Abbiamo avuto una interessante conversazione con Davide Cario, nella veste di Edisonnoside, il moniker con cui da forma ad una musica tanto sperimentale quanto fortemente evocativa. Musica che si aggiunge ad una componente visiva altrettanto astratta, frutto della stretta collaborazione con il talentuoso videomaker Daniel Schwarz. Quello che si definisce l’incontro perfetto. A giorni li troverete al Sónar+D, la rassegna satellite del festival che seleziona e promuove progetti interdisciplinari nel campo dei nuovi media. Insieme ci andranno presentando Imposition, un progetto di cui Davide ci ha parlato a fondo. Giovane e italianissimo – dalla cadenza veneta impressa come un marchio di fabbrica – Davide si è formato tra Milano e Londra e, una volta entrato nel collettivo di Fabrica, da lì non ci pensano proprio a farselo scappare, tanto le sue alchimie tra musica, video e app funzionano bene e riescono a parlare a tutti. Nonostante, lo ricordiamo, la sua produzione musicale richieda un minimo di disposizione e preparazione all’ascolto. Lo conosciamo, parliamo di come stia cambiando oggi la scena sperimentale e citiamo molto spesso Ryoji Ikeda. In mezzo trova anche spazio – non ci crederete – Kayne West. Mente aperta, grande consapevolezza del proprio lavoro e molta, molta tecnica, il nostro va senza freni, quindi ha tutto il nostro supporto!
Nel tuo caso ci troviamo di fronte a sonorizzazioni, installazioni, quello che viene definito generalmente sound art. Quando penso alla tua produzione, mi vengono in mente Alva Noto, Ryoji Ikeda o realizzazioni come Umfeld, di cui abbiamo parlato proprio poco fa con Jochem Paap. Qualcosa quindi dove non è solo coinvolto il suono, ma anche le interazioni con elementi visivi. Cosa sta accadendo oggi, c’è l’esigenza di una musica nuova?
Sono dell’idea che ci siano vari segnali di un cambiamento in atto. Sicuramente il primo, anche se non è quello fondamentale ma rimane molto importante, è quello che arriva dalle tecnologie. Proprio adesso sto lavorando ad un’altra installazione che presenteremo al Sonar con Francesco, il mio responsabile, e ci siamo resi conto che cinque/sei anni fa non era possibile ragionare nella stessa maniera. Cioè oggi puoi prendere un HD, mettergli dei sensori collegati a Max/MSP, che manda dei MIDI poi mappati in Ableton Live, in modo tale che un’istallazione diventi come un MIDI controller gigantesco, con cui puoi fare quello che vuoi. Una volta era molto più complicato e lo stesso vale anche per la parte visuale. È molto più facile avvicinarsi ad un certo tipo di estetica, una volta che si hanno le idee chiare, si possono ottenere risultati impensabili. Quindi penso che da una parte ci sia la componente tecnologica e, dall’altro punto di vista, sempre però per ‘colpa’ della tecnologica, il musicista da solo rischia di diventare un po’ monotono. A volte, quando suono senza Daniel [Daniel Schwarz] dal vivo, mi trovo in difficoltà, cioè sono un laptop musician come molti altri. Quindi cerco di portare con me chitarre, tastiere, percussioni e microfoni per avere comunque sempre un minimo di connessione con il pubblico. Altrimenti se uno rimane impalato dietro al computer, sembra veramente che stia guardando le mail… Quindi non importa più tanto la parte estetica e sonora, perché la qualità è molto alta ultimamente, però c’è la necessità di un rapporto visivo con il pubblico, che altrimenti starebbe sostanzialmente ad ascoltarsi il disco. Penso che il motivo per cui tanti artisti stiano introducendo delle performance audiovisive in maniera massiccia sia dovuto anche a questo. In più, ci troviamo in un momento dove non esistono più tante barriere, quindi non sei più un musicista o un visual artist o un sound artist, ora invece si cerca di influenzare più discipline, perché dalla parte visuale si possono prendere dei dati e metterli in musica, come anche viceversa. È un continuo scambiarsi di informazioni e di stimoli. Quindi sono convinto che da questo punto di vista ci sia una scena in continua crescita.
Sì, in effetti è un periodo transitorio, a me sembra che la situazione assomigli a quando al cinema muto si aggiungeva il sonoro. Oggi abbiamo il processo inverso, ma, considerando anche che parliamo di un contesto storico diverso, è come se la musica da sola non bastasse più. Inoltre secondo te quando esattamente la ricerca del suono diventa musica vera e propria? Per poi tradursi in immagine…
Una cosa a cui penso spesso, ma che non sto ancora sviluppando perché ci vuole tempo e tecnica, è la visualizzazione dei dati, o meglio nel mio caso, la sonorizzazione dei dati. Ad esempio nella grafica, nei video o comunque nelle discipline visuali, c’è una scena importantissima di data artist, vedi Ryoji Ikeda. Cioè si vanno a prendere matrici intere di dati e si trova un sistema per trasformarli e sincronizzarli in maniera audiovisuale, organizzandoli e portandoli in un’altra dimensione. Si va a ricreare in sostanza quello che è un database. Ed è interessante capire come tutto questo si potrà reintegrare all’interno di un’estetica – passami il termine – popular. Avevo visto Ryoji Ikeda nel 2011 al Barbican Centre, dove aveva fatto datamatics e quella roba fantasmagorica mi aveva mandato fuori di testa! Mi ero appena avvicinato al suo stile e ho potuto apprezzare l’insieme. Poi sono andato ad ascoltare i lavori precedenti e mi sono reso conto che era complicato capirlo e accettarlo. Non è insomma musica che ascolti continuamente e di facile ascolto, devi essere molto preparato. Però è interessante vedere come quel tipo di artisti vada ad influenzare anche il pop. Ho avuto infatti una discussione animata con degli amici che sono grandi fan dell’ultimo disco di Kayne West. Ascolta New Slaves e tieni a mente tutta la produzione Raster-Noton, che cosa ha fatto se non prendere tutta quella che è elettronica sperimentale per i più – ma che in realtà non lo è – comprimerla e metterci sopra delle rime. L’ha prodotta bene, ma e da quel genere che arriva e che è stata influenzata. Lui è uno dei primi, quello che apprezzo di più è il fatto che sia andato a scavare in generi musicali non convenzionali per il pop e li ha ‘popolarizzati’ che è super-interessante! Lo stesso vale per gli artisti audiovisivi, che partono dalle immagini e per andare verso il suono.
Di già che hai fatto distinzione tra prodotto artistico e pop, secondo te per capire certe espressioni e maneggiare questi linguaggi bisogna avere un bagaglio, ad esempio, da compositore?
Secondo me, più che da compositore, il vero bagaglio necessario è quello d’ascolto. Cioè bisogna essere preparati a capire che esiste una differenza tra suono, silenzio e rumore. Oggi i limiti tra questi parametri sono molto sottili, non è facile definirli in ogni momento. Poi bisogna dire che se faccio sentire ad uno che fa indie rock, musica di Alva Noto, Ryoji Ikeda o Robert Lippok, mi viene a dire che hanno preso rumore bianco, lo hanno filtrato e lo hanno messo a caso. Vagli a spiegare che fare musica del genere è molto più complicato, muovendosi con pattern, texture e tutta una serie di cose… Bisogna avere l’ascolto pronto, ma a volte non è semplice. Penso che l’argomento sia quello, non tanto la composizione, perché in fondo è più uno spettacolo quello che si va a vedere. Nell’elettronica ci sono artisti che fanno produzioni più spinte, ma che hanno successo anche con il pubblico medio, perché hanno trovato una sintesi molto interessante tra l’essere sperimentali, ma mantenendo degli aspetti sonori familiari alle persone, vedi nei ritmi, nelle strutture.
Detto ciò e siccome citiamo sperso Ikeda, mi viene da pensare che la tua musica sia comunque molto strutturata. Il suono sicuramente rimane la componente più astratta, ma comunque il percorso creato dalla tua musica si può seguire, non dico facilmente, in una dimensione coerente. Pensi di avere ottenuto un suono freddo, digitale o gli hai lasciato un’impronta umana? Per caso campioni e registri anche suoni reali?
Io campiono il più possibile, poi tante volte, una volta fatti i campionamenti, li riascolto e mi rendo conto che da qualche parte in una mia libreria c’è un suono simile, però in qualità molto migliore! Allora magari faccio un misto. Sinceramente faccio campionamenti molto low-fi, ho uno Zoom con microfoni a capsula, bellissimo, però poi vado in giro con l’iPhone e magari, mentre sono in metro, posso ottenere quel suono sporco che mi piace moltissimo. Perché tanto alla fine non è che stai facendo un film e hai bisogno del suono ambientale che poi vai a sporcare, quindi tanto vale prenderlo in questo modo e avercelo già rovinato. Avevo letto un’intervista ad Alva Noto in cui spiegava che andava in giro con un registratore a cassette con le batterie scariche. Mi spiego? Quindi, con la batteria scarica suona già macinato di suo e quindi funziona. E poi cerco di suonare il più possibile, uso percussioni e strumenti autocostruiti. Inoltre nasco come chitarrista, quindi se posso usare la chitarra e modificarne il suono il più possibile, lo faccio molto volentieri. Poi chiaramente come tutti, viste le possibilità che ci sono – e che non ci sono ancora – tanti VST, molto digitale. Per quanto riguarda il mio suono invece, credo di avere ottenuto un po’ quello che cercavo. Sadly By Your Side, ad esempio, come concept racconta i temi delle distanze. Soprattutto considerando la mia storia e quelle di ragazzi che mi stanno attorno. Lavorando in un posto come Fabrica, dove ci sono cinquanta persone che coprono tutti i continenti, scopri che la maggior parte delle persone ha famiglia, fidanzata e amici sparsi in giro per il mondo. Quindi parlandoci, ti rendi conto che alla fine i sentimenti, le distanze raccontano le stesse storie, indifferentemente dal paese o dalla cultura di provenienza. Questo è il processo che ha seguito disco: mi sono accorto che la storia che volevo raccontare era in realtà la stessa che gli altri mi raccontavano. In più, mi sono basato molto in partenza dalle immagini, siano queste statiche o in movimento. Alcune tracce partono dal voler sonorizzare una fotografia, che può essere di fotografi trovati a caso, fotografi che mi piacciono o che conosco. Come vedi, la parte visuale ritorna sempre nel lavoro. E a livello sonoro credo di essere riuscito abbastanza bene a creare un tipo di elettronica – che nell’immaginario comune è considerata abbastanza gelida rispetto ad altri generi – in maniera piuttosto calda, avvolgente. Ho sempre cercato di lavorare i suoni in maniera tale che fossero il più possibile vicini a raccontare un tema umano.
Certamente. Mi pare di capire che alla base di tutto il tuo metodo stia il tema della percezione e da lì passi anche la percezione stessa della sorgente sonora. Vedi anche il riuscito esperimento visivo dell’app collegata a SBYS che reagisce agli input di melodia, armonia e ritmo…
Quello è dovuto in particolare ad un’idea di Angelo Semeraro, il ragazzo che ha poi sviluppato il design dell’app. Mi ha fatto notare che quando si ascolta la musica in un determinato posto, ad esempio al mare a fine vacanza, una certa traccia diventa il collegamento ad un luogo o una persona specifica. Mi ha quindi domandato “perchè non facciamo il contrario e non facciamo in modo che il luogo si adatti alla musica?” E magari in una situazione ideale di colori e luci, la tua traccia diventa perfetta per quel luogo. Questo è stato il motivo alla base da cui abbiamo sviluppato l’app e il libro connesso.
Lasciamo un attimo il discorso sul suono per poi ritornarci, ma hai accennato alla strumentazione e a Max. Un software, ricordo, di una complessità allucinante, lo usi molto?
Diciamo che lo uso ‘relativamente’ tanto, sono della scuola di pensiero per cui se posso non usarlo è meglio. Ho ad esempio amici che sono matti per Max, su cui si fanno la pedaliera, i suoni di chitarra, il convolution reverb. Un ottimo esercizio di stile, ci mancherebbe, però ci devono passare una settimana intera. Poi vai su Ableton 9, che ha un convolution reverb fantastico, già pronto e fatto da professionisti. Quindi, voglio dire, a me interessa quello che esce e non come viene fatto. Max lo uso tantissimo per la parte logica, quindi se ho un Launchpad e non ho i soldi per comprarmi un Monome, allora uso Max, modifico le patch che trovo per farmi degli strumenti per Monome, come arpeggiatori random di note su determinate scale, oppure lo uso per fare conversione di messaggi per un’installazione. Creo però tutti i suoni in Ableton, perché è comodo e ho più espressività a livello sonoro. Max lo uso invece per convertire quello che arriva dai sensori, magari i ragazzi di Interaction [team di Fabrica] hanno dei dati RAW, quindi di sensori elettronici, che mi faccio mandare in OSC e dico a Max di fare delle conversioni per ottenere come risultato una determinata sequenza di note o dei MIDI CC. Lo uso principalmente come bridge.
Per le altre componenti, quali software usi per synth e drum?
Per tutta la parte ritmica i suoni me li faccio io, trovo campioni di batteria, li taglio, li modifico e li metto nella drum track di Ableton che, secondo me, funziona perfettamente. La ritmica nelle tracce che scrivo è determinante, quindi è molto importante per ottenere il suono che ho in mente. Uso anche moltissimo il bundle dell’Arturia, soprattutto il Jupiter e il Prophet, i miei preferiti. Poi mi capita spesso di fare i suoni di drum o col Sylenth o con il Moog Modular, che ti dà la possibilità di creare suoni, come il kick, con le forme d’onda, ottenendo un suono pieno e molto organico. Questo per la produzione musicale, poi chiaro ho tutta la Komplete e altre librerie che mi servono come lavoro parallelo, più da sound designer.
Qualche cosa su come ti muovi in contest live, sia da solo che con Daniel.
Nel contesto live, quando suono con Daniel, è un sistema ben strutturato, in cui ci scambiamo dati. Quando suono da solo invece ho le stem premixate dei pezzi, le seziono, mi creo dei loop su cui baso la struttura per costruire i brani. Poi cerco di convertire delle parti che ho fatto con il synth, prevalentemente parti di basso. Se al momento mi sembra interessante renderle un po’ più grezze e sporche, allora uso il basso normale e lo mando al computer dove lo lavoro, oppure uso tantissimo Guitar Rig, quindi ho tutte le catene di effetti costruite. Così, quando faccio un accordo, viene fuori un bel suono di pad e le parti melodiche le trasformo in synth. Nel live cerco di avere degli strumenti da poter suonare, come ti dicevo, anche per stimolare la curiosità del pubblico. Tante volte, tra cento persone che hai davanti, magari venti si occupano di musica e le altre ottanta sono solo curiose e apprezzano il genere. A me interessa principalmente creare gradimento per le ottanta. Quando vedono che suono una chitarra, ma sentono un suono completamente diverso, sono attenti a cercare di capire cosa stia succedendo, quasi come se fossi un mago, un prestigiatore. Mi vengono poi a chiedere: ma come lo hai fatto? È una bella sensazione, perché si godono non solo la musica, ma anche lo spettacolo e, allo stesso tempo, si fanno delle domande.
Per quanto riguarda il lavoro con Daniel, arriviamo dritti ad Imposition, un traguardo importante nel vostro percorso di ricerca…
Imposition è questa performance audiovisuale che abbiamo creato con Daniel Schwarz, visual e media artist e mio collega in Fabrica, con cui ho iniziato a collaborare nel 2012. Imposition è nato da Vanish, un progetto premiato al Visual Music Award e che ha poi vinto il DOTMOV in Giappone e il Lago Film Fest. Abbiamo fatto prima il video, usando la tecnica del projection mapping partendo da una microstruttura grande quanto – fa conto – una teglia da forno, composta di piccole asticelle, immerse in aceto balsamico. Lui aveva già fatto un lavoro con questa tecnica, vincendo il contest per il video ufficiale di Piece of Paper di Amon Tobin, appunto con delle piccole strutture di carta e la tecnica di projection mapping su queste che erano bianche, quindi comode da proiettare. Aveva anche programmato un software in vvvv per analizzare la musica e trasformarla in visual. Ha usato praticamente la stessa tecnica, solo che abbiamo costruito la musica ad hoc, perché fosse la generazione dei visuals. Il bello è che il video non esisterebbe senza la musica e la musica ha senso soltanto con il video. È lo stesso processo che poi abbiamo adottato in Imposition, solo un po’ più complicato. Vanish è stato costruito pezzo per pezzo, realizzando più shot da varie angolature di quello che veniva proiettato sulla matrice e sincronizzando ogni singolo evento, in pratica ogni singolo colpo di drum ha il suo visual dedicato. Molto generativo, chiaramente. Per Imposition abbiamo fatto la stessa identica cosa, prendendo un po’ di tracce che avevo già per SBYS e creandone di nuove per ottenere un effetto scenico più forte e a livello tecnico. Il trucco è che i nostri due laptop sono collegati tramite le schede audio via MIDI. Ho un live set dove dispongo tutti i vari clip che compongono ogni brano, divisi per zona frequenziale, o meglio, in otto parti: ritmica, bassi, melodia, melodia 2, armonia, armonia 2, percussioni e sound FX. Questo a grandi linee, poi da brano a brano possono cambiare. All’interno di queste sezioni ho le varie clip che compongono la traccia e, parallelamente ai clip audio, ho una serie di clip MIDI, che sono dati che mando a Daniel, dove c’è la struttura delle tracce. Quindi quanti colpi ha l’hi-hat, quanti la cassa, quanti il rullante. Abbiamo creato un linguaggio per cui riusciamo a comunicare tramite MIDI: per l’ottava zero tutta la drum, l’ottava uno tutta la melodia, ottava due l’armonia, etc. In realtà a lui non interessa veramente sapere quali note sono, ma fondamentalmente i riferimenti di pitch e durata. Una volta creato questo linguaggio, i nostri due computer comunicano e tramite un software in B4 sviluppato da Daniel, alcune parti generano dei visuals astratti di linee e forme geometriche, altre parti generano colore, altre parti modificano questi parametri e altre ancora triggerano dei video che abbiamo creato ad hoc. Tutto quanto è mappato su questa struttura, una matrice componibile di aste bianche alte due metri, in mezzo a cui noi suoniamo avvolti dalla struttura del palco. È come se fosse un cerchio di monoliti illuminati, dove non ci vede nessuno, in quando siamo in fondo e vestiti di nero, parte dello stage, ma allo stesso tempo neutri. I musicisti veri sono le singole aste, come i componenti di un’orchestra in cui ognuno esegue la sua parte. Il bello è che le barre sono indipendenti tra loro, quindi, quando abbiamo stage diversi riusciamo a rimodellare la struttura. Possiamo cambiare le dimensioni e la disposizione delle aste e in base a quello riadattiamo anche i visuals. Quando ci capita un palco molto profondo, giochiamo tanto a muovere, accendere, spegnere e cambiare i visuals in base alla profondità del palco, generando dei giochi prospettici, come se fossimo in un tunnel. Giochiamo tanto sugli aspetti percettivi!
Percezione e sfalsamento della percezione, dunque. Nonostante ti piaccia disorientare con la tua musica, ti sei orientato benissimo con la tua carriera. Non ti ho ancora chiesto come sei entrato in contatto con Fabrica, una sorta di hub dove avete carta bianca per sperimentare.
Ufficialmente è un centro di ricerca sulla comunicazione, ma diciamo che è un ibrido tra una residenza artistica, un centro di ricerca e un’agenzia, parte del gruppo Benetton. Brevemente, ero appena tornato da Londra e avevo deciso che volevo lavorare non solo con la musica ma anche nel mondo degli audiovisuals, da film, documentari, installazioni. Cercare insomma di fare il musicista a 360 gradi. Mandavo curricula a vari studi e ho pensato di mandarlo anche a Fabrica. Essendo di Venezia, lo conoscevo bene. Un quarto d’ora dopo aver mandato il mio curriculum, mi hanno richiamato offrendomi un periodo di prova. C’è stata subito intesa e ho ottenuto la residenza per un anno, dopodiché mi hanno tenuto e ora sono qui! Quella di Fabrica è un’isola felice, la peculiarità di questo luogo è la completa libertà di espressione che ti viene concessa. Hai quindi la possibilità di sviluppare il tuo stile, mentre in altri studi devi allinearti ad uno stile consolidato. Qui i clienti arrivano e sanno che le proposte che gli verranno fatte sono completamente fuori dagli schemi. È divertente anche perché spesso il lavoro commerciale si unisce a quello artistico e si impara moltissimo ad essere versatili. Un giorno ti viene chiesto magari un pezzo house – che altrimenti non ti metteresti mai a fare – però per l’occasione vai a prendere dei suoni per cui hai fatto precedentemente ricerca e li integri in nuovi progetti.
Venezia… quindi sei stato alla Biennale Musica?
Sì ci sono stato, ma secondo me puntano ancora troppo poco su questa rassegna. Se confrontata con la Biennale Arte e Architettura, rimane molto inferiore, nonostante Venezia abbia avuto grandi nomi di musicisti, dentro e fuori il conservatorio e sia stato un centro di incontro tra culture musicali diverse. Sarebbe interessante se almeno nella Biennale Arte dessero più spazio ai progetti audiovisuali.