È stata l’estate dei tantissimi concerti e festival, sì, ma anche delle tante lamentele. Mai come quest’anno infatti si è fatto sentire il malcontento sulle file, sui token, sulle difficoltà di afflusso e deflusso, su palchi che non si vedono bene o impianti non potenti abbastanza, sui parcheggi e le navette per essi. Non è un caso, a occhio. Il punto è che probabilmente il progressivo aumento del prezzo dei biglietti – argomento che abbiamo trattato e tratteremo mille volte, e per cui i colpevoli sono molti – ha reso pure il pubblico un po’ più insofferente e/o esigente. Da fan insomma ci si sente (anche) un po’ clienti, ora. Con tutto quel che ne consegue: a partire dalla incapacità, o ancora meglio non volontà, di accettare tutta una serie di scomodità che un tempo erano parte integrante dell’esperienza-concerto, o esperienza-festival.
Non è per forza una critica. Questa maggiore “esigenza” da parte del pubblico spinge anche i promoter a lavorare più e meglio, nei casi migliori: e questo è un bene. Ma forse bisognerebbe ricordare anche l’altra parte della medaglia: ovvero che le “scomodità” dell’assistere dal vivo ad un evento sono, se accettabili e non seriamente pericolose per l’incolumità delle persone, anche una parte non secondaria dell’esperienza stessa. Nel momento in cui le “vivi” e superi, infatti, ciò che resterà nella tua memoria sarà ancora più intenso. Più romantico ed epico. Già: anche l’aver superato quei frangenti che lì per lì ti hanno evocato solo bestemmie ai santi avrà un sapore (semi)gradevole, nel ricordo a posteriori. E sì: ti sembrerà comunque davvero di aver fatto una esperienza unica, o almeno particolare.
Perché la fruizione di qualcosa che abbia, obbligatoriamente, tutte le comodità del caso assomiglia sinistramente proprio come concetto e forma mentis alla fruizione che si può fare da casa. C’avete mai pensato? Stare senza file, senza attese, senza camminate, senza sudore, senza code al bar: tutto questo cosa significa? Significa molto semplicemente stare seduti sul divano di casa, davanti ad uno schermo, con tutte le comodità a portata di mano, e la visuale migliore possibile sull’evento. Vale per il calcio così come per i concerti.
Ovviamente non stiamo dicendo che ora ai concerti ed ai festival è “giusto” vessare i presenti di modo da fargli vivere l’esperienza più ricca ed autentica. Per carità. Tutto questo discorso va calibrato con misura, buon senso, discernimento. Ma prendiamo il caso di Vox Marmoris, uno degli eventi che più ci ha intrigati quest’estate: mentre vedevamo salire una fila infinita di persone sulle ripide strade che portano a Colonnata, magari avendo parcheggiato più a valle perché i parcheggi ufficiali erano già sold out, abbiamo pensato: ehi, questa è una esperienza vera. Se la strada fosse stata pianeggiante, i parcheggi ampli, la venue facilissimamente raggiungibile, Vox Marmoris sarebbe stato un po’ meno intenso e particolare, come esperienza.
…perché accidenti se alla fine è stato bello, Vox Marmoris. Già arrivavamo ben disposti, perché l’anno scorso sapevamo che Hunee era rimasto entusiasta dall’esperienza (“Forse la miglior data mai fatta in Italia, e ne ho fatte”), ma quello che abbiamo visto ha superato le nostre aspettative. Sapevamo della bellezza e del fascino dei posti – ne avevamo abbondantemente parlato in sede di presentazione – ma quanto ci si ritrova a vivere una volta che ci si inerpica su fino alla cava di marmo della famiglia Corsi è qualcosa di più: in primis, un pubblico incredibilmente numeroso, socialmente vario e voglioso di fare festa.
È difficile portare le persone su per posti scomodi, poco abituali, scoscesi; lo sanno bene ad esempio a Nextones o a Limbo, dove nonostante line up di altissima qualità ed experience a trecentosessanta gradi si è ancora nella categoria degli “happy few”, o comunque di posti che sono riempiti solo in parte rispetto alle potenzialità. La capienza di Vox Marmoris era invece assolutamente a tappo: sembrava di stare come densità al Tenax nelle sue giornate migliori, giusto per dare un’idea. Una fiumana di gente è salita fino a una delle zone più suggestive e assurde della Toscana sobbarcandosi disagi logistici non banali. Scomodo? Era scomodo. Dovevi guidare fra i tornanti. Dovevi sperare di trovare poi posto nei parcheggi più vicini. Dovevi successivamente aspettare le navette. Tutto in salita. Ripida. Non sempre illuminata. Un’avventura un po’ d’altri tempi, per intenderci (…o di tempi attuali, ma quelli più coraggiosi ed anticommerciali).
Ma forse proprio per questa è stata tanto bella e riuscita. E forse proprio per questo chi era su fra le cave di marmo era felice, felice davvero, e c’era un entusiasmo palpabile sul dancefloor.
Una cosa simile è stata Jazz:Re:Found, che ha tirato fuori probabilmente l’edizione più bella di sempre (proprio nell’anno più doloroso). Anche lì devi fare “fatica” per arrivare al luogo, per trovare il parcheggio (comunque prenotabile in anticipo), per inerpicarti a piedi fino a Cella Monte e poi andarci su e giù dalle prima ore del pomeriggio (o dalle tarde della mattina) fino a notte inoltrata; tutto questo magari sotto un caldo robusto di giorno, e un certo qual freschetto di notte. Ma nel momento in cui si crea una comunità – e accidenti se a Jazz:Re:Found si crea! – tutto questo diventa un ulteriore momento di bellezza. E ti fa anche digerire meglio il sistema del bracciale, per i pagamenti (che ha avuto qualche piccolo malfunzionamento, ma nulla di sostanziale), o qualche fila per prendersi da mangiare o da bere (magari generata anche dalla mancanza di ghiaccio ai bar, in qualche frangente). Magari se non c’erano era meglio, chiaro; ma nel momento in cui ci sono state, ti sentivi talmente accolto, “capito” e rapito come spettatore, come utente, che chiudevi un occhio. Anche perché Jazz:Re:Found ha una storia lunga, una identità profonda – e sono due cose che si è guadagnato col duro lavoro, non è che gli sono piovute dal cielo o che gliele ha regalate Peggy Gou (che JZRF peraltro aveva fatto quando bookarla costava ancora una manciata di migliaia di euro, e non è un caso, né è un caso che artisti oggi sulla cresta dell’onda – ma diversissimi tra loro – come Nu Genea e Dardust abbiano voluto fortissimamente essere in line up quest’anno, a costo di rinunciare a dei soldi e a bagni di folla più grandi).
Ecco che quindi abbiamo bisogno di un appello in due direzioni. Chi organizza, deve capire che sì, è lecito cercare di spremere più fatturato possibile da quello che si fa (perché gli artisti sono sempre più esosi, le strutture sono sempre più costose da noleggiare, personale e materiale tecnico sono sempre più difficili da recuperare), ma senza superare una determinata soglia; e questa soglia la si posizione più o meno lì dove si capisce quanto si è lavorato per offrire allo spettatore una esperienza unica, particolare, identitaria. Chi invece ai festival ci va, non deve farsi trattare a pesci in faccia e come un pollo da spennare, ci mancherebbe, ma al tempo stesso deve ricordarsi che andare a sentire musica dal vivo non è solo un’occasione asettica e “perfetta” per postare qualcosa su Instagram, ma è una esperienza fatta (anche) di fatica, di attesa, di piccoli problemi pratici da superare, di condizioni non sempre ottimali di fruizione.
È stato un anno strano, il 2023. È quello in cui sono iniziati i primi scricchiolii di una industria – quella dell’intrattenimento live – che pareva crescere all’infinito e quindi aveva, e ha, sollevato l’ingordigia delle grandi multinazionali dell’intrattenimento. Invece: tour di artisti considerati “sicuri” (e suonatissimi su Spotify) andati più o meno male, date annullate per improvvisi logorii fisici degli artisti (o, spesso senza confessarlo, in altri casi per scarse prevendite). Cose così. Sia il mercato del live che dei dj è in una fase di bolla speculativa, in cui i costi sono artatamente tenuti alti da grandi multinazionali che hanno interesse solo a moltiplicare i profitti legati agli artisti che rappresentano, e se questo implica mettere nei guai singoli promoter locali, beh, non gliene può evidentemente fregare più di tanto.
Al solito poi le istituzioni sanno mettere il bastone fra le ruote. Assolutamente vergognoso quanto successo a Decibel Open Air, con la Prefettura di Firenze che – senza nemmeno ascoltare il parare del sindaco di Sesto Fiorentino, la località che ospitava il festival – ha emesso un delirante editto proibizionista che ha vietato la vendita dell’alcool all’interno del festival, generando in un colpo solo non solo un danno enorme (e vigliacco nelle modalità) verso il festival e i suoi organizzatori, ma anche verso la città che lo ospitava, con le aree attorno al festival che sono diventate discariche di bottiglie a cielo aperto (se non mi fai bere dentro il festival, bevo prima di entrarci – semplice). Ma al di là dei danno logistici, è grave proprio l’impostazione politica per cui si può emettere una ordinanza del genere a 24 ore dall’apertura di un evento, a tradimento, sulla base di supposti “problemi di ordine pubblico”, perché si sa, un festival di musica elettronica e in generale “giovane in quelle che sono mentalità ferme agli anni ’80 più retrogradi non possono che creare gravissimi problemi di ordine pubblico, nonostante ormai da decenni sia dimostrato che non è assolutamente così, né in Europa né tantomeno in Italia. Anzi. Le istituzioni più illuminate e più pratiche hanno capito che la musica “giovane” è un volano, anzi, forse “il” volano per nuova imprenditorialità, nuova formazione di professionalità, nuova capacità di attrattività del territorio.
Ma siamo abituati a non essere aiutati dalle istituzioni, anche se in realtà appunto qualcosa si muove. E anzi, vorremmo sottolineare un principio importante: i festival che più e meglio stanno dimostrando di resistere bene nel tempo sono quelli che hanno imparato a dialogare con le istituzioni locali (grandi o piccole che siano), a scrivere bandi per ottenere fondi nazionali o europei, a lavorare insomma in maniera “adulta” e non più solo mossa da passione e garibaldinismo romantico.
Chi organizza insomma deve essere sempre più professionale e professionista, in un mercato diventato molto difficile: punto numero uno. Il mercato dal canto suo deve smetterla di essere più stronzo, perché a furia di tirare la corda si spezza, o perché i promoter vanno gambe all’aria o perché gli appassionati di musica – quelli che alla fine tengono in piedi tutto quanto – si stufano di essere considerati solo un sacco di banconote da spremere il più possibile: punto numero due. E gli appassionati, infine, punto numero tre, devono ritrovare il giusto motivo per andare ad un festival: non una photo opportunity per una story su Instagram o una svisata su TikTok, ma una esperienza a trecentosessanta gradi, nel bene o nel male.
Dobbiamo stare molto accorti. Esiste un disegno ben preciso per cui la musica dal vivo deve essere sempre più bottino di ristretto gruppo di grandi multinazionali, che stanno sempre più facendo tabula rasa (acquisendoli, o fancedoli fallire) di competitor più piccoli ed indipendenti. Del resto, il mondo dei grandi capitali funziona sempre così, è nel suo DNA: manco ti puoi incazzare. Tra l’altro i nomi di più grande richiamo ormai sono quasi tutti accasati presso questi grandi agglomerati di potere, a livello gestionale; sarebbe il caso di far capire che invece una alternativa è possibile e, anzi, è desiderabile. Uscite dalla schiavitù dei “soliti” nomi; cercate di appoggiare le realtà che più sembrano voler cercare un discorso particolare (e che al massimo qualche “solito” nome lo tirano fuori sì, per garantirsi incassi di un certo tipo, ma anche per proporre comunque qualcosa di variegato ed interessante e riuscire a stare in piedi nel tempo); guardate con sospetto e protestate con chi cerca di fregarvi con balzelli inutili; ma al tempo stesso ricordatevi della “fisicità” dell’esperienza dell’ascoltare musica dal vivo o ballarla. Alla fine al Kappa FuturFestival c’era un caldo becco, l’acqua non era economicissima e i cocktail figuriamoci, in certe parti del Parco Dora la musica dei vari palchi s’accavallava; ma guarda caso il “sentiment” di chi c’è stato è quasi all’unanimità entusiasta, perché nell’arco degli anni il festival torinese non solo ha offerto una location da sogno ma, anche, ogni edizione ha fatto qualcosa per migliorarla e migliorarsi, ogni anno è stato corrente con la sua mission artistica (che non è quella di un boutique festival, ma quella di un festival mainstream, dove però non far mancare mai delle perle per intenditori ed appassionati veri), ogni anno ha fatto il possibile per diventare sempre più internazionale e sempre più accogliente lavorando su una identità etica ed estetica ben precisa.
La gente non è scema. Certe cose, anche se magari solo subliminalmente, le coglie. La gente ogni tanto si lamenta a cazzo o comunque un po’ troppo, vero, verissimo; sempre più capita che ci si dimentichi cosa significhi andare ad un concerto o comunque ad un evento con molte persone, che è qualcosa del molto diverso del guardare il mondo e le emozioni da uno schermo o da uno smartphone. Ok. Ma questo non deve far dimenticare che un appassionato di musica è un essere umano, e non un numero; ed un appassionato di musica è qualcuno che sta facendo del bene a se stesso ed anche al mondo, perché la musica spesso e volentieri tira fuori il meglio dalle persone, non è solo un ottimo mezzo per generare fatturato e valore aggiunto.
Dobbiamo essere un po’ più consapevoli tutti quanti.
Altrimenti va a finire molto, molto male. Tipo che potrebbero vincere i peggiori, tipo che si potrebbe distruggere la parte più sana, innovativa ed al tempo stesso “onesta” di un settore, tipo che potremmo tornare ai tempi dei concerti da Strapaese nelle piazze estive, e nulla più: no, dai. Quello per favore no.