Due dei festival che più abbiamo amato quest’estate sono andati male. O almeno: male a livello di numeri. Nel senso che non c’è stata la gente che ci si sarebbe aspettati, e non c’è stata la gente che avrebbe dovuto esserci per andare in pari coi conti. Non sono stati disastri o flop – e immaginiamo che gli organizzatori ci resteranno anche un po’ male a leggere che secondo noi il loro evento è andato “male” – ma questa è la realtà: si è stati sotto le aspettative e/o i desideri. Visto che di questi tempi dal giornalismo musicali si vogliono solo o baruffe chiozzotte (che però fanno i clic) o tappeti stesi in cui si magnificano le cose tutto-bello-tutto-fantastico, non ci facciamo problemi ad andare controcorrente e a dire che sì, c’è anche chi quest’estate – in un’Italia percorsa da tantissimi festival di qualità veramente alta – a fine evento non ha potuto festeggiare più di tanto. Ma non lo facciamo per infamare o deridere questo o quello: lo facciamo perché in una sana ecologia dell’informazione ci sta dire le cose belle e ci sta anche dire le cose brutte, pure se questo implica che poi ti rendi antipatico e parlano male di te (direttamente o alle spalle). Che poi: se parlano male di te, almeno vuol dire che qualcosina conti. Forse. O forse è solo l’incapacità di sentirsi dire qualcosa che non sia solo un complimento e un elogio: e il vero dramma dell’industria musicale e del clubbing, per molti versi, sta diventando proprio questo.
I nomi dei due festival a cui ci riferivamo all’inizio li vogliamo insomma fare senza reticenze: Apolide e La Prima Estate. Non sono andati quanto dovevano, o quanto si sperava. Eppure sono stati due festival che abbiamo amato ed apprezzato, da utenti, tanto quanto Jazz:Re:Found e Spring Atittude (che, come abbiamo raccontato, hanno invece davvero trionfato quest’anno). Sì. Davvero: perché da entrambi avevamo grandi aspettative (di entrambi avevamo scritto molto volentieri pre-evento, non lesinando complimenti), e in entrambi i casi sia per Apolide che per La Prima Estate queste aspettative sono state soddisfatte.
Apolide: respirando tra i boschi (continua sotto)
Dicevamo che Apolide era un contesto particolarissimo, quasi magico, immerso nella natura, con un bellissimo spirito fra tutti i partecipanti; e quest’anno provava a fare il salto di qualità questo festival alzando il tiro degli headliner con band ed artisti che supportiamo un sacco (Cosmo, Subsonica, Calibro 35, giusto per fare tre nomi) ma con anche altre nomi di qualità cristallina (ad esempio LNDFK, Marta Del Grandi ed Emma Nolde). Doveva essere insomma l’edizione in cui il festival decolla davvero, seducendo una (più) vasta platea di persone: più investimenti, nomi più grossi, ma tutto questo comunque senza vendere l’anima.
Ed infatti arrivando lì l’anima di Apolide, l’anima preziosa di Apolide, l’abbiamo trovato intatta, bellissima. CI aspettavamo cioè un festival dall’atmosfera unica, particolare, e così è stato; ci aspettavamo ottima musica (ad esempio anche nella stage djistico con la direzione artistica di Alessandro Gambo), e l’abbiamo avuta eccome; ci aspettavamo un profondo rispetto per ogni singolo spettatore, visto come una persona da fare stare bene con semplicità e non come un pollo da spennare ad ogni costo, e così è stato. Ma inutile nascondersi e nasconderlo: l’affluenza è stata decisamente sotto le aspettative, e le necessità. E davanti al Main Stage il calore del pubblico non ha mai superato il discreto. La scintilla non è scoccata mai.
Il folle e musicalmente scintillante palco dedicato ai dj set (continua sotto)
De La Prima Estate, dicevamo che era un primo esperimento assai coraggioso ed ambizioso che metteva in campo dei nomi giganteschi e/o sfiziosisserrimi, non una parata di dinosauri da festival tronfio e birraiolo: Anderson .Paak, Jamie Xx, Bonobo, The National, Duran Duran, Kaytranada, BADBADNOTGOOD, Mace, Frah Quintale, ancora Cosmo, ancora LNDFK. Qualcuno tra gli addetti al settore ha pensato, senza il coraggio di dirlo o scriverlo pubblicamente: “Ellamadonna, che sboronata, tutti nomi che costano troppo rispetto a quello che valgono davvero in Italia, piacciono giusto a chi ne sa molto di musica o a qualche nostalgico…”, (…le due cose si sovrappongono?), “…non funzionerà mai”. E infatti ha funzionicchiato, La Prima Estate, ma non abbastanza. Non abbiamo cifre sicure ma di sicuro considerando i costi, soprattutto dei primi nomi della lista, alla fine i conti non saranno tornati e sì, anche lì al festival c’era l’impressione di essere in uno spazio che si è autoridotto la capienza per offrire una esperienza di qualità ai visitatori confidando nel sold out o giù di lì, invece si è sempre stati molto lontani da esso, col Parco Bussola Domani regolarmente pieno a metà, o anche molto meno. E quel maledetto binario centrale che tagliava a metà la platea per far passare le riprese, manco si fosse su un set televisivo, non ha certo aiutato. L’atmosfera è stata in parte spenta. Sorridente, contenta, ma non euforica o indimenticabile.
BADBADNOTGOOD sul Main Stage (continua sotto)
Ecco. Anche se non si è addetti ai lavori, in maniera istintiva lo si percepisce quando un festival non è andato o non sta andando come dovrebbe: oh sì. Troppe transenne antipanico e troppa sicurezza rispetto alla gente effettivamente presente. Troppi spazi larghi. Troppe asimmetrie. Troppe pause emotive, in quell’alchimia sottile che si crea quando c’è un “evento”: ovvero un qualcosa che raduna le persone promettendo loro di passare qualcosa di particolare come ascoltare non uno, non due, non tre, ma tanti concerti in un weekend.
Quel corridoio centrale di troppo a La Prima Estate… (continua sotto)
Succede agli eventi grossi, che queste cose si percepiscano e si capisca che non tutto è andato come voluto (La Prima Estate); succede a quelli alternativi ed un po’ outsider (Apolide); succede agli eventi piccoli e coraggiosi (tanti festival estivi di qualità disseminati per la Penisola e Sicilia e Sardegna). Abbiamo avuto una estate 2022 piena di musica come non mai: perché si sono accumulate date e concerti, tour e festival già fissati e ora recuperati dopo la fine delle limitazioni pandemiche, ma il portafoglio delle persone non è infinito e a parte questo non è scritto da nessuna parte che tu il tuo tempo libero lo debba per forza investire andando a sentire o ballare della musica, e non facendo altro. Le cose in realtà sono andate molto bene, negli ultimi anni; la crisi della discografia e del clubbing ha spostato infatti un sacco di attenzione, di risorse e di favori popolari verso il live e i festival, gli investimenti economici ed emotivi delle persone sono così andati in quella direzione. Ma non è qualcosa che può crescere e durare all’infinito.
Anche se hanno provato a vendercelo come tale, come boom eterno ed inarrestabile, le grandi agenzie e i management che curano gli affari degli artisti. Una crescita continua dei cachet artistici, che non si è arrestata di fronte alla pandemia ma anzi, sono fioccati discorsi come “Eh, siamo stati fermi due anni, non è che ora possiamo venirti incontro, dobbiamo recuperare”: come se anche i promoter non fossero stati immobilizzati dai decreti pandemici, e come se il mercato dei live e dei festival fosse appunto una di quelle cose che cresce all’infinito – quindi chi non chiede sempre di più è uno scemo che non sa cogliere le occasioni.
La cosa peggiore che si può fare, in questi casi, è fare finta che sia andato tutto bene, che sia stato tutto fantastico e supermeraviglioso. Perché nel farlo si rafforza quella retorica per cui bisogna nascondere la polvere sotto il tappeto e fingere sia tutto perfetto, tutto in crescita, tutto bellissimo, tutto vincente. Basta, tutto ciò è tossico. E’ un qualcosa che da molto tempo a questa parte è stato nutrito soprattutto dalla club culture: i primi responsabili dell’euforia-ad-ogni-costo siamo noi, perché in fondo il clubbing, il ballo e la festa sono la massima dimostrazione della goduria; ma ad un certo punto si è inculcata la convinzione che solo una festa riuscitissima possa essere bella e significativa, solo una pista piena e una platea piena possono certificare il valore di un artista o di una esperienza come spettatore.
Non è così.
Sapete cosa? Apolide e La Prima Estate sono state, nonostante tutto, due esperienze molto belle, se ci si cavava fuori da questa dinamica perversa del successo-ad-ogni-costo. Davvero. Questo perché, come dicevamo, Apolide non ha perso comunque il suo charme lunare, il suo essere un covo per sognatori e gente in grado di ascoltare la natura molto più che le fanfare dello star system; mentre La Prima Estate di suo ha offerto un palco bello, un parco godibilissimo, una organizzazione comunque molto curata (con ad esempio un’ottima security, tranquilla e sorridente), ricreando una atmosfera “da salotto” che permette di ascoltare e godersi al meglio una line up costruita comunque con indubitabile gusto.
Perché questi due festival sono andati male, o non bene abbastanza?
Apolide probabilmente ha lanciato il messaggio di correre il rischio di diventare un festival “normale”, a chiamare quei nomi validi ma “normali” e visti sui palchi di molti altri posti; non è passato abbastanza il messaggio che il punto stava proprio lì, i Subsonica o Cosmo li puoi vedere ovunque ma vederli immersi in un bosco è qualcosa di speciale, qualcosa che non andrebbe perso, qualcosa che merita un viaggio. Non è accaduto, non ci sono stati abbastanza viaggi, non ci sono stati tanti più viaggi degli anni passati. Ma forse vale la pena insistere (se si hanno le spalle abbastanza larghe): Apolide a restare sempre un underdog rischiava comunque di diventare una routine, di veder spegnere un po’ l’entusiasmo, ma al di là di questo le sensazioni che si respirano da lì sono qualcosa che sarebbe bello fosse condiviso da più persone possibile, tra civiltà, buona vibra e raro contatto con la natura. E’ un festival bellissimo, e molto particolare. Lo è stato anche quest’anno.
La Prima Estate invece ha dato l’idea dell’evento che vuole fare il passo più lungo della gamba, senza essersi fatto prima la gavetta di una serie di piccole edizioni via via in crescendo. Ha dato l’impressione di essere insomma il parente ricco, il parente frichettone ed artistoide all’apparenza ma ricco nel conto in banca, che vuole fare vedere che anche a lui piace la musica di qualità, anche a lui piace il festival ricercato, ma quando si muove allora beh si muove comunque con tutti i lussi del caso, sparando alto fin da subito, prendendosi il meglio, costi quel che costi. Ma anche La Prima Estate speriamo che resista ed insista: un investimento forte per chiamare nomi di quel tipo (diciamolo: in Italia Anderson .Paak costa il doppio se non il triplo dei Pinguini Tattici Nucleari ma porta un quinto della gente) è comunque un gesto da seguire e supportare, e il fatto di investire un alto budget cercando il gusto è una di quelle cose che in Italia si fa ancora troppo poco, perché nel settore c’è ancora troppo di quel cinismo alla “La cultura non paga, viva la merda” (…anche perché sai che i contributi istituzionali se lo succhiano il jazz, la classica o le feste da strapaese: quindi il rischio economico è tuo al 100%), quindi due volte su tre si cerca di abbassare il livello intenzionalmente.
Siamo felicissimi di aver puntato molto su Apolide e La Prima Estate. Siamo dispiaciuti che non siano andati bene come dovevano, certo. Eravamo un po’ dispiaciuti anche mentre eravamo lì. Ma siamo orgogliosi nel dire che comunque le abbiamo trovate due esperienze davvero belle che speriamo si ripetano e che, soprattutto, speriamo di poter ripetere noi in prima persona come spettatori e viandanti estivi per le cose di musica, per le cose belle, per le sensazioni vere. Sapete cosa? I festival, i talenti, gli artisti e le imprese culturali si amano non solo quando trionfano e vanno per la maggiore, ma anche (e soprattutto?) quando non tutto è andato per il verso giusto – questo ovviamente se troviamo in essi dei valori che secondo noi meritano di essere sostenuti, apprezzati, diffusi. Credeteci: essere appassionati consapevoli e responsabili è bello, dà più soddisfazione.
Il post giubilante su Instagram pretendendo di essere stati nell’evento più esclusivo e sold out (come se questo fosse ciò che conta davvero), lo lasciamo pure ai turisti della musica. Prego: tutto vostro.