Nato e cresciuto nel sud di Londra, Ross From Friends è uno dei tanti moniker strampalati e un po’ maleodoranti di vintage che caratterizzano tanta parte degli artisti dell’universo lo-fi house. Già, la Lo-Fi. Perchè Ross From Friends, con la sua “Talk To Me You’ll Understand”, rilasciata nel 2015 su Distant Hawaii, sub-label di un peso massimo del genere come Lobster Theremin, traccia che ha scomodato complimenti e selezioni su NTS Radio da parte di un certo Iran Ahmed (XL Recordings vi dice qualcosa?), può a ben diritto essere ritenuto il pioniere di quello che ad oggi è uno dei sotto-generi più in voga del momento. “Ti andrebbe un’intervista su Soundwall, Ross?”. “Come no. Ma ragazzi, per favore: NO LO-FI!”. No Lo-fi. Guai a nominare quelle due paroline. Un nervo scoperto. Perché da due anni a questa parte, passato e vissuto il fenomeno “Talk To ME You’ll Understand”, canali youtube come Slav, OOUKFunkyOO, che avevano iniziato a trainare al successo le tracce di Dj Boring, Seinfeld o Mall Grabb a suon di upload, hanno moltiplicato le proprie visualizzazioni marchiando un’estetica dai contorni delineati, tutta cassa sgranata e sample scarnificati, ridotti all’osso. Un qualcosa che a lungo andare rischia di annegare le specificità. Per diffidare dalle imitazioni, infatti copiose, che rischiano di far degenerare un genere musicale a stereotipo, il producer britannico propone un live appassionante (vedere su YouTube per credere) dove le proprie produzioni vengono declinate e arricchite dal controcanto tra sintetizzatori, chitarre e sassofono. L’orizzonte è quello “a scarsa fedeltà”, certo, un marchio di fabbrica, fatto di armonie malinconiche, ossessivi loop e tanto groove, ma la performance che questo ragazzo propone ci sembra davvero distante dallo sterile “spingere – soltanto – dei tasti”. Anche per questo, e per molto altro come scrivevamo qua, va ringraziato Somewhere Festival che proporrà proprio in live Ross From Friends, il 10 Agosto, in quel della calabrese Brivadi di Ricadi, a due passi da Tropea. Il Somewhere, tra l’altro è una delle cose che trovate approfondite qui sotto, assieme a tanti altri spunti. Buona lettura!
Raccontaci qualcosa di te… Mi risulta che hai iniziato ad occuparti di musica da nemmeno troppo tempo. Come e quando è scoccata la scintilla?
In realtà sono ormai una decina d’anni che sono in mezzo alla musica. Ross From Friends ha sei anni di vita, ma già prima suonavo la chitarra in un po’ di band sparse. E’ sempre stato un sogno il fatto di poter fare della musica anche il mio lavoro, soprattutto in un contesto in cui potevo comunque mantenere la mia libertà creativa. All’inizio, quando ho iniziato a suonare in giro, andavo ancora a scuola o all’università, ma quando ho finito gli studi e ho visto che questa cosa diventava sempre più serie, beh, è stata una bella sensazione.
Il tuo nome d’arte è abbastanza bizzarro. Come è nato? Lo hai preso da “Friends”? Dai, confessa!
(ride, NdI) Diciamo che mi ero fatto una lista abbastanza lunga di potenziali nomi d’arte tra cui scegliere, alcuni erano orribili, altri erano cheesy in modo terrificante. Volevo giusto scegliere qualcosa che fosse divertente, ecco, nulla che comunicasse un’idea di eccessiva seriosità.
Domanda forse prevedibile ma, scusami, non riesco a non fartela: “Talk To Me, You’ll Understand” – come mai ha funzionato così bene, come traccia? In che modo si inserisce nei trend attuali della musica elettronica?
Nel lavorare su quella traccia ho impiegato davvero tanto tempo, perché volevo sviluppare al meglio un certo tipo di idea musicale che avevo chiara in mente e attorno a cui mi stavo aggirando da un po’. Ero molto interessato al come si costruisce nel modo più efficace una canzone e, al tempo stesso, al come valorizzare un certo tipo di tecniche di produzione. Ho voluto mettere entrambe le cose nel lavoro per un’unica traccia. Alla fine per completarla ho impiegato qualcosa come quattro o cinque mesi. Ma la reazione è stata fantastica.
Sei un gran collezionista di dischi? Che ne pensi della recente riscoperta del vinile? E, in genere dove e su quale supposto ascolti musica?
Di mio non sono un collezionista di dischi, ma ho appena ereditato un sacco di vinili che stavano nella casa di mio padre, che era un grande fan di musica dance piuttosto oscura di un po’ di anni fa. Sì, ogni tanto qualche vinile lo compro, ma solo quando si tratta di tracce che non riesco a trovare on line – magari una versione strumentale di un pezzo che mi piace davvero. Credo in ogni caso che il vinile non sia mai stato del tutto fuori moda poi sì, chiaro, ora c’è un grande ritorno di interesse e magari dipende dalla riscoperta di alcuni stili più vecchi di musica. Che poi, io capisco benissimo perché venga voglia di diventare un collezionista di dischi: c’è molta più personalità in un vinile, lo puoi toccare, hai un artwork, per non parlare del tipo di pasta sonora. Io adorerei essere un gran collezionista di vinili, però devo dire che è un hobby molto costoso…
C’è una bellissima registrazione di una tua session live al The Yard di Londra, in giro per YouTube. A te capita di suonare sia da solo che con la tua band, giusto? Quanto cambia il tuo approccio?
Cambia, cambia. Quando c’è di mezzo un live e sono con la band, la musica è ovviamente creata da me ma giro alcune parti a Jed (il mio chitarrista) e John (al synth e al sassofono). Tuttavia, ci sono anche dei momenti in cui ragioniamo veramente da band, tutt’e tre posti sullo stesso livello, e in quei momenti ci permettiamo anche di improvvisare molto in tempo reale. Cosa non male, perché ti permette di “seguire” le reazioni di pubblico, di vedere cosa funziona meglio e comportarti di conseguenza. Devo dire che poter andare in giro a suonare con due persone che non solo sono ottimi musicisti ma sono anche due dei miei migliori amici, beh, è una gran fortuna.
Quando crei musica, quanto senti forte l’imperativo di far ballare la gente? Te lo chiedo perché trovo nelle tue produzioni un perfetto equilibrio tra il piglio da club e momenti invece più meditativi, introspettivi – perfettamente evocati da giri di synth dalla melodia piuttosto malinconica.
Uh, grazie! Beh, io di sicuro adoro la musica dance e il ballare, soprattutto quando riesci veramente a creare un “canale emozionale” nel farlo. Io lo creo soprattutto quando sento un certo tipo di pattern ritmici e un certo tipo di scelte melodiche – lì potrei ballare per ore.
Quando suoni live, qual è il tuo set up? Vorrei capire come diavolo fai a mettere su un suono così “chiuso” e riverberato.
(ride, NdI) Fondamentalmente, abbiamo giusto un MicroKorg, una chitarra, un sax, un laptop e un pugno di pedali e controller MIDI. Un sacco di lavoro con gli effetti viene fatto direttamente dai software.
Vivi a Londra Sud adesso, e Londra è di sicuro una città piena di suoni e di stili. Quanto è importante nel definire la tua identità musicale?
Credo che il mio amore per tutto ciò che è dance music sia stato molto aiutato dal fatto di essermi trasferito a Londra da sei, sette anni. Attorno a casa mia ci sono davvero un sacco di club che ospitano delle serate ottime, dove mi capita di raccogliere veramente tante idee e tanti stimoli – idee e stimoli che non avrei mai recuperato se fossi rimasto a vivere nella mia cittadina natale nell’Essex.
L’arte del campionamento permette la musica house di restare in qualche modo sempre giovane. Tu di solito in che direzione guardi quando si tratta di attingere a vecchie fonti sonore?
Scegliere bene i campionamenti è una parte fondamentale del mio processo creativo. Con gli anni, ho accumulato non solo un mare di campionamenti ma anche i giusti trucchi per riconoscere dove stanno quelli buoni. La fonte primaria devo dire che è YouTube, lì trovi davvero una quantità pazzesca di cose interessanti. Potrei starci davanti all’infinito, senza annoiarmi mai.
Sarai in Italia il 10 agosto, grazie a Somewhere Festival. Curiosità: come viene vista la club culture di casa nostra, dalle tue parti? C’è qualche producer italiano che stimi particolarmente?
Ovviamente nella cultura dance ci sono artisti italiani che hanno avuto un impatto enorme, come Giorgio Moroder. Qua, dalle mie parti, ci sono un sacco di appassionati di Italodisco, credo che questo sia il contributo italiano alla musica dance che viene nominato di più. In questo periodo sto ascoltando molto la musica dei Fun Fun, e loro erano prodotti da Dario Raimondi ed Alvaro Ugolini. In realtà, credo sia molto facile che ascolti un sacco di cose fatte negli anni da produttori italiani senza però saperlo!
Sempre su Somewhere: in teoria, la musica che fai dovrebbe essere più a suo agio, come ambientazione, in un club, in uno spazio chiuso. E’ un’impressione sbagliata? E ancora: il fatto di sapere di suonare in una venue a cielo aperto ti porta in qualche modo a cambiare il tuo set?
Quando abbiamo iniziato a fare le prove per quello che doveva diventare il nostro live set, ci dicevamo che il nostro sogno sarebbe stato suonare al tramonto in mezzo ad una foresta. Cosa che è regolarmente già alla nostra primissima esibizione, l’anno scorso al Brainchild Festival. Quindi sì, suonare anche in venue a cielo aperto per noi non è un problema e sì, funziona!
Quali sono i tuoi piani per l’immediato futuro? Un album, magari? Credi che il formato dell’album abbia ancora un senso ed un’importanza, soprattutto nei contesti house e techno?
Io credo che anche nelle sfere techno e house il formato dell’album resti importantissimo, ci sono cose che puoi dire solo con un LP, con una serie di EP non ci riusciresti mai, lì il “respiro” è diverso. Resta sempre una gran cosa creare un’atmosfera particolare su un periodo prolungato di tempo. Esattamente come nei dj set di qualità. Ad ogni modo, in questi mesi sto spendendo veramente tanto tempo in studio, producendo ed imparando cose nuove: se tutto questo si tradurrà in un album più o meno a breve, questo ancora non lo so – vedremo!