Milano ogni tanto diventa insopportabile per la retorica hipster di cui ultimamente (troppo) si ammanta, ma è anche la città dove le cose “succedono”, e spesso succedono bene. Il primo grande appuntamento musicale in città non solo ha avuto una location straordinaria – il Castello Sforzesco, simbolo cittadino – ma è stato anche affidato ad una delle crew che ha fatto la storia del clubbing in città, ovvero Le Cannibale. Ha fatto la storia, sì, ma ha sempre dimostrato curiosità intellettuale, voglia di prendersi dei rischi, capacità di riadattarsi, coraggio di puntare anche sullo spessore intellettuale e non solo sul divertentismo da dancefloor: insomma, un palcoscenico come quello del Castello Sforzesco se lo è meritato eccome e a Milano, per fortuna, un certo tipo di meritocrazia è più presente che da altre parti d’Italia. Albert Hofer e Marco Greco, i due deus ex machina dell’organizzazione, unendosi ai partner perfetti quando organizzano “incroci pericolosi” con la classica, ovvero Associazione Saturnalia, hanno ripagato questa fiducia con una scelta davvero illuminata: Federico Albanese, uno dei talenti emergenti a livello globale della “nuova classica” (anche se a lui questa definizione va sempre più stretta: vedi comunque alla voce Nils Frahm, Olafur Arnalds, ma anche ovviamente Ludovico Einaudi), musicista richiestissimo ormai in tutta Europa e non solo. In realtà lo stesso Albanese è rimasto sorpreso da questa scelta, e nella lunga chiacchierata che potete leggere qui sotto ci ha raccontato pure questo. Ma a dire il vero di concetti interessantissimi ne sono saltati fuori veramente tanti: in primis su Berlino e sul senso di trasferircisi, poi sul suonare da soli o in collettivo, sulla techno, sul nuovo it-pop di casa nostra visto “da fuori”, su come gestire il proprio set up quando si va a suonare live e molto altro ancora. Buona lettura. E tenete d’occhio quanto fa Le Cannibale: stasera 17 luglio secondo appuntamento al Castello Sforzesco, scoprite qui di cosa si tratta (vale lo stesso naturalmente anche per Associazione Saturnalia, realtà più piccola e con meno storia ma in crescita). Torniamo però ora a Federico, e ad un’intervista nata constatando quanto sul palco lui sembrasse veramente, sinceramente emozionato nel momento in cui si è messo a parlare col pubblico, raccontando in diretta le sensazioni che stava provando…
Sai che a vederti dalla platea sembravi davvero un po’ emozionato, lì sul palco?
Semplicemente: lo ero. Quello che hai visto, quello che mi hai sentito dire quando mi sono messo a parlare con il pubblico, era assolutamente sincero.
Anche se ormai sei abituato a suonare in venue grosse, di prestigio, in giro per il mondo…
Sai cosa? Io non mi aspettavo di essere lì, su quel palco. Zero proprio. Quando è successo quello che è successo, con la pandemia, il lockdown, eccetera, io mi ero molto banalmente messo nell’ottica di non poter riuscire a fare alcunché per tanto, tanto tempo. Anzi, di più: avevo proprio iniziato a pensare a come adattarmi e come cambiare direzione lavorativa, concentrandomi magari sui lavori per commissione, le colonne sonore, le sonorizzazioni per teatro, cose così – tutti campi che in realtà già percorro, ma forse era il caso di concentrarsi davvero su di essi come mai prima, proprio per necessità. Perché sai: pubblicare un disco e poi non poter andare in tour per suonarlo è per me qualcosa di difficile da accettare. Faccio fatica a concepirlo, proprio come idea, come principio. Non lo so, magari ciò che accadrà nel prossimo futuro mi costringerà a cambiare modo di pensare, ma al momento io non posso rinunciare ad andare subito in giro a suonare, a fare concerti, nel momento in faccio uscire dei dischi. E questo per un motivo anche molto diretto e concreto: io quando viaggio, quando incontro persone, quando entro in contatto con realtà diverse, traggo parecchia ispirazione. Davvero: la mia ispirazione nasce soprattutto mentre sono in viaggio, non tanto quando sono in casa. Comunque ecco, tornando a stasera, a questa data milanese: non me l’aspettavo minimamente. Ero già in Italia, per i fatti miei. Ho ricevuto una telefonata, subito con la proposta… e anche questo è strano, sai, perché di solito si fa tutto nella maniera canonica, tramite agenzia, eccetera. Insomma: mi sembrava tutto un po’ surreale. Perché credimi, per lo stato d’animo in cui stavo mi ero già messo il cuore in pace sul fatto che per tanto, tanto tempo non sarebbe stato possibile suonare dal vivo. E invece…
Questa chiamata ti è arrivata direttamente da Le Cannibale?
Sì.
Li conoscevi già, loro?
No.
Quindi tutto ancora più inaspettato.
Non solo: un concerto, e per giunta a Milano. Nella mia città! Dove però ho suonato pochissimo negli anni: solo un concerto vero a Santeria nel 2018 e poi un piccolo showcase a Linecheck, mi pare sempre nello stesso anno. Basta. Ma in generale, devo dire che in Italia ho suonato pochissimo nell’ultimo decennio. E quindi se mai avessi dovuto pensare che riprendevo a fare concerti, sarò sincero, mai avrei pensato sarebbe successo con l’Italia. Per giunta nella mia città, Milano.
Invece non solo Milano, ma una location incredibile come il Castello Sforzesco.
Sì! Capisci? Surreale! Quando ho capito che questa cosa era vera, reale, ho iniziato – come dire? – ad auto-fomentarmi, con un’emozione ed un’attesa che iniziava a crescere giorno dopo giorno. C’era un problema, peraltro: non avevo con me la mia strumentazione solita, per i live. Era rimasta su a Berlino. Farmela portare o spedire era impossibile per vari motivi, anche perché lì ci sono cose molto delicate, strumenti auto-costruiti. Mi sono quindi dovuto arrangiare con quello che c’era: ho comprato al volo un sampler appena prima della data, mi sono fatto prestare un iPad, ho chiesto un paio di cose in più alla produzione da procurare e mettermi lì sul palco, di modo da ricreare più o meno un ambiente simile a quello che uso di solito… simile, sì, ma ovviamente non identico – non poteva esserlo. Chiaro che quando non sei con ciò che usi di solito ti senti un po’ meno libero, con meno certezze; ma al tempo stesso, tutto ciò stava diventando una sfida in più, rendendo il tutto ancora più intrigante.
Quindi ok, c’era il fomento, c’era l’emozione: perfetto. Il paradosso però è che la tua musica si gioca molto sul controllo, sugli equilibri. Quanto è stato difficile mantenerli stasera a Milano? Di più, quanto è difficile mantenerli in generale?
Senti, è praticamente impossibile. Perché alla fine sempre, e dico sempre, quando suoni ti fai trasportare dai pensieri e dalle emozioni, questa è la verità. La musica produce emozioni sia in chi ascolta che in chi la suona. Ogni tanto è proprio il pianoforte a “parlarmi”: mi obbliga in qualche modo ad allungare pezzi che invece, di loro, dovrebbero durare di meno.
Insomma, c’è sempre una buona componente di improvvisazione nei tuoi live.
Ci sono alcuni pezzi che per forza sono più strutturati, strutture da cui è più difficile evadere: perché a dettarle sono le macchine, i computer. Ma in molti casi brani che su disco sono molto “inquadrati” e molto costruiti sull’architettura proposta dal digitale, quando li propongo dal vivo vengono invece riarrangiati ed alleggeriti di questa componente legata alle macchine, di modo da renderli più liberi, più modificabili sul momento. Poi sai, c’è anche la componente ambientale. Prendi oggi: c’è una traccia che ad un certo punto ho allungato e l’ho portata giù come ottave e come frequenze, ed è una cosa che non ho fatto mai prima, ma stasera il pianoforte aveva delle note basse che suonavano davvero in maniera bella, almeno sul palco, e ho voluto appoggiarmi di più su di esse. Quando con lo strumento “giochi” in questa maniera, diventa tutto più appassionante.
A proposito di “gioco”: la tua carriera ormai è una cosa seria, non è certo più un gioco. Sei un artista, penso di poterlo dire, di considerevole importanza. Ma parlando appunto di carriera – anche se so che è un termine brutto, non particolarmente poetico – tu in che fase sei di essa?
Onestamente? Non lo so. Penso di essere in un punto in cui… Guarda, mettiamola così, penso di non aver ancora trovato davvero la “mia” voce. Non ho l’assoluta certezza che la strada seguita finora sia stata quella perfettamente giusta. Quanto ho fatto finora mi piace, attenzione, e sono fiero della musica che ho creato in questi anni. Non posso non constatare che il mio lavoro e la mia creatività mi hanno permesso una crescita professionale molto importante. Questo sì. Ma oggi sento un’esigenza forte: uscire da una “comfort zone”.
(continua sotto)
Una “comfort zone” che è in qualche modo a rischio, ad essere cattivi: perché tutto questo filone della “nuova classica”, della musica “gentile” per pianoforte, di cui tu in linea di massima fai parte, è diventato un po’ maniera. Ed è diventata anche una via molto facile per fare numeri, vedi i play su Spotify.
Vero. Ed è da questa cosa che cerco di distaccarmi il più possibile. Anche se magari sono in minoranza e anche se non è a prima vista una mossa molto intelligente, almeno dal punto di vista del business. Perché sì, inutile girarci intorno: oggi il grosso del business si basa esattamente su quanti play riesci a tirare su via Spotify o simili. Le label ti mettono sotto contratto solo se vedono che stai funzionando bene lì, sugli streaming, e per bene intendo milioni di ascolti. Io sono stato molto fortunato di essere finito in questo filone e di aver di conseguenza pure fatto numeri notevoli, ma non è un mio obiettivo restarci ad ogni costo ed adattarmi ad esso. Anzi. Questo perché in quel determinato contesto musicale credo che negli ultimi tempi ci sia davvero una montagna di materiale che è, semplicemente, derivativo. Io non so fino a che punto sia Spotify stessa ad alimentare questo fenomeno, in quanto improvvisamente c’è un numero enorme di artisti che fanno più o meno questa musica qui, gente venuta fuori dal nulla. Non so, guarda. Tutti a fare la stessa cosa: il pianoforte col feltro, col suono che si fa “morbido”, magari qualche piccola aggiunta di suonini digitali… il pattern è sempre lo stesso. Io non sono mai stato un grandissimo fan di questo tipo di musica; mi piace ovviamente, ci trovo anche delle cose interessanti, cose belle, brani che resteranno nel tempo, ma se tutto questo diventa maniera, beh, forse è il caso di iniziare a tenersene lontani, o almeno di fare attenzione. In questo mare di sovraproduzione di musica di un certo tipo è diventato tutto più nebuloso, è sempre più difficile cogliere la qualità. E’ che a prima vista suona tutto molto piacevole: basta appunto andare di feltro, piazzare una melodia facile ma che suona bene, prima un do poi un sol e vai con le armonie in maggiore… E’ gradevole, suona gradevole, come no, chi lo nega. La gente senta questa musica e non skippa, la lascia lì. Del resto, la capisco: torni a casa stanco dal lavoro, vuoi rilassarti, cerchi su Spotify una playlist dove ci sia scritto “Chill Out” o qualcosa del genere, e questo è quello che ti arriva. E a te può anche andare bene, lì per lì.
In effetti.
Io non voglio entrare in quel filone. Poi, se mi ci mettono, per carità, ben venga: non è che inizio a lamentarmi e a dare di matto, anzi, in fondo questa cosa qui dà da mangiare a molte persone me compreso e ben venga. Ma non è questo il posto dove voglio stare, come musicista. Voglio uscire da ogni “comfort zone”. In fondo, anche stasera è stato un po’ così nel momento in cui ho deciso di suonare senza il mio set up abituale, senza il “vascello” che abitualmente mi accompagna tra macchine e microfonature. Un po’ di tempo fa ho fatto un concerto incredibile alla Philarmonie di Amburgo, accompagnato da un quartetto d’archi: né io né gli archi eravamo microfonati. Questa, chi suona certe cose lo sa, è una sfida enorme, pazzesca. E io me la sono goduta. Perché sono queste le situazioni che ti fanno crescere davvero. Preferisco crescere facendo operazioni di questo tipo, che scalando le classifiche delle playlist e macinando milioni di stream.
Ti sei mai chiesto come mai è successo proprio a te di entrare nel filone giusto e diventare un artista dai numeri altissimi?
Credo sia stato un insieme di fattori. Io faccio musica da quando avevo vent’anni, ora ne ho trentotto: sono quindi diciotto anni che lavoro, che provo, che vado, che faccio, che mi butto. Spendo una marea, ad esempio. Ma fin dall’inizio, eh: tutti i soldi guadagnati lavorando come cameriere, nei primi anni, li usavo subito per comprare pedali, effetti, schede audio. Per non parlare del mare di tempo speso ad incaponirmi nel conoscere e capire a fondo come funzionano certi programmi audio. Sono così da sempre. Quando ancora ero al liceo già facevo dei bizzarri esperimenti in cui, coi primi software più o meno rudimentali tipo Acid, remixavo pezzi di Beethoven e facevo cassettine, che poi regalavo ai miei amici. Insomma, la musica è sempre stata la mia vita. Tutto ciò che è arrivato poi è solo una naturale conseguenza, unendo naturalmente una componente fondamentale – ovvero la fortuna. E’ la fortuna quella che ti permette di essere sempre nella condizione, in un modo o nell’altro, di poter continuare a coltivare questa passione e portarla avanti, non mi sono mai infatti trovato nella condizione di dover smettere per forza, di essere messo con le spalle al muro, cosa che invece per motivi di vita, lavoro o salute ti può succedere, per quanto forte possa essere la tua passione. Sì: sono stato fortunato. Poi di mio posso dire che sono sempre stato una persona piuttosto intraprendente, mi sono sempre sbattuto, ho sempre fatto di tutto per guadagnare qualcosa da poter però subito reinvestire nella musica. Non ho mai smesso di coltivare il mio sogno: che è quello di poter vivere facendo il musicista.
In questo, che ruolo ha giocato il trasferimento a Berlino?
E’ forse la cosa che mi ha aiutato di più in assoluto.
Ah, allora è vero: Berlino funziona.
Con me, ha funzionato. A me ha fatto molto bene. Non so se vale per tutti; per me, sì. Quando sono arrivato a Berlino mi si è decisamente aperto un mondo davanti. Sono arrivato lì nove anni fa, anche se già nei due anni precedenti ci capitavo abbastanza spesso, e devo dire che fin dall’inizio ho capito che lì succedevano cose che in Italia, semplicemente, non c’erano e non succedevano (e che nessuno conosceva). Ho visto concerti assurdi, bellissimi, praticamente tutte le sere; mi sono fatto una cultura musicale pazzesca. In più, fin da subito ho iniziato a conoscere persone molto interessanti, che mi riempivano di stimoli e di suggerimenti. Insomma, sentivi davvero che la città “vibrava”. Che era un posto dove le cose succedevano davvero. Ho conosciuto presto Hauschka, che allora era ancora agli inizi; Dustin O’Halloran, che pure lui si era trasferito lì da dove stava prima; Francesco Donadello, che anzi è stata una delle prime persone che ho contattato una volta che mi sono trasferito “Oh, Fra, ci vediamo? Ci beviamo una birra insieme? Così mi dici come va, che stai facendo? E magari posso darti una mano su qualcosa?”. Insomma: mi sono buttato. Ma nel buttarmi, ho trovate davvero tante persone pronte ad accogliermi, ad ascoltarmi, a consigliarmi. Il risultato è che in breve tempo ho trovato un manager, poi una etichetta discografica che apprezzava davvero quello che facevo. Mi si è aperto un mondo, in pochissimo tempo.
Si può dire che una dinamica di questo tipo, per un musicista italiano, è più facile da trovare a Berlino – e magari non solo a Berlino – che in patria?
In assoluto non te lo saprei dire. Perché in Italia, se sei bravo a fare le canzoni, il cantautorato, ad un certo punto le cose iniziano ad ingranare.
Ora, ingranano. Ma è un fenomeno recente. Prima, se partivi dalla scena indipendente in quella restavi, ed era veramente una nicchia.
Prima di trasferirmi qua, quando avevo il progetto a due La Blanche Alchimie assieme a Jessica (Einaudi, NdI), comunque giravamo. Facevamo apertura ai gruppi importanti di quegli anni come Offlaga Disco Pax, Marta Sui Tubi, Teatro Degli Orrori.
Ok, ma non erano grandi numeri.
Però c’era un bel fermento, lo percepivi. Poi sì, ad un certo punto la scena indie (o almeno, una parte di essa) è esplosa è diventata il nuovo pop; ma devo ammettere che non capisco tanto questa cosa. Nel senso: non sono in grado di giudicare bene. Non è la mia cosa. Anche se hanno avuto in qualche caso una crescita fenomenale.
Che ne so, ad esempio Lo Stato Sociale.
Ecco, con La Blanche Alchimie avevamo suonato anche con loro, loro erano ancora ai primi passi, molto lontani dal successo a cui sono arrivati adesso. 2008, forse il 2009, qualcosa del genere. Si capiva già allora che erano ragazzi in gamba, intelligenti, furbi – furbi ma in modo intelligente, ecco. Però sì, loro, o Thegiornalisti… Per dire, Cosmo e Frah Quintale sono bravi, ho ascoltato le loro cose, anche perché davvero tutti mi dicevano di farlo, tutti. Però se poi subito dopo metto su un disco dei Verdena, oh, che ti devo dire, la differenza la sento. Quello sì che mi piace davvero. Forse sono vecchio? Forse non capisco più la musica nuova? Però no: perché poi succede che il giorno dopo esco qui a Berlino, sento un trio jazz che fa cose strambe con l’aiuto di uno alle macchine, e mi esalto, anche se è una cosa completamente nuova. Ma quella mi arriva.
(molti anni fa, con La Blanche Alchimie; continua sotto)
Hai l’impressione che La Blanche Alchimie avrebbe meritato qualcosa di più?
Forse sì. Ma noi eravamo molto consapevoli di un problema che c’era alla base, anzi, un paio: un po’ noi che facevamo una musica bizzarra, difficile da catalogare, un po’ fuori di testa, d’altro canto eravamo giovanissimi; un po’ perché comunque in tutto questo avevamo sì un certo tipo di esposizione che però derivava dal fatto che Jessica era la-figlia-di (la figlia di Ludovico Einaudi, NdI), e la musica che facevamo non c’entrava assolutamente nulla con quel tipo di ambiente lì, era proprio un controsenso. Poi, ultima cosa da sottolineare, in quegli anni lì, parliamo del 2006, 2007, fare musica in inglese era un po’ un suicidio, era una cosa che proprio non funzionava.
Ah guarda, ora funziona ancora meno. L’italiano è praticamente obbligatorio, se vuoi avere attenzione e successo.
E quelli che invece vogliono usare l’inglese si lamentano, no? Però appunto: se le cose non funzionano dove stai tu, perché semplicemente non prendi e vai? Perché non provi a trasferirti da qualche parte dove sono più ricettivi verso quello che fai? Cosa aspetti a farlo? Vai! Subito! Hai vent’anni, accidenti, perché esitare? Che paure hai? Fai come ho fatto io. Che ci vuole? Arrivi in un posto dove secondo te è giusto stare. Inizi a conoscere le persone. Inizi a darti da fare. Inizi qualche collaborazione. Vedrai che le cose succedono. O magari non succedono, ok, ma ti assicuro che ne è valsa la pena, di provare. Trasferirmi all’estero è stato infatti decisivo per me. Mi ha aiutato tantissimo, proprio come attitudine. Mi sono ritrovato in un’altra ottica mentale, ho cambiato proprio modo di ragionare: qui in Italia mi aspettavo che le cose succedessero “per forza”, quasi di diritto, perché pensavo di essere bravo, di fare qualcosa di interessante… All’estero, quando arrivi, sei una invece nullità. E nel momento in cui ti senti tale, inizi a metterti più in discussione. Inizi a metterti in gioco in modo molto più serio e radicale. Andare all’estero ti apre davvero la mente, a patto naturalmente che tu sia una persona sveglia, con voglia di fare e naturalmente con del talento, con qualcosa da dire. Nel momento in cui ti metti in discussione, torni a metterti al servizio più della musica che di te stesso. E questo è un bene totale. Qualcosa che ti cambia anche come artista; o almeno, ha cambiato un po’ me.
Ma a Berlino quanto quanto sei finito in contatto con la scena elettronica più da club, più techno, un marchio evidente della città? In effetti hai fatto uscire un disco di remix, con delle scelte anche molto illuminate per quanto riguarda i remixer, penso ad esempio a Cassegrain…
Mah, la farei più semplice: lì è stato Denovali, la mia label all’epoca, a dire “Bene bene, ora dal tuo primo album tiriamo fuori anche una release di remix”…
(eccoli, i remix; continua sotto)
Dalla faccia con cui me lo stai raccontando mi pare che per te fosse indifferente.
Mah, non lo so. In effetti, la mia risposta è stata: “Va bene, se secondo voi è importante farlo allora facciamolo”. Lì mi hanno chiesto chi volevo coinvolgere, infilare nell’elenco anche Cassegrain era inevitabile visto che è un mio caro amico e mi piace un sacco la roba che fa. Io di mio non sono un grande amante della techno, ma quando prende una piega cupa e molto dub beh, allora mi piace sì.
Ti vedi tornare a fare progetti collaborativi, vere e proprie band magari, in opposizione a questi ultimi anni da pianista in solo?
Sì.
Ci stai già pensando e anzi ci stai già lavorando sopra, mi pare di capire…
E’ da un bel po’ che ci penso. E avevo anche iniziato a scrivere un po’ di materiale in tal senso, musica pensata molto di più per una band che per un solista. Poi è successo quello che è successo, il lockdown, ma… sì, su questa idea ci stavo lavorando già parecchio, lo ammetto. Vero: volevo che il mio prossimo disco fosse con una vera e propria band. E’ così. Una band che suonasse magari anche strumenti che, di solito, nella musica classica contemporanea proprio non senti: chitarra, basso, batteria… In questi anni ho conosciuto veramente tanta gente davvero brava a suonare, mi piaceva proprio l’idea di coinvolgerne una parte. Ma appunto, è successo quello che è successo. E una delle conseguenza è stata che era diventato improvvisamente impossibile riunirsi in quattro, cinque persone a suonare: anche perché per me “band” significa entrare in studio, schiacciare “REC” e suonare, suonare tutti insieme. A parte questa difficoltà pratica, i mesi di lockdown o semi-lockdown mi hanno comunque anche fatto passare la voglia di scrivere arrangiamenti più intricati, riportandomi invece verso musica più “notturna”.
Ad ogni modo hai già annunciato un album, per il 2021.
Sì (assume un’aria sconsolata, NdI).
Aspetta aspetta, hai fatto un’espressione bellissima nel dirlo… spiega un po’…
(ride, NdI) Penso di avere già tanto materiale pronto, quello sì. Ma è come ti dicevo all’inizio: ok, magari pubblichiamo un disco, ma siamo sicuri che poi sarà possibile portarlo in giro in concerto? Poi guarda, ho anche cambiato label, finendo ora in una vera davvero grossa ed importante, quindi vorrei che il primo album con loro avesse proprio un suo ciclo completo. Sono cambiate tante cose in quest’ultimo anno. Inizialmente come ti dicevo l’idea era di un disco composito, con tanto di band, poi appunto la cosa è diventata non più realizzabile e ora… ora sto rifacendo un po’ il punto, ecco. Ma sto scrivendo tanto. Creativamente parlando, questo è un periodo molto bello per me.
In Italia mi aspettavo che le cose succedessero “per forza”, quasi di diritto, perché pensavo di essere bravo, di fare qualcosa di interessante… All’estero, quando arrivi, sei invece una nullità. E nel momento in cui ti senti tale, inizi a metterti più in discussione. Inizi a metterti in gioco in modo molto più serio e radicale. Andare all’estero ti apre davvero la mente
Ti senti ancora di avere qualcosa da dimostrare e, soprattutto, che il tuo status di musicista ormai affermato possa essere a rischio, riportandoti nell’anonimato e nella fatica di arrivare a fine mese con la sola musica? Hai la paura che, tipo gioco dell’oca, se sbagli un passo puoi tornare all’improvviso alla casella di partenza? O invece sei più tranquillo e consapevole?
Beh, sereno non lo sarò mai. Ma non mi sono nemmeno immaginato una cosa tipo “Aiuto, ora faccio il disco, fa schifo a tutti, mi odieranno tutti, mi abbandoneranno tutti”. Questo no. Anche perché, in cuor mio, spero di fare in ogni caso un lavoro discreto, non una schifezza. Ma un po’ di paura ed incertezza c’è, soprattutto in questo marasma della “nuova classica”, dove è davvero facile perdere la propria identità. Ora è tutto molto più difficile: perché se vuoi essere riconoscibile e lasciare davvero il segno, adesso devi faticare il doppio. Io una “voce” ce l’ho, c’ho messo anni a costruirla, ma di sicuro devo farla evolvere, crescere. Poi c’è comunque la questione delle sonorizzazioni: film, teatro…
…che è qualcosa che ti tocca, visto che la tua musica è davvero cinematica di natura.
Beh, a me il cinema piace molto, penso proprio di poter dire di essere un cinefilo. Lavorare alle colonne sonore poi mi dona un sacco di ispirazione. E’ questione di mettersi al servizio di un’idea che esiste già, non sei tu che devi fartela venire, e questo volendo è un piccolo aiuto; ma al di là di questo, per poter trovare la linea sonora giusta spesso devi studiare e scoprire cose nuove, nuovi strumenti, nuove soluzioni, e questo è un bellissimo processo di crescita.
(la colonna sonora di “The Twelve”; continua sotto)
Ci sono musicisti che invidi, artisticamente, per il talento che hanno, per la musica che creano?
“Invidia” è una parola forte, ha forse un’accezione un po’ troppo negativa. Però che ci sia chi è ad un vero e proprio “livello superiore” quello sì, assolutamente. Penso in primis a Nick Cave.
Ehi, non è l’artista che si assocerebbe alla tua figura e ai tuoi gusti!
Lui ha fatto della musica quasi una missione. Qualcosa che va al di là della musica in quanto musica. Trovo che questo sia assolutamente straordinario.
foto di Beniamino Barrese