Habemus Automaton. Lo ha lanciato il 25 ottobre con un release party nella sua tanto amata Toronto. Lui, Jake Fairley, quando ancora un teen, è sceso dallo skate solo per montare sui palchi (prima The Uncut e recentemente Bishop Morocco), continuando a farlo poi dietro una consolle per i club di mezzo mondo. Ora con più di dodici anni all’attivo come produttore e cinque album alle spalle, ti infila quello che forse ti aspetti (per la canadese My Favorite Robot), ma che alla fine, inesorabile, ti spiazza. Le sue diverse esperienze on stage si abbracciano strette nelle dodici tracce, in una foschia notturna di ritmi polifonici, più sporchi e scuri del solito, che si incastrano tra parole spettrali e languide sonorità shoegaze/cold wave che trasudano ottanta, in bilico tra la malinconia e un sorriso come solo lui sa fare. Un album maturo. Si sente. Tutti si ricordano (forse) solo la sua hit, Gazebo, piazzata spesso in repeat, e il suo LP Border Community (Colored in Memory – 2007) sotto l’ala protettrice di James Holden. Ma non è tutto. Rapido è stato Mr Jeremy P. Caufiled a scoprirlo, voi potete solo perdervi lentamente nei suoi molteplici mondi: in Crisis (Sender – 2002), album techno/minimale dubbettoso, nel piglio electro-punk di Touch Not the Cat (Dumb Unit – 2004), nelle svolte sperimental-melodiche di Paper Stars (Traum – 2002) fino alle “ninna-nanne da dancefloor” della sopra citata etichetta dal mulino a vento. Gli EP (anche per Kompakt, Cocoon, Beachcoma…) e le sue collaborazioni indie/new wave meritano “lo sforzo” di andarli a scoprire e gustare. Non sono un groupie sia chiaro…ma se è poesia quella che cercate, sapete dove trovarla.
Il tuo album fresco d’uscita ha titolo, Automaton, parola che, per definizione, rimanda ad uno scenario, di macchinari autonomi, analogici, un po’ old fashioned con fattezze umane e animali. La definizione è collegata in qualche modo al concept che lega le 12 tracce?
Automaton è un album che parla di una città di notte, quindi di tutto ciò che ci gira attorno: droga, sesso, violenza, etc. Il titolo comunque è legato al mondo tecnologico, un tema che sento particolarmente mio. Il secondo significato della parola “automaton” è quello più profondamente legato alle canzoni, ovvero ad una persona che assomiglia e si comporta come una macchina.
Come Fairmont suoni in live e dj set, come parte della band Bishop Morocco, in un gruppo. Queste tue diverse esperienze musicali come si influenzano l’un l’altra?
Suonare con il mio gruppo ha avuto una grosso impatto sul mio progetto solista. Lo dimostrano, per esempio, i progressi fatti sul canto e sulla stesura dei testi. Un altro è invece l’essermi reso conto che più impegno e lavoro investi sulla performance e più tutto risulta gratificante: adesso mi muovo con molta più strumentazione, il che da un lato rende le cose più impegnative, ma dall’altro contribuisce decisamente all’effetto finale dello show.
E’ evidente sulle tue produzioni, un costante e sempre crescente uso di vocals, piuttosto assenti in gran parte della musica elettronica odierna. Ritieni la parola importante per completare il mondo che c’è dietro ogni tua traccia?
Da sempre ho usato la mia voce per la musica che produco, ma é vero che ultimamente canto sempre di più: Automaton è il primo album con vocals presenti su ogni singola traccia. È qualcosa che continuerò a fare, ma con questo non voglio dire che le traccie con parti cantate siano meglio delle strumentali, si tratta semplicemente di qualcosa che mi piace fare, nonostante continui ad amare e comporre pezzi interamente strumentali. Al momento sto lavorando su una manciata di nuove tracce e nessuna ha linee vocali.
Ogni tuo album (5), dal 2002 ad oggi, è sempre uscito per un’etichetta diversa. Sembra come se te selezionassi quella che in quel determinato momento abbraccia al meglio il tuo tipo di sonorità. È solo una mia sensazione?
Ahah, non mi ero mai reso conto. Non c’é una risposta secca e semplice a tutto questo. I motivi alla base di ogni scelta sono diversi, ma quello che posso dire é che ho molti amici che hanno un’etichetta ed é sempre stato divertente collaborare con ognuno di loro. Credo comunque te abbia ragione dicendo che ogni label abbracci le sonorità espresse in ciascun degli album. Mi piacerebbe dire che c’è un piano dietro a tutto ciò, ma la realtà dei fatti è molto più caotica (nel senso buono).
Nel live gestisci tutto completamente da solo, te e e la tua apparecchiatura analogico/digitale. Ci potresti dire che tipo di strumentazione utilizzi e perché l’hai scelta?
Uso una MPC100 come sequenziatore principale, oltre che per suonare la maggior parte di linee di batteria e alcune parti di synth. Poi ho un Dave Smth Evolver, ottimo strumento su cui riesco a lavorare molto, sicuramente il mio sintetizzatore di punta. Poi ho una Dave Smith Tetra per creare suoni polifonici. Il terzo synth è un Moog Minitaur, grandioso per sporcare il suono e creare strani effetti, tutti al momento. Infine ho anche un JomoxXbase 09 che uso qui e là, quando voglio creare dei giri di batteria improvvisati. Per la voce invece, uso Digitech Vocalist Live 4, che suona bene ed è molto versatile. Tutto ciò é reso vivo dal mio compact mixer Alesis, che a dire la verità non amo molto, ma comunque non sono ancora riuscito a trovare il quello giusto da usare durante i live.
La colonna sonora di Twin Peaks composta da Angelo Badalamenti, a detta tua, è stata l’incipit del tuo “viaggio elettronico”. Oggi se dovessi citare un film, una serie e magari anche un compositore quali sarebbero?
Direi Trent Reznor. Non sono un gran fan dei NIN (Nine Inch Nails), ma le sue colonne sonore sono incredibili (“The Social Network” e “Millennium – uomini che odiano le donne”)
Una location specifica o meno, dove l’esperienza del tuo live credi verrebbe apprezzata al meglio e perché? Con un solo limite geografico…la Terra.
Le mie location ideali sono i piccoli club, qualcosa come 200 persone circa, con un palchetto, quel tanto da non essere incastrato dietro alla consolle; dovrebbe essere piuttosto scuro e illuminato da luci semplici, e con un impianto pazzesco. Quest’ultimo in particolare arduo da trovare. Sono spesso soddisfatto se un club ha almeno la metà di queste qualità. Ma mi arrangio con qualsiasi cosa abbia: indipendentemente da tutto ciò, cerco di fare il meglio, rimanendo sempre positivo. Mi ritengo molto fortunato che il pubblico apprezzi abbastanza la mia musica, tanto da portarmi in giro e venire a vedermi suonare. Sono sempre grato per questa opportunità.
Luigi Pirandello, uno scrittore italiano, diceva che “la vita o si vive o si scrive…”, ogni azione nega l’altra. Questa filosofia di esclusione credo si possa riferire anche ad altri ambiti artistici. Riesci a rivederti in questo pensiero?
Credo sia veramente così quando lavoro sodo su di un progetto. In tal modo o vivo la vita o faccio musica, ma raramente faccio le due cose allo stesso momento. Quando sono nel pieno della scrittura e produzione, tutto il resto certamente ne risente. Ma nel momento in cui non mi sento ispirato, oppure ho del tempo libero lontano dai club, colgo sempre l’opportunità per concentrarmi sul resto della mia vita.
Parlando di tour, quello del tuo album è appena partito (in Italia, per ora, l’unica data fissata il 19 gennaio a Milano), come vivi il periodo di promozione scandito da continue tappe, live show, reviews e interviste?
Certamente è un gran lavoro, ma non lo sento veramente come tale: sono entusiasta dell’album e sono felice che le reazioni siano state così positive. Quindi da una parte sono stra impegnato, ma dall’altra mi sento più energico; così anche se adesso ho un sacco da fare, non mi sento per niente stanco.
A giudicare dal numero delle date sembra che la tua musica venga più apprezzata qui in Europa che in altri continenti, nonostante te abbia fan sparsi ovunque. Ti sei mai fatto un’idea del motivo?
Sarebbe bello avere più date in Nord America per esempio, potrei così passare più tempo a casa mia a Toronto. Non è comunque un problema dal momento che, a mio parere, sia i club che l’andare in viaggio sono sicuramente più interessanti in Europa. Detto questo, adoro suonare in posti nuovi e lontani; sono infatti sempre entuasiasta, quando mi invitano da qualche parte dove non sono mai stato. Considerato che ho suonato in così tanti paesi in giro per il mondo, questo accade sempre più di rado.
English version
Habemus Automaton. He Launched it, The 25th of October, with a release party in his beloved Toronto. Our man, Jake Fairley, was still a teen when he jumped down from his skate to climb on stage (in the the beginning with The Uncut, more recently with Bishop Morocco), then, he kept doing it behind the decks in clubs spread all over the globe. Now, after twelve years in production, and five albums behind, he popped out the one you might expect, but still is going to floored you. The several music experiences he had on different stages seems to stay hugged tightly in his twelve tracks, surrounded by a nightly mist of polyphonic rhythms, dirtier and darker than usual, fitted in between ghostly words and languid 80’s shoegaze/cold wave sounds, wavering between melancholia and a soft smile, as only he knows how to do. A mature album. You can ear it. Everybody (might) remember just his Gazebo hit, often on repeat, and his album for the Border Community (Colored in Memory – 2007) under James Holden’ wing. There is more. Mr Jeremy P. Caulfield, was fast enough to discover him, you can just, slowly, loose yourself into his multiple worlds: in Crisis (Sender – 2002), minimal dubby-techno album, in the electro punk attitude of Touch Not the Cat (Dumb Unit – 2004), in the melodic-experimental turning point of Paper Star (Traum – 2002) or in the techno lullaby for the above-mentioned label of the playful windmill. The Ep’s (also Kompakt, Cocoon and Beachcoma…) and his indie/new wave collaborations definitely deserve the effort “to be unveiled” and enjoyed. Let’ s clear this out: I’m not a groupie..but if you are looking for poetry, well, you know were to find it.
Your brand new album is called Automaton, word which depict, by definition, an imaginary of automatic machines, a bit old fashioned and usually shaped into a human or animal form. Is it linked somehow to the concept that connects the 12 tracks?
Automaton is an album about a city at night. So it’s about all the things that go on; drugs, sex, violence etc. The title is still connected to this because technology is a big theme for me as well. But it’s the second meaning of the word Automaton that is truly linked to the songs, that of a person who appears to be or acts like a machine.
As Fairmont you play dj set and live, on the other hand, you are part of the band Bishop Morocco, in a group. How these different musical experiences influence each other?
Playing with my band has had a very big influence on my solo work. One example is that it has improved my singing and lyric writing. Another example is that I discovered that the more work you put into your performance, the more rewarding it is. I now bring a lot more equipment with me, which makes things more challenging for me, but also makes for a better show.
On your productions is clear the constant and increasing use of vocals, pretty missing in most of nowadays electronic music. Do you consider words important to make the world behind each track complete?
I’ve always used my voice in my music, but it’s true that lately I have been singing more and more. Automaton is my first album with vocals on every song. It’s something that I will always do. But it’s not as if I think songs with vocals are better than instrumentals. It’s just something I enjoy doing. I still love doing instrumentals though. Right now I am working on a batch of songs and none of them have singing on them.
Each album of yours (5), since 2002 till now, has always been pulled out on a different label. It seems like you are selecting the one which suits perfectly the sound you are into in that very moment. Is it more than just a personal thought?
Haha, I didn’t even realize that. There is no simple answer for that. The reasons in each case are different. I have lots of friends with labels and it’s been fun to work with different people. But I think you’re right about each label suiting the sound of each album. I’d love to say that there was some master plan behind it all, but the truth is that was more chaotic than that. (in a nice way)
You manage your live session all by yourself; you and your analog/digital equipment. Can you tell us which kind of machines do you use and why?
I use an MPC1000 as my main sequencer and also for playing most of my drum sounds and some synth parts too. Then I have a Dave Smith Evolver. It’s a great synth that can do a lot of different things. It’s my main synth for sure. Then I have a Dave Smith Tetra for doing polyphonic sounds. My third synth is a Moog Minitaur. It’s great for instantly messing around and getting crazy sounds. I also have a JomoxXbase 09 which I use here and there when I want to do some improvised drum programming. For my voice I use a Digitech Vocalist Live 4 which sounds great and is very versatile. All of these things get fed into my little Alesis mixer, which I don’t like very much. I’ve never found the perfect, compact mixer for live shows.
Twin Peaks soundtrack by Angelo Badalamenti, as you said, has been the kicking start for you “electronic journey”. Today, if you could mention a film, a series or a composer which one it will be?
I would have to say Trent Reznor. I’m not a big fan of NIN (Nine Inch Nails), but his soundtracks are amazing ( “The Social Network” and “The Girl with the dragon tattoo”)
Which one will be the best location, not necessarily a specific one, where we can better appreciate your live performance and why? A sort of limitation…it has to be on earth.
My ideal location is a small club. Something like 200 people or so. It needs a small stage so that I am not stuck in the dj booth. It should be dark with just a simple lighting system, and it needs to have amazing sound. This is very hard to find. I’m usually happy if a club has half of these qualities. But I make do with whatever I have. No matter what I try to do the best performance I can and stay positive. I am very fortunate that people like my music enough to fly me around and come and see me play. I always appreciate that.
Luigi Pirandello, an Italian author, once said: “You live life, or you write about it”, each action rejecting the other. This philosophy of exclusion, I think, could be extended to other artistic fields. Do you somehow see yourself in this way of thinking?
I think that’s true for me when I am working hard on a project. So sometimes I live my life and sometimes I make music, but rarely at the same time. When I am in the middle of writing and producing, everything else suffers for sure. But when I am not feeling inspired or there is some free time from gigs, I will take the opportunity to focus on the rest of my life.
Talking about the tour. Your album’s one has just started (in Italy, at the moment, the only booked date is in Milan the 19th of January), how do you face this promotional period full of gigs, live performance, reviews and interviews?
It’s definitely a lot of work, but it doesn’t feel like work, because I am excited about the album and I’m happy that the reaction has been so good. So on one hand I am really busy, but on the other I have more energy. Even though I have so much to do at the moment, I am not tired.
Having a glance to the several booked dates, seems like your music is more appreciate here in Europe than in other continents, even if you have fans all around the globe. Did you ever question yourself about it?
It would be nice to have more bookings in North America for example, because then I could spend more time at home in Toronto. But this is not really a problem, because in my opinion the clubs and the traveling are better in Europe. That being said, I like going to new and remote places. So when I get invited to somewhere I have never been before, I get excited. Of course this happens less and less now, because I have played in so many countries around the world.