Fatima Al Qadiri non rilascia spesso interviste, e quando lo fa tira dritto al punto, lasciando fuori ogni discorso superfluo che non sia strettamente legato alla sua opera. Allo stesso tempo, mantiene un profilo molto basso, quindi capirete che quella che segue non è proprio una intervista “classica”, eppure ci sono diversi spunti di interesse, che vanno oltre le apparenze ed i confronti di natura estetica che potremmo fare tra la sua musica e quella, per esempio, di Holly Herndon e Matthew Herbert. Qui si va nel cuore della faccenda.
Mi piace pensare che la musica sia, nel campo dell’arte, l’espressione più facilmente fruibile da parte del pubblico, è la voce dell’artista che arriva diretta all’ascoltatore. Tu hai scelto di trasmettere, attraverso di essa, determinati temi sociali e politici. Ce ne vuoi parlare?
In Asiatisch ci sono molte cose dentro. Uno dei temi principali riguarda la villania della Cina, che monta, storicamente, tutta una serie di viscidi stereotipi che vengono poi diffusi nel mondo dalle potenze occidentali e dai media, ed è una situazione che va avanti ancora oggi. Per Brute invece sono partita dall’ordinario. A causa di un incidente sono stata costretta a letto per un mese. Potevo solo guardare i notiziari in tv e giocare ai videogiochi. La rabbia e la disperazione sono salite in superficie, giorno dopo giorno.
In una recente intervista hai dichiarato “music is a kind of ghost, it’s about conjuring memories, apparitions, something that reminds you of your past”. E’ una definizione affascinante, che suggerisce molto della tua storia. Sei nata in Senegal, cresciuta in Kuwait e, dopo una serie di spostamenti in Europa, vivi negli USA. Questo bagaglio di esperienze si sente in musica e la rende più intellegibile. E’ un tema che ti interessa questo della possibilità di raccontare la tua vita attraverso la musica?
Si. Entrambi i miei genitori sono narratori e mi considero un’erede di questa tradizione, a mia volta proseguo il racconto.
Senza scomodare l’“Orientalismo” di Edward Saïd, vorrei chiederti com’è la tua percezione del Kuwait oggi, visto che ci sei vissuta quando tutto era diverso.
Un paese assume significati diversi a seconda di chi è l’osservatore. Il tempo è una linea indecifrabile. L’evento che più di tutti ha destabilizzato l’area è stata l’invasione del Kuwait nel 1990. C’è un Kuwait pre-bellico ed uno post-bellico. Tutto è cambiato dai tempi in cui ero una bambina.
Ne abbiamo parlato approfonditamente in un nostro recente speciale. Lo sai che in pieno Illuminismo Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert sosteneva che la musica strumentale non parla né allo spirito né all’anima? Si era posto il dilemma di come si possa dedicare la vita alla produzione di un’arte fatua. Invece siete qui a smentirlo, in tempi recenti perlomeno tu, Holly Herndon e Matthew Herbert, solo per citare i primi che mi vengono in mente.
Penso anche a tanti, tanti pezzi classici e popolari della musica di tutto il mondo che sono essenzialmente strumentali eppure collegati, direttamente o indirettamente, a questioni sociali e politiche. Sarebbe come dire che il cinema parla all’anima mentre la fotografia è fatua. Trovo che certe posizioni creino, nel migliore dei casi, ilarità.
Oltre alla musica che produci con il tuo nome, fai parte dei Future Brown e lavori anche con il collettivo artistico GCC che ha già esposto a Berlino, Copenhagen, Londra, Milano e New York.
Alcune persone riescono a lavorare in 3 posti diversi e anche trovare il tempo per crescere i loro figli, è questo il mistero più grande. Essere musicista e fare parte di un collettivo artistico, in paragone, è una cosa molto semplice da gestire.
Tornando al tuo ultimo disco, “Brute”, il suo ascolto trasmette un senso di precarietà e inquietudine, ha un’architettura sonora che potrei definire “orwelliana”. Ci racconti il processo di campionamento sulle voci delle guardie? Sembra di essere in un film di Carpenter.
Molti musicisti sognano di realizzare colonne sonore per film che non esistono. Brute è esattamente questo. Per i campionamenti ho fatto ricerche su internet e li ho dosati per realizzare il contesto giusto e dare al disco l’umore che mi interessava.
La copertina, pur nella sua ironia, è agghiacciante. E’ un dettaglio dell’opera “Po-Po” di Josh Kline (un teletubbies vestito da agente SWAT) rielaborata da Babak Radboy, giusto? Parlaci di questi due artisti che hai coinvolto nel tuo lavoro.
Entrambi sono miei amici e collaboratori. Josh ha utilizzato un mio brano per sonorizzare la sua istallazione avente il tema della libertà, che conteneva anche “Po-Po”. Quando vidi dal vivo questa scultura avevo scritto solo metà album, ma già compresi che era quella la figura che avrei utilizzato come controparte visiva. Entrambi stimiamo molto Babak come art director e quindi fu la nostra prima scelta l’affidargli la realizzazione della copertina.
Hai già in mente qualcosa per il tuo prossimo futuro?
Non voglio portare sfortuna al futuro. Accadrà presto.
English Version:
Fatima Al Qadiri not often takes interviews, and when she does, she roll straight to the point, leaving out any unnecessary speech not connected to his work. At the same time she keeps a very low profile, then you will understand that what follows is not a “classic” interview, but there are several points of interest, which go beyond appearances and aesthetic comparison between his music and that one, for example, by Holly Herndon and Matthew Herbert. Here we go in the heart of the matter.
I believe that music is the most straight expression in art, it’s a voice that reaches directly the listener. You decided to express through it certain social and political themes. Would you tell us something more?
One of the main themes of Asiatisch was the villainizing of China, creating a vicious set of stereotypes that were spread throughout the world by Western powers & media historically and still to this day. The process behind Brute was unremarkable. I was injured and could not walk for a month. I could only watch news and play video games. Anger and despair rose to the surface.
In one of your recent interviews you said “music is a kind of ghost, it’s about conjuring memories, apparitions, something that reminds you of your past”. It’s an interesting description, that suggests much about your story. You were born in Senegal, grew up in Kuwait and, after many movements in Europe, you live in the United States. This wealth of experiences is impressed in your music, and makes it more intelligible. Is this something that interests you? I mean the chance to tell your story through music?
Yes. Both my parents are storytellers and I see myself continuing that tradition.
Without resorting Edward Said’s “Orientalism” I would like to ask you about your perception of Kuwait today, while you lived there when everything was different.
A country is many things to different people. Time is a strange line. The major seismic event was the invasion of Kuwait in 1990. There is a pre-war and post-war Kuwait. Everything changed since my childhood.
We made a special article about this topic. Do you know that the Enlightenment philosopher Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert claimed that instrumental music speaks neither to the spirit nor the soul? He placed the dilemma how a life could be dedicated to the production of a fatuous art like instrumental music. Instead you’re here to prove something different, in recent times at least you, Holly Herndon and Matthew Herbert just to name the first ones that come to mind.
I think even about many many classical and folk pieces of music around the world that are purely instrumental, that have engaged directly or indirectly with social and political issues. It’s like saying that cinema speaks to the soul but photography is fatuous. I find boundaries to be amusing at best.
Besides the music that you produce with your name you are a part of Future Brown and even of the GCC artistic collective that has already exhibited in Berlin, Copenhagen, London, Milan and New York.
Some people manage to work 3 jobs and raise children, that’s the greater mystery. Being in a music group and art collective is no major feat of time management.
Back to “Brute”, listening the album I felt a sense of insecurity and anxiety, it has a sound architecture that I can define “Orwellian”. Tell us about the sampling process on the guards voices. It’s like to be in a Carpenter film.
Many musicians dream of creating soundtracks for films that don’t exist. Brute is exactly that. I searched the Internet for samples but used the minimum to establish mood and context.
The album art, even in its irony, is unsettling. It’s a detail of the sculpture “Po-Po” by Josh Kline (a teletubbies dressed like a SWAT agent) altered by the art director Babak Radboy. Tell us something about these two artists involved in your work.
Both are friends and collaborators. Josh used another piece of music of mine in his installation of Freedom, which “Po-Po” was part of. When I saw the sculpture in person and was halfway through the record I realized I wanted this image. We both respect Babak very much as an art director and he was our first choice to create the cover.
Do you have already in mind something for the future?
I don’t want to jinx the future. It will happen soon enough.