Per qualcuno un fulmine a ciel sereno, per altri più informati una cosa che si sapeva da un po’; ma per tutti, una perdita. Una delle serate più longeve d’italia, la napoletana WOO!, per volere del suo primo motore aristotelico Augusto Penna cessa di esistere. Lo fa in grande, grandissimo stile: con una edizione finale dalla line up spaziale – un mini festival praticamente – fatta di 12 artisti, 10 ore di musica, 3 sale. Nell’immagine sotto potete vedere di che si tratta: ci sono davvero i nomi che hanno fatto la storia di WOO! (e, in più di un caso, proprio del clubbing globale). È bello che un appuntamento finale non sia un mesto addio in minore, ma la festa più grande di sempre. La dice lunga sull’energia di WOO!. Un’energia che non deve andare persa, ma il fatto che si sposti su altro la dice lunga (anche) sulle difficoltà e sui cambiamenti che sta attraversando l’ecosistema del clubbing. Con Augusto Penna – una persona con cui è sempre interessante e puntuto confrontarsi – abbiamo fatto una lunga chiacchierata che tocca molti argomenti importanti. Le dinamiche in evoluzione, le (finte) amicizie tradite, le prospettive, gli entusiasmi, le nuove belle creature come Edita (e i suoi party al Pike’s). Ed anche, massì, le salumerie. Buona lettura; e per chi geograficamente può, la serata finale del 7 ottobre è semplicemente imperdibile.
Fermarsi è una sconfitta o una scelta consapevole e ponderata? E soprattutto: lo sai che qualsiasi risposta tu mi dia, ci sarà sempre chi dirà “Balle, si ferma perché non ce la fa più”?
Assolutamente una scelta ponderata, di un quasi cinquantenne che per certi versi non ce la fa più. Mi spiego: WOO! è mio figlio (chiaramente figlio anche di Raffo, ma Raffo è entrato in ballo alcuni anni dopo) e per il proprio figlio si vuole solo il meglio. E’ nato 15 anni fa come costola di Electrocasbah, con l’idea di essere un party per 200 persone che non si sapeva quanto sarebbe durato. Non lo dico per scherzo, è davvero così. E’ diventato pian piano un party grosso, si è ramificato a Berlino, a Londra, a Ibiza, abbiamo lanciato artisti che sono diventate vere e proprie star. Tutto sempre però con lo spirito del gruppo di amici che ballava la musica che amava, che sperimentava, che se ne fotteva di regole e dinamiche che pian piano iniziavano a nascere. Siamo stati gli unici o quasi a rispettare ciò che da molti era stato annunciato durante il Covid: i famosi proclami di tornare alle origini, di non lavorare con artisti mainstream, noi li abbiamo ampiamente rispettati. E chiaramente abbiamo dovuto combattere. Quando punti su Leo Mas, Farfa, Curses, Von Oswald, Roman Flugel, Stereocalypse solo per citarne alcuni, e non peschi nei roster delle mega agenzie perché ti rifiuti di partecipare alle sempre più sfiancanti aste che nulla hanno a che fare con tutto quello per cui abbiamo iniziato e amato fare questo mestiere, fatichi eccome. Abbiamo lasciato andare alcuni artisti che, come si dice oggi (detesto questo termine), ci facevano “sbigliettare” proprio per non partecipare a queste aste. Abbiamo sbagliato? Forse sì, ma siamo sempre stati sereni e non so quanti colleghi possono dire lo stesso. E quindi per quanto è sacro WOO! la decisione andava presa. E devo dire che Raffo sebbene sia più giovane e scalpitante ha la stoffa del vecchio “capatoneta” e ha capito che questa scelta aveva senso. Troppa fatica di portare avanti un’idea, una missione, con l’ansia che di qui a poco con ogni probabilità si sarebbe contaminato. Non dimentichiamoci che noi non abbiamo mai avuto un club nostro, siamo sempre stati itineranti, spesso inventandoci location del tutto inusuali. 15 anni sono un viaggio lungo e come dice un mio amico celebre dj sono davvero pochi i party che superano i 10 anni. Per cui dobbiamo essere orgogliosi. Rispetto alla seconda parte della domanda, il “si ferma perchè non ce la fa più” può dirlo solo qualcuno che non mi conosce bene o che non si è accorto che già sono ampiamente in azione. Edita, la neonata label che rivisita pezzi ’80 e ’90 (ma non sarà una regola) che abbiamo aperto con Stereocalypse ha già sfornato due releases fortunatamente molto supportate da vari artisti e con ogni probabilità, visto il successo del party di lancio dell’etichetta di mercoledì scorso al Pikes, diventerà anche un party. Con Edita non sento alcuna pressione, e rispecchia di più i tempi che corrono. Non c’è bisogno di fare la gara ai grossi nomi, è un format più semplice e frivolo e probabilmente – passami il termine – anche più commerciale. Chiaramente la musica di spessore è sempre alla base di tutto: non a caso l’opening al Pikes lo ha fatto un certo Leo Mas, che ha fatto un set incredibile pieno di perle 84-87 che tutto erano tranne che commerciali. Ma se poi ho voglia di mettere una edit di “Hot Stuff” e far cantare la gente (nella vecchiaia mi diverte molto mettere i dischi) o se Enrico (Stereocalypse) sgancia “Smalltown Boy” o se Curses passa un Depeche Mode e tutti, oltre che ballare cantano per un paio di pezzi, non mi sento di aver tradito ciò da cui provengo e per cui ho lottato. E’ una cosa nuova proposta per quello che è. E chiaramente la mischiamo come detto con roba di profilo.
Qual è il ricordo più bello di tutti questi anni di WOO?
Più che un ricordo sono molti ricordi simili. Ogni volta che abbiamo fatto un party a Berlino, a Londra, a Ibiza, abbiamo praticamente riempito gli aerei da Napoli (oltre ad amici che venivano da altre città), e vedere tanti amici dai 20 ai 60 anni (come diceva il buon Dixon in una chat con un altro dj dopo aver suonato da noi qualche anno fa “Only at Woo! I see people of all ages dancing all night long“) fare dei sacrifici per seguirci ancora mi fa venire i brividi. Cosa che è successa anche mercoledì scorso per il lancio di Edita, devo dire.
Parlando invece di cose meno romantiche, quanto sono cambiati il mercato e l’industria del clubbing in questi anni, dalla nascita di WOO! ad oggi?
Lo sai meglio di me: drasticamente. I dj sono diventati delle star e l’industria che un tempo era sui live si è fiondata su di loro, creando un mercato per vere e proprie popstar con relativi fee da popstar. L’Italia, inutile prendersi in giro, è rimasta molto indietro in termini di club veri e propri. E solo i club seri avrebbero potuto supplire a questo cambiamento. Nel senso che se un club fosse una scatola perfetta con un soundsystem perfetto, aperto fino alla mattina etc etc, forse un bel po’ di gente sceglierebbe di andare ancora a sentire cose nuove e non di dedicarsi solo ai grossi eventi con i grossi nomi. Ma ahimè non è così. I club buoni in Italia si contano sulle dita di una mano e comunque c’è sempre qualcosa che manca rispetto ai club di altri paesi, ragion per cui in molti decidono di risparmiare qualche soldino e farsi weekend prima a Berlino, oggi sempre più in Est Europa dove ci sono scene che la nostra se la mangiano. In questo marasma e approfittando di questo vuoto l’industria ha creato queste star dj che costano un botto e quindi suonano in grossi eventi, speso messi su proprio dalle grosse agenzie e non più da promoter, soprattutto all’aperto, in cui il 70% delle persone non va nemmeno per la musica (e mi sono tenuto largo). Inutile ripetere sempre che alla fine non balla nessuno o quasi, e sono tutti videomaker che girano video identici ai loro vicini per poi creare post identici che si differenziano da quelli degli altri solo per il faccione che compare alla fine, quello del proprietario del telefono, che saluta i propri followers.
E invece, spostando l’attenzione dal business al dancefloor: sono cambiati i clubber?
E’ chiaro che cambiando il modo di proporre la musica cambia anche il modo di percepirla e ballarla, o non ballarla appunto ma ascoltarla, filmarla etc. Ma è tutto cambiato, a partire dai dj. Tu giovane che si avvicina al mondo del clubbing, che faresti se vedessi che il dj che sei andato a sentire mentre suona sta col telefono in mano a filmare e con la cuffia appoggiata su un cdj perchè tanto conosce a memoria il set mensile che sta portando ogni sera in giro per il mondo? Chiaramente ci sono fortunatamnete eccezioni sia tra i dj che tra i clubber che tra i promoter: quelli che io chiamo la resistenza, e di cui ho fatto parte anche io fino a oggi e di cui vorrei continuare a fare parte, magari più in ufficio (ride, ndi). Che poi chi mi conosce dice che in “ufficio” durerò ben poco. Comunque in Italia ci sono realtà in cui si percepisce ancora la sola e forte voglia di ballare, ma sono pochissime: una a Napoli, una in Veneto, una a Genova, una in Puglia, se arriviamo a 8 in un paese che è stato la culla della musica house prima e techno dopo, la cosa fa abbastanza strano.
Non voglio nomi, mi interessa il racconto e i motivi: in tutti questi anni di Woo!, ci sono mai stati degli artisti che ti hanno deluso umanamento e/o artisticamente?
Ce ne sono un bel po’ ma sempre perché io finivo col vedere questo lavoro in modo sbagliato. Ho sempre dato tutto me stesso, come nell’amicizia, pensando appunto che alcuni di loro potessero divenire amici; e alcuni di loro devo dire la verità si sono anche venduti benissimo come tali, fino poi a rivelare la loro vera indole. Cosa intendo? Chi si è perso per pochi spicci (parliamo di gente che guadagna fior fior di soldini) mettendomi in mezzo alle famose aste. Chi ha finto di cadere dal pero e di non sapere che non lavoravo più in quel club. Chi ha totalmente stravolto il proprio modo di suonare andando in direzione technoreggaeton e non ha apprezzato la mia proverbiale sincerità. E cosi via.
Chiusa una porta, se ne aprono mille altre: quali sono i tuoi prossimi progetti in cantiere?
Di Edita ho già parlato. Mi piacerebbe suonare, o meglio un pochino lo sto facendo e mi piacerebbe farlo un pochino di più. Nella vecchiaia sto comprando tanto vinile, cose vecchie soprattutto, e mi piace suonare sia in vinile che in digitale. E pensare che per 20 anni ho fatto il promoter e non ho mai voluto suonare alle mie feste (ride, ndi). E a dicembre esce il prequel di “FATTI.FUMMO”: sarà il mio secondo romanzo, un po’ più tosto, autobiografico, per cui mi dedicherò alla passione per la scrittura inculcatami da Irvine Welsh. Poi c’è il festival da rimettere su. E poi chissà: magari mi apro una salumeria, una cosa che ho sempre sognato fare.