti, che Mathew Jonson può giocare e osare senza alcun limite, costruendo e plasmando non solo il suo suono, ma anche quello dei progetti che lo vedono coinvolto. Qui Mathew libero di essere sé stesso fino in fondo e così vengono pubblicati “Symphony For The Apocalypse: New Age Revolution” e “Walking On The Hands That Follow Me”, l’EP il cui B-side è uno più emozionanti di sempre: “When Love Feels Like Crying”.
La compilation Fabric è aperta da “Northern Lights”, l’ultimo lavoro a firma Cobblestone Jazz recentemente rilasciato da un’altra piattaforma fondamentale per il percorso del produttore canadese: Itiswhatitis Recordings. La label, attiva inizialmente tra il 2001 e il 2007, ha rilasciato infatti alcuni degli EP che meglio delineano l’estetica della sua musica: il minimalismo melodico ed ipnotico di “Typerope” (ristampata qualche tempo fa a dieci anni dalla prima pubblicazione) e “Followed By Angels” riassumono perfettamente i quelli che sono stati i suoi inizi. Interrotte le sue attività fino al 2012, la label riapre i battenti grazie a “Panna Cotta” e alla storia curiosa che ne accompagna la pubblicazione: dopo esser stata recuperata da Marco Carola (era all’interno di un vecchio CD “masterizzato per pochi amici”), diventa uno dei dischi più amati dei suoi dj set; così cominciano a girare i video su Youtube e la curiosità crescente per quel disco spinge il suo autore a riesaminare le vecchie collezioni alla ricerca di quel CD dall’etichetta “2003”. Ritrovata “Panna Cotta”, Mathew Jonson rileva Itiswhatitis Recordings da Spencer Drennan e sceglie di rilanciarla con quello che, per ragioni tanto sentimentali quanto stilistiche, rappresenta il disco perfetto per risorgere.
L’incredibile storia che Mathew Jonson ci ha raccontato attraverso la sua brillante discografia è oggi riassunta in modo nitido dai settantacinque minuti della compilation del club di 77a Charterhouse Street; una sorta di fotografia di un artista monumentale da conservare nello scaffale di casa destinato ai CD davvero speciali.