Il ritorno, un disco nuovo a primavera 2017 dal titolo “Spirit”, un conseguente tour mondiale. La notizia ha fatto il giro del mondo. Giustamente: perché l’importanza dei Depeche Mode nella storia della musica è, beh, enorme. Ognuno di noi – soprattutto se appassionato in qualche modo di musica elettronica e/o fatta con sintetizzatori – ha un motivo per amare tantissimo Dave Gahan e soci. Motivi qualche volta oggettivi, qualche volta molto personali (…perché questo è il bello della musica: mettere insieme dati oggettivi su cui si può convergere in tanti e una profonda, personalissima emotività, unica ed irreplicabile per ciascuno di noi). Quindi ecco: nel provare a fare una piccola “guida interpretativa” all’ascolto di alcuni passaggi importanti della discografia dei Depeche, attività sicuramente consigliata per arrivare in forma alla release di “Spirit” nel 2017, sappiamo bene che in tanti, tantissimi potranno dire “No, ma non sono d’accordo” o “No, io la vedo decisamente in altro modo” e infine “No, non è così per un cazzo”. Ci sta. Ci sta eccome. Ma i Depeche Mode meritano una guida che provi in qualche modo a prendere posizione, che non sia solo una lunga parata elogiativa, che cerchi di trovare un filo rosso. La loro musica è talmente grande, forte, qualitativa, resistente nel tempo che può tranquillamente prestarsi ad un’analisi che provi ad essere un minimo incisiva, un minimo schierata.
Il nostro assunto di base? Ci sono alcuni dischi più importanti di altri, “True Reference”, perché aiutano meglio a capire dove sta e come si è costruita la grandezza dei Depeche; ce ne sono altri che seppur validi, seppur di successo, seppur pieni di momenti super, in realtà prestano il fianco ad una visione forse sfocata, forse non completamente corretta e nitida su quello che è il vero “spirito” dei migliori Depeche Mode (“False Reference”). In attesa di “Spirit”, insomma, proviamo ad esercitarci così (…e divertitevi poi voi a dire la vostra, trovando i vostri dischi “veri” e “falsi”).
TRUE REFERENCE
“A Broken Frame”, 1982
Il disco che segna una virata improvvisa, oscura, inquietante, che li porta lontani dal synth pop a presa rapida con cui si erano rivelati al mondo un anno prima, col loro album d’esordio. Una piccola rivoluzione: inevitabile, vista la dipartita di Vince Clarke (andato poi a fondare Yazoo ed Erasure) e la salda presa al potere di Martin Gore, prima considerato solo l’autore di riserva. Di sicuro qualcosa che, se ci fosse stata una major di mezzo e non l’indipendente Mute di Daniel Miller, sarebbe stata osteggiata se non direttamente bocciata: sì, un paio di singoli “simpatici” apparentemente simili alle marcette stile “Just Can’t Get Enough” c’erano, ma sia “See You” che “The Meaning Of Love” se le ascolta bene hanno una striatura blu, scura, inquietante. Striatura che diventa tono dominante nel resto dell’lp. Con vette forse mai più toccato dal gruppo in questo, in quanto ad asciuttezza: vedi “Shouldn’t Have Done That”. La conoscete? Se coi Depeche avete una frequentazione solo superficiale, solo legata alle hit, potrebbe anche sorprendervi.
“Black Celebration”, 1986
Il successo si era consolidato: con “Everything Counts” e “People Are People” (soprattutto la seconda, che aveva sfondato in quel mercato americano spesso schizzinoso coi fenomeni britannici) e il paio di album ad esse legati i Depeche avevano direttamente preso l’Olimpo del synth pop, non più band promettente ma sicurezze vere. Su cui rovesciare grandi aspettative. Una situazione scomoda, in cui si può reagire tentando di inserire il pilota automatico o invece alzando ulteriormente il rischio della sfida, col rischio di farsi male. Ecco, “Black Celebration” è esattamente la seconda cosa: il suono esce dall’alveo del synth pop (per quanto creativo, per quanto altamente qualitativo) per entrare in una dimensione nuova, più grandiosa e al tempo stesso più sinistra. Il grande successo di “Never Let Me Down Again” e di “Music For The Masses” è solo una conseguenza di quanto seminato da “Black Celebration” (dove fu geniale l’intuizione dell’ingegnere del suono Gareth Jones di trattare l’amplificazione dei sintetizzatori come se si dovesse registrare un organico amplissimo di strumenti tradizionali, utilizzando una sala di registrazione da big band o da orchestra sinfonica). Un disco nero nell’artwork e nelle atmosfere, psicologicamente violento, senza compromessi. Come del resto appare chiaro se si pensa che il singolo di lancio fu “Stripped”: rivoluzionaria ed inquietante nei suoni, cattivissima e morbosa nel testo. Oggi nessuno accetterebbe un pezzo del genere come singolo per una band con ambizioni pop. E che ambizioni.
“Playing The Angel”, 2005
Onestamente: a metà anni 2000 i Depeche avevano la stima e l’amore di tutti, ma sembravano sull’onda di diventare uno di quei gruppi-museo (…Rolling Stones, anyone? Ma anche Vasco in Italia) che ormai poteva andare nelle chart e negli stadi per forza d’inerzia, portando avanti ad aeternum concerti stile “101” (il loro primo, monumentale album live, anno 1989) inserendo giusto per onor di firma qualche traccia in scaletta presa dal lavoro del momento. Non che “Songs Of Faith And Devotion”, “Ultra” ed “Exciter” fossero state ciofeche, tutt’altro, sono comunque lavori di notevole spessore di un gruppo che cerca di re-inventarsi per non cadere vittima di se stesso (e forse anche delle proprie paranoie e dei comportamenti auto-distruttivi di ciascuno dei suoi membri: alcol e droga erano presenze pesanti, in quegli anni… molto pesanti), solo che per farlo ha bisogno di dibattersi in modo non sempre ben direzionato, effetto aumentato anche dal gonfiarsi del roster di produttori e turnisti assoldati per portare a termine il tutto. Insomma, massimo rispetto, ma per molti i “veri” Depeche Mode erano quelli già consegnati alla storia. “Playing The Angel” è invece una resurrezione: personale, per chi di loro stava finalmente vincendo contro i propri demoni, ma anche musicale, perché finalmente i Depeche Mode smettevano di agitarsi nervosamente alla ricerca di nuove direzioni sonore e tornavano ad essere se stessi; forse meno cupi e meno inquietanti del grande periodo anni ’80, ma ispirati tantissimo nella scrittura.
FALSE REFERENCE
“Speak & Spell”, 1981
L’album d’esordio. Quello che li ha massi sulla mappa, certo. Fosse andato male, magari ora Gahan farebbe l’impiegato e Gore il carpentiere e nulla sarebbe successo. Invece andò bene, benissimo per essere un disco d’esordio; ma infilò i Depeche Mode inizialmente nel grande e all’epoca inflazionatissimo calderone synth-pop, l’evoluzione per le masse della disco digitalizzata, qualcosa insomma di abbastanza “normale” ed “addomesticato”. “Just Can’t Get Enough” mette allegria, e pure (anche se un po’ meno) “New Life”: le si canta e le si balla saltellando volentieri ancora adesso. Ma lo spirito vero, la grandezza autentica dei Depeche Mode qua si intravedeva solo in lampi, non si era per nulla manifestata pienamente. Qui erano, per lo più, canzonette.
“Violator”, 1990
…e qua ci siete restati secchi in tanti, vero? Che ci fa “Violator” dalla parte dei cattivi? O almeno, diciamo, di quella dei meno buoni? E’ un disco bellissimo, sia chiaro, e contiene sicuramente alcune delle cose più belle che i Depeche abbiano mai scritto (“World In My Eyes”, “Enjoy The Silence”) oltre ad essere complessivamente un oggetto d’arte non solo per la musica ma che per il lavoro sull’immagine di Anton Corbijn; in generale, è facilissimo beccare gente per cui “Violator” è IL disco dei Depeche (anche per inni come “Personal Jesus”, che ancora oggi non manca in nessun dj set da circolo ARCI che si ripetti. Però ecco, nel tentare di trovare una nuova strada rispetto all’elettronica-da-stadio di “Music For The Masses” per come la vediamo noi i Depeche si impantanarono un po’: un po’ restando a metà del guado, un po’ legandosi troppo in qualche caso al suono-del-momento (il ritmo quasi house di “Enjoy The Silence”: all’epoca inflazionatissimo). Cosa che di per sé non sarebbe un male, anzi, sarebbe un bel segno di attenzione alla “musica che gira attorno”, ma a ben vedere era un primo segno di debolezza che annunciava il (semi)collasso di sicurezza in sé che stava arrivando, con una band che perdeva a partire dal successivo “Songs Of Faith And Devotion” e poi per un bel po’ di anni le proprie certezze (e, secondo noi, parte delle proprie grandezze). “Violator” è e resta un capolavoro: ma è quello in cui si vedono le prime crepe dopo uno stato di grazia. La forza iconica dei singoli che ne hanno fatto da biglietto visita non nasconde del tutto questa cosa.
“Exciter”, 2001
“Exciter” è il racconto di un’occasione persa. Che però probabilmente non poteva che essere tale. Sulla carta, portare un geniale sperimentatore del dancefloor e dell’IDM come Mark Bell degli LFO (che aveva dimostrato, con Björk, di poter funzionare anche nel pop di alta qualità) a fianco di Martin Gore poteva essere una cosa epocale. Invece la chimica sonora fra i due fu appropriata ma non, come dire?, magica. E’ un album elegante ed appropriato, “Exciter”, pieno di soluzioni interessanti; ma è probabilmente l’album dei Depeche dove meno viene valorizzata la loro grandezza “definitiva”. Basta prendere ad esempio uno dei singoli-guida, “Dream On”: la canzone di per sé è Martin Gore al massimo della forma, ma l’arrangiamento pieno di ricami e miniature preziose la addomestica eccessivamente, rendendola graziosa, bellina, bella, ma non sublime come avrebbe potuto essere. Una delle occasioni mancate di “Exciter”. Una delle tante. Ma considerando quanto volte Gahan era stato tirato via dalla morte per overdose in quel periodo, è già un miracolo si fosse ancora lì a parlarne.