Non è una figura semplice da inquadrare, Jovanotti. Sembra esserlo. Lo sembra per chi lo ama incondizionatamente (ne dirà tutto il bene possibile ed immaginabile), lo sembra per chi non lo sopporta (tirerà fuori un sacco di argomenti sulla sua inconsistenza artistica e sui suoi “peccati originali” targati Cecchetto). In realtà le cose da dire sono molte, le riflessioni da fare altrettante. Anche da parte nostra, di Soundwall, sì: perché piaccia o non piaccia – e nello stesso quartier generale nostro le opinioni sono sfaccettate – si tratta di uno dei pochi artisti italiani, se non l’unico, capace di radunare folle da stadio ma al tempo stesso di avere uno sguardo sulle scene musicali “altre”, quelle più interessanti, quelle più lontane dal pop addomesticato, quelle più vicine ad esperienze sentite e globali – come l’elettronica sa, deve o dovrebbe essere. Ecco allora il perché di questo lungo articolo, articolo che nasce dall’essere andati ad uno dei suoi concerti di questo tour negli stadi; ed ecco anche – andando dritti per dritti – una distesa videointervista che ci ha concesso. Per inquadrare il personaggio a trecentosessanta gradi: con le nostre parole, con le sue parole.
Damir Ivic.
Il 16 aprile del 2003, Michael Jordan gioca la sua ultima partita in NBA contro i Philadelphia 76ers di Allen Iverson. La maglia che indossa non è quella storica, numero 23, dei Chicago Bulls, ma quello molto meno riconoscibile degli ex Washington Bullets.
È una gara senza storia, si sa che i Wizards perderanno e che Jordan smetterà di giocare appena terminato l’ultimo quarto, eppure alla gente non interessa. Tutti sono lì per un motivo: avere un ruolo, anche se da comparse, in una delle storie sportive più affascinanti di sempre.
E mentre urlano a squarciagola il nome di Michael, lui se ne sta sorridente e sornione seduto in panchina pensando seriamente di salutare il basket con una grande beffa: “No, col cazzo che ve li faccio vedere gli ultimi momenti di Jordan su un campo”.
Nella sua carriera Jordan è stato amatissimo, ma anche odiatissimo. Non è mai stato considerato uno simpatico: i media non potevano non avere a che fare con lui, ma qualsiasi giornalista americano davanti alla domanda di una cena con Charles Barkley o Jordan avrebbe comunque preferito il primo. Jordan era un perfezionista pieno di vizi, puntava solo a vincere, vedeva competizione ovunque, voleva essere ricordato come il migliore, ma il migliore a modo suo.
Non so perché mi sono messo a pensare a Michael Jordan dovendo scrivere di Jovanotti, ma c’è stato un momento del trionfale e ampiamente discusso concerto di quest’ultimo allo Stadio Olimpico di Roma in cui il faccione di His Airness mi è tornato di colpo in mente.
Perché alla fine Jordan sul parquet c’è entrato, a due minuti scarsi dalla fine, si è fatto fare fallo, ha tirato e segnato i due liberi che gli hanno permesso di chiudere la sua ultima stagione in NBA con 20 punti di media a partita, e nel clamore generale è tornato a sedersi. La partita è andata avanti, ma nessuno la guardava più, gli sguardi erano tutti verso la panca. E Jordan voleva goderseli per bene. Lorenzo Cherubini chiude il suo concerto più ambizioso e autocelebrativo con Penso positivo, il brano che ancora spiega al meglio perché Jovanotti sia così ugualmente santificato e odiato. L’enorme maxischermo lungo come tutta la tribuna dell’Olimpico mostra il suo sguardo come se si trattasse di un film di Sergio Leone, poi l’inquadratura si allarga e appare un sorriso grande quanto il mondo e a cui viene spontaneo associare il sonoro di quella risata famosa come un logo. Quel sorriso è Jovanotti che si prende il suo personale “momento Jordan”: segna i suoi tiri liberi, fa impazzire la folla e poi si ferma a guardarla. Un tour negli stadi, praticamente sold out dalla prima all’ultima data, è un lusso che possono concedersi in pochi, e non solo tra gli artisti italiani; ma un tour di questo genere qua, ambizioso in ogni suo aspetto, per certi versi anche troppo, è davvero roba per pochissimi. Forse, nel nostro paese, solo roba da Jovanotti.
Lo stadio, si sa, è considerato il punto di arrivo massimo per ogni musicista rock o popstar degna di questo nome. Jovanotti non è rock, e per quanto sia una delle poche star del pop italiano a essersi conquistato sul campo la credibilità, per lo più partendo da uno svantaggio (Cecchetto, la DeeJay’s Gang, il marchio simbolo dell’usa e getta anni ’80), fa davvero specie vederlo riempire spazi da cinquanta/sessantamila persone. Per tutta una serie di ragioni, e la prima ha proprio a che fare su chi è Jovanotti e da dove viene: Lorenzo Cherubini ha cominciato come dj e dj è rimasto nell’animo, anche se fa le canzoni melense al pianoforte e altre dove rappa in un modo che fa tenerezza ma che è comunque solo suo. Ha la testa del dj, gli ascolti del dj e anche la capacità di sapere leggere il presente e capire dove andrà il futuro che dovrebbe essere tipica proprio di certi dj.
Il suo grande spettacolo celebrativo (25 anni di carriera) parte proprio da lì: da questo approccio alla vita e alla musica che lo rende diverso e lontano da tutto il resto del circuito mainstream italiano. Per questo quando uno come lui sceglie come apertura una band come i Tre Allegri Ragazzi Morti sai per certo non è questione di pose o imposizioni discografiche: Jovanotti dà l’idea di essere uno che ancora investe il suo tempo nelle cose che gli piacciono. Se chiama i vari Congorock, Benny Benassi. Ralf, Pink is Punk e Coccoluto, lo fa essenzialmente perché vuole dare un segnale, ricordare e ricordarsi da dove arriva. E poco importa se la gente preferisce cantare in coro Roma Capoccia piuttosto che ballare, o se i dj sono costretti a esibirsi sì in uno stadio ma con un volume da cameretta, l’importante è che ci siano anche se per il pubblico pagante e adorante contano poco o niente.
D’altronde Jovanotti è un atipico che fa gara a sé. Gioca in un campionato del tutto particolare dove spesso vince per mancanza di avversari, anche se la sua partita più lunga e difficile, quella contro il pregiudizio, sembra ancora lontana dalla fine. Per dirla con Fabio De Luca: “Jovanotti ci stava simpatico anche quando ci stava sul cazzo”, e questa frase che racchiude un mondo e un punto di vista può essere declinata nelle maniere più disparate.
Perché Jovanotti non faceva cagare anche quando faceva cagare. Sarà un fatto generazionale, non lo so, ma chi scrive aveva nove anni quando è uscito “For President” e pochi strumenti cognitivi per capire che quella roba lì era la versione brutta del rap old school e dalla Italo disco. “Quella roba lì”, a me figlio di genitori che ascoltavano i Pink Floyd e i cantautori, sembrava la rivoluzione. Il filo d’Arianna che andava seguito per arrivare ai Beastie Boys, ai Run DMC e i Public Enemy. E Jovanotti, a modo suo, resta rivoluzionario anche quando viene accolto nei salotti buoni, anche nel passaggio da simbolo dell’edonismo reaganiano a manifesto vivente del buonismo veltroniano, anche quando inciampa in dischi brutti, canzoni brutte e uscite infelici.
Jovanotti resta uno con una visione chiara, esplicita e in qualche modo anche troppo scoperta. È attaccabile sotto ogni punto di vista, ma è pure bravissimo a fare bene quello che fa.
È riconoscibile, eppure mai davvero uguale a se stesso, è popolare ma anche parecchio coraggioso (se ci pensate bene è uno che ha fatto un singolo interamente costruito su un loop di 808, un singolo “parlato” e neanche troppo catchy che è diventato un successo radiofonico incredibile), non ha una gran voce, ma è un performer di livello assoluto. Uno capace di portare nelle arene uno spettacolo grandioso e molto avanzato dal punto di vista tecnologico, mettendo comunque al centro di tutto il corpo. Il suo.
In passato mi è capitato, per lavoro, curiosità o semplice sprezzo del pericolo, di andare a vedere i megashow di altre superstar italiane e me ne sono sempre tornato a casa con l’idea di avere assistito a delle rappresentazioni perfette di cosa intendiamo quando ci rifugiamo nella frase fatta: “Vorrei ma non posso”. Come se il concetto labranchiano di trash come rappresentazione bassa di un momento alto fosse costretto a rivivere nelle pedane a scomparsa di Vasco Rossi o nel palco in stile U2 alla Ligabue. Con Jovanotti non accade niente di tutto questo, il suo show è uno show credibile, internazionale negli intenti e non solo nella realizzazione. L’uso dei visual, il modo in cui alcuni pezzi vengono riarrangiati con l’idea di creare un flusso continuo, senza pause, è più simile a un live di elettronica che a un concertone. Il suo riferimento sembrano volere essere più gli Underworld e i Chemical Brothers che Madonna, e davvero si fa fatica a trovare precedenti del genere nel nostro paese. Andare a vedere Jovanotti dal vivo è come andare al Sensational: puoi non essere un suo fan, non apprezzare la sua musica, ma non puoi non divertirti. Puoi tifargli contro, proprio come facevamo da ragazzi con Jordan, ma non puoi fingere di non capire perché la squadra che vince sia più o meno sempre la sua.