La situazione è questa, parliamoci chiaro: negli ultimi anni, siamo stati tutti ossessionati dalla parola festival, noi cultori di musica elettronica e/o ricercata. Lo siamo come pubblico: tanto che il fatto di andare in un club, ogni settimana, ha perso fascino. Vogliamo i festival, sì, vogliamo i festival, li vogliamo. Li vuole il pubblico, cioè noi; li vogliono anche i brand, che se un tempo potevano anche appoggiare economicamente singole serate o club night, ora hanno solo il mantra del festival, festival, festival; vale in realtà pure per la comunicazione generalista, per i media, lì dove le serate nei club in realtà non sono mai state filate particolarmente mentre i festival hanno quest’aria un po’ più ecumenica e “da evento” quindi massì, puoi finire col parlare anche di loro, anche se presentano musica di cui tu quotidiano o settimanale generalista di tuo non ti occuperesti mai e poi mai.
Non è un fenomeno italiano, questo. Da più parti d’Europa questa ossessione e ricerca per i festival, per l’entità-festival, in realtà è in voga già da anni: l’Inghilterra in primis (anche cronologicamente), poi la Spagna, la Francia, le Fiandre… volendo anche la Germania, tolta Berlino, che guarda caso di festival ne ha pochi e, francamente, molto al di sotto delle aspettative come qualità (non è un caso?). L’Italia arriva buona ultima. Al solito. Arriva per dire dopo che per anni eccellenze come Dissonanze sono state sottovalutate dalle istituzioni e dai media (cosa che faceva impazzire – e dispiacere – il compianto Giorgio Mortari), ma anche per quanto riguarda un Club To Club – ora tenuto in palmo di mano da tutti, direttori marketing e istituzioni in prima fila – per un sacco di anni era qualcosa di povero, negletto, da sfigati, poco capito da coloro che non fossero i soliti fissati, i soliti super-appassionati, i nerd della musica e del clubbing.
Poi però un po’ di eroi folli (prima di tutto, persone innamorate della musica) hanno iniziato a mettere su eventi, costi quel che costi: per il gusto di farli, per il gusto di celebrare qualcosa di bello e, insomma, di regalarselo.
Sull’esempio delle ammiraglie dell’epoca, del già citato Dissonanze, o di Distorsonie a Bologna, della TDK Dance Marathon a Milano (c’è poco da fare, a Milano i brand entrano sempre a piedi uniti nelle cose, è tutto molto brand-oriented, e lo è stato in parte anche Elita negli anni successivi) sono nati su scala più piccola dei piccoli, grandi eventi di provincia, come Dancity, o comunque di città di media dimensioni, come roBOt. Giusto per fare due nomi; perché l’elenco è lungo, e arriva fino alle faccende più crossmediali e sperimentali come il bellissimo Node di Modena. Tutto questo superando e mettendosi “a lato” rispetto al modello, maggioritario in Italia, della rassegna estiva (indie) rock, appoggiata un po’ dal volontariato locale un po’ dall’assessore alla cultura di turno, così “Diamo un contentino ai giovani, con questa loro musica da capelloni, così non rompono i coglioni almeno fino all’anno prossimo”.
Eventi, questi di nuovo genere e generazione, legati molto allo sviluppo della musica e cultura elettronica, che non sono nati perché “i festival funzionano” ma, lo ripetiamo, per semplice passione ed entusiasmo dei nuclei fondatori. E per loro competenza musicale reale, nel settore di appartenenza. Questo è un concetto fondamentale. Invece una etnia che in Italia è andata a lungo per la maggiore è quella di coloro che in realtà non erano appassionati di musica più di tanto, no, vedevano invece o orecchiavano quello che succedeva all’estero e pensavano che fare festival fosse un buon modo per tirare su un facile moltiplicatore economico (senza lo sbattimento settimanale o giù di lì di una club night (…sai che noia e che fatica): bene, questi li riconosci perché hanno parlato tanto ma tanto, se eri un addetto al settore ti hanno imbonito con le loro chiacchiere megalomani di ore e ore, però alla fine di edizioni dei loro festival ne hanno fatte due. Se è tanto. O una. O zero.
C’è stato un periodo in cui un sacco di gente veniva da me – e chi vi scrive è abbastanza l’ultima ruota del carro – dicendo baldanzosa “Ho avuto un’idea geniale: faccio un festival”. Bene, per me questa frase era un segnale automatico che l’interlocutore di fronte non aveva la minima idea di ciò di cui stava parlando: “fare un festival” non è un’idea geniale, è un’idea banale e che soprattutto chiama in causa molta fatica (molta!) e poco guadagno (poco). Se pensi sia il contrario, è perché credi di poter diventare Coachella o il Sonar già alla prima edizione. Beh: se pensi così, sei un fesso. Uno che non sa di che parla. Sorry per la durezza ma è così, è algebrico.
Ad ogni modo: grazie al lavoro di gente pervicacemente appassionata di musica “nuova”, in Italia nell’ultimo decennio si è creata una bella scena di festival. Non siamo e non saremo mai le Fiandre, o l’Inghilterra, ma ce la caviamo.
Risultato incredibile, questo: perché in realtà gran parte dell’audience potenziale musica in Italia ha un modo di ragionare che, visto dalla prospettiva festivaliera, è da pigne in testa. Da noi non è “Ma che figo, pago 50 euro e riesco a vedere un sacco di musica” quanto invece un “E perché cazzo devo pagare 50 euro quando l’unico artista che mi interessa davvero posso vederlo a 30 euro da qualche altra parte?”. Per noi in Italia, la musica – ma in generale la vita – è ancora troppo spesso una faccenda di guelfi e ghibellini, se mi piace X allora Y non vale una sega o comunque non merita la mia attenzione. Ecco perché in Italia non abbiamo e presumibilmente non avremo mai i grandissimi festival alla Primavera: un po’ perché da noi le istituzioni i grandi eventi musicali contemporanei li ostacolano invece che aiutarli, un po’ perché la cultura musicale media in Italia è ancora un po’ sclerotizzata su Sanremo e sulle tatangelate d’alessie, un po’ perché comunque manca il piglio “da festival” per cui tu vuoi vedere più cose, vuoi scoprirne, vuoi “perderti” in un evento – e lo vuoi fare per il gusto della musica, solo per quello, non per il gusto (in)consciamente vanesio di far vedere ai tuoi amici su Instragram quanto sei figo perché sei al Primavera o al Coachella.
Ma tornando al punto: come dicevamo, in Italia si è creata sì una scena di festival viva, valida, attraente. Per lo più boutique festival, eventi da 2/3000 persone a serata, in contesti molto “casalinghi” per ambientazione geografica e anche per piglio delle persone che lo fanno. E’ diventata la nostra particolarità. E, credeteci, non è una brutta particolarità. Anzi.
C’eravamo, quando sono nati i primi impulsi per creare la piattaforma Italian Music Festivals, in primis grazie a Dino Lupelli. C’era un grande ottimismo. Nessuno lo diceva esplicitamente, ma c’era l’impressione di aver fatto la cosa giusta nel momento giusto, ciascuno col proprio festival, con la propria “creatura”, e che quindi pur tra qualche difficoltà non si potesse che crescere (arrivando finalmente ai livelli inglesi, francesi o spagnoli, o giù di lì). D’altro canto, sembrava davvero l’onda giusta: il pubblico cresceva, l’interesse dei brand (fondamentali per l’equilibrio economico di un festival) iniziava a fare capolino, si iniziava ad annusare nell’aria ‘sta cosa per cui l’entità-festival diventava, diciamolo chiaramente, di moda.
Club To Club si è sfilato subito dalla faccenda. Altre realtà, vedi Movement/Kappa FuturFestival, non erano mai nemmeno realmente state considerate, perché considerate un po’ troppo “discotecare” e poco “quality” (il nome originale era Italian Quality Music Festivals, poi saggiamente la “q” è stata pensionata). Il paradosso quindi è che Torino, la città festivaliera italiana per eccellenza (non solo nella musica), all’interno della piattaforma era ed è rappresentata ad un certo punto da un festival nato a Vercelli (Jazz:Re:Found), e che Torino comunque potrebbe abbandonarla presto.
All’epoca, non un grande problema per nessuno. L’isolazionismo di Club To Club, interessato a fare rete con l’Europa e non all’interno dell’Italia, è qualcosa di cui si è preso atto. Vogliono stare da soli? Lo facciano. Ok. Buon per loro, o peggio per loro. Si è sottovalutato il know how di conoscenze che sia C2C ma anche Movement/Kappa FuturFestival potevano dare al tutto, il know how pratico ma anche il loro modo di agire business oriented. “Io devo proteggere il mio festival”, diceva Sergio Ricciardone, il direttore artistico di Club To Club, quando saltavano fuori le lamentele altrui per le esclusive richieste agli artisti da parte del suo festival (suoni solo da me e in anteprima da me, dagli altri non ci vai o ci vai dopo – e ti pago un extra per questo disturbo). Poco poetico, poco “di gruppo”, poco costruttivo? Indubbiamente.
Però la poesia poi si fa in presto a spazzarla via. roBOt si prese la clamorosa batosta che sappiamo; anche Home a Treviso, che pareva una macchina da guerra macina-numeri ed era il festival di IMF dalle dimensioni di gran lunga più imponenti, ha infilato di recente un paio di edizioni non fortunata; e in generale tutti gli altri si sono accorti che sì, si era sull’onda giusta, ma questa onda non è mai stata e forse non sarà mai abbastanza alta da fare chissà che salto. Il risultato è paradossale: la gente (a parole) vuole i festival, i brand vogliono investire (solo) nei festival, i media parlano dei festival, però chi i festival li fa sa che la vita è maledettamente dura, esattamente come lo era qualche anno fa, senza particolari miglioramenti nei frattempo, quando invece di festival quasi non si parlava. E’ come se tu nel tuo lavoro, in quello che fai, ricevessi un sacco di complimenti in tutta Italia ma poi a fine mese sei sempre lì che non sai se hai abbastanza soldi per pagare la bolletta della luce e l’affitto: è sconfortante. Piglia male un tot, giusto per citare i Sangue Misto.
Eppure non ci si arrende. Anche quest’anno, abbiamo avuto una stagione di festival interessante. Ed è bello ora passarla in rassegna, ora che praticamente sotto questo punto di vista siamo arrivati a fine stagione. Anche perché questa ricognizione generale ci può aiutare a capire come stiamo messi, cosa abbiamo, cosa vogliamo. Molto importante.
(Un’immagine di Nameless Music Festival; continua sotto)
Anche quest’anno Nameless è stato sensazionale. Un festival dai grandi numeri, ma che riesce ad avere un’atmosfera, un entusiasmo e una sincerità da nicchia, da “famiglia”. Se gli artisti arrivano spesso e volentieri dalle sfere dance più commerciali, l’atmosfera che si crea da quelle parti (e la scelta stessa della location: persi in una vallata in teoria ben poco trendy come la Valsassina, in realtà davvero bella ed ospitale) è unica, cosa aiutata anche dalla presenza attiva nella scena e nelle sue discussioni da parte del team del festival. Davvero ci si sente parte di una storia comune. Nota di merito: non è sempre stato così, su Nameless ha anche “piovuto” (meteorologicamente e non solo), ma si è avuto il carattere ed i mezzi per resistere a “bagni” anche dolorosi, senza rinunciare a nulla del proprio DNA. Se esiste un’”onda giusta”, in questo momento essa sta a Barzio. Sarà curioso vedere come l’evoluzione (crisi?) dell’eco-sistema EDM sarà gestito da Nameless, che comunque non è un festival che si lega solo a quel mondo lì, anche se quello è il suo core business originario (quest’anno il palco hip hop è andato alla grande, lo stage tech-house – patrocinato da Molinari – è stato una notevole sorpresa).
Diverso il discorso per Home, l’altro evento dai grandi numeri – tolti i torinesi – fra i festival in Italia non (solo) tradizionalmente pop/rock. Quindi dall’onda giusta si è stati in parte disarcionati, proprio nel momento in cui si stava lavorando per cambiare assetto: non più evento “di massa” musicalmente indistinto dove entrare a 5/10 euro, ascoltare musica a caso e gioire nello spritz (…ehi, siamo in Veneto!), ma qualcosa con scelte musicali più pensate e curate, con biglietto che diventa un investimento serio, un investimento “da appassionato” (dai 5/10 ai 25/30, per intenderci). Una transizione non semplice, che ha avuto qualche battuta d’arresto (anche solo per il meteo). Noi ovviamente speriamo che non si ritorni più all’idea del festival che fa un po’ da Olimpiadi dello Spritz: non che sia un male, tra l’altro sempre viva lo spritz!, ma perché occupandoci di musica di un certo tipo preferiamo quando c’è una curatela attorno al discorso musicale che vada oltre al “Piglia questi, perché tirano e costano poco”.
Ma passiamo ai festival più strettamente “nostri”. Come sono andati? Qual è lo stato di salute della scena? Complessivamente: stazionario. Stabile.
Partiamo dalle sorprese migliori, almeno per quello che abbiamo visto noi quest’estate: FAT FAT FAT e Sticker Mule Festival. Sulla qualità di FAT FAT FAT, non c’è nemmeno bisogno di parlare. Anzi, hanno fatto definitivamente la scelta coraggiosa di legarsi solo ad un certo tipo di dancefloor, quello di impronta per lo più theoparrishiana, una scelta che restringe il campo d’azione e che può essere anche un mezzo suicidio economico. Invece se l’anno scorso il festival come numeri era andato sinceramente sotto le aspettative, quest’anno ha raddoppiato le presenze, a sostanziale parità di qualità ed importanza della line up. Un fenomeno quasi inspiegabile; ma la dimostrazione che il team del festival ha saputo lavorare bene sia sul territorio che su base nazionale, andando a “pescare” le persone giuste per sé e non scoraggiandosi quando, nel 2017, i risultati erano venuti fuori inferiori alle attese e agli sforzi. Molto più spiegabile invece il successo di Sticker Mule Festival: uno sforzo economico solido ed importante e nomi in grado di attrarre un pubblico più vario (classico esempio: Apparat, ma anche una Ellen Allien) hanno portato ad un deciso aumento di pubblico rispetto alla scorsa edizione. Per Sticker Mule l’impressione è che il pubblico sia ancora più genericamente sulla falsariga del “Aoh, andiamo a ballare la cassa in quattro stasera” più che di raffinati gourmet del digitale ma questo, bisogna metterselo in testa ed abbandonare ogni snobismo, non deve essere visto come una colpa quanto invece anche e soprattutto come una opportunità, una via su cui è bello lavorare e costruire. Restiamo convinti che sia più soddisfacente (e utile) far scoprire Apparat a un fan di Vasco e degli Eiffel, che baloccarsi tra Silent Servant e Legowelt in eterno tra chi già li ama (nota bene: sono artisti super, Silent Servant e Legowelt). Anche perché facendo scoprire Apparat, poi infili magari anche chicche particolari ed osure house, techno o pure più downtempo e spezzate, con nomi meno nazionalpopolari ma non per questo meno validi.
E’ rimasto stabile un altro gioiello che tanto amiamo, Dancity, che però dovrebbe smetterla di essere un animo in pena sul calendario (…ok, probabilmente non è colpa sua): inizio agosto, fine giugno, metà luglio, fine luglio, quest’anno invece fine agosto. Da mal di testa. Soprattutto, dà un senso di precarietà che il festival umbro invece non (si) merita, visto quanto le sue line up sono sempre assolutamente studiatissime, preziosissime, con un perfetto mix fra dance e ricerca, fra nomi grossi e scoperte incredibili ed inedite. Poi chiaro, Foligno è decentrata, e fare line up “preziose” non è mai il modo migliore per fare numeri, ma la storia di Dancity e talmente lunga e di qualità che forse uno dei motivi per cui non ha spiccato il volo è proprio questo nomadismo calendarico. Non l’unico, ma uno dei principali. Per il resto, meriterebbe di stare tra i top festival europei, mica solo italiani. Per svariati motivi, che più volte abbiamo raccontato negli anni.
Non hanno avuto quanto meritavano (leggi: una presenza di pubblico monumentale) due festival che hanno avuto la fortuna – e soprattutto la bravura – di guadagnarsi l’uso di location dalla bellezza strepitosa, pensiamo a Musical Zoo e NeXTones: entrambi se la sono salvata, ma il tempo li ha penalizzati, e la risposta del pubblico dal tempo si è fatta influenzare. E’ che, lo diciamo noi ma forse lo pensano anche loro, la loro proposta è così bella in primis dal punto di vista logistico ma anche per la proposta artistica che non dovrebbe essere la pioggia a fermarti. Un po’ ti scoraggi. Poi, alla fine Musical Zoo si farà anche l’anno prossimo, ne siamo convinti, troppo bello il team del festival e troppo iconico per la città di Brescia, e NeXTones speriamo che pure nel 2019 riesca ad offrire ciò che pochi festival al mondo (ripetiamo: al mondo) possono offrire, ma capiamo lo scoramento di chi crea questi due eventi. E anche il nostro, visto che li vorremmo sempre pieni (…e magari non in contemporanea come quest’anno). Ad ogni modo, chi quest’anno ci è andato si è comunque trovato alla grande. I festival in crisi e tristi sono altri.
…e quelli per fortuna quest’anno non ci sono stati o almeno, nelle nostre peregrinazioni non ne abbiamo incontrati. Passando ai tagli grossi, MiF a Rimini è andato un po’ sotto le aspettative (ma non è ancora un festival “storico”: vediamo come reagirà), Kappa FuturFestival è stato un trionfo estivo come sempre e anche più di sempre (quarto palco aggiunto, location sempre più incredibile), Movement invece quest’anno ha fatto un grosso azzardo – spostarsi dalla rassicurante coperta di Linus del 31 ottobre, puntare su nomi atipici per sé e il proprio pubblico come Jon Hopkins, Waajeed, Lone e pure Cosmo – e non gli è andata per nulla male. Certo, ora è un festival a metà del guado: non è più la giga-festa d’Italia di Halloween con numeri-monstre (anche se è rimasto a presidiare la data facendo una versione extra-large della serata Shout! con Richie Hawtin, Tale Of Us, Len Faki, praticamente un mini-Movement “vecchio stile”, con ottima risposta di pubblico), deve ancora diventare il festival-elettronico-a-trecentosessanta-gradi, perché su quello il suo pubblico un po’ ci sta dentro un po’ no. Però esattamente come ha vinto la sfida di Kappa (stesso team per i due festival, ricordiamolo) portando la gente a ballare alle due del pomeriggio, cosa incredibile per l’Italia, allo stesso modo contando sull’efficacia dei suoi meccanismi nel rapportarsi col proprio pubblico di riferimento questo guado a metà potrebbe venir attraversato da Movement dalla parte giusta, ponendo nuovi colori, sapori, stimoli, sviluppi.
Una cosa è certa. A Torino i festival li sanno fare, a Torino la gente ci viene, e gli stessi torinesi riescono comunque ad essere un pubblico partecipe, attento, entusiasta. Che si sa anche segmentare in categorie diverse. Di Club To Club parleremo diffusamente nei prossimi giorni, ma quello che si può già dire qui è che è stata un’edizione riuscita, con un buon riscontro di pubblico (anche se i sold out che un po’ in tanti si aspettavano non sono arrivati, se non forse in extremis e in modo un po’ forzato… e la cifra di 60.000 persone annunciata nei comunicati stampa come presenza è un po’ una rodomontata evitabile che ricorda il Traffic Festival dei bei tempi, quando 20.000 persone diventavano, oplà, 90.000 e passa). La direzione artistica resta sempre di altissimo livello, ed è la dimostrazione che se metti insieme un po’ di real politik – il discorso che facevamo prima sul “proteggere il festival” – puoi anche permetterti poi di rischiare dal punto di vista delle scelte musicali, portando il pubblico dalla tua e senza per forza parlarti addosso.
(Foto di Daniele Baldi; continua sotto)
Una cosa fatecela far notare: Torino non è la città dei festival per grazia divina. Lo è per le persone che lavorano da anni ai festival suddetti, ma lo è anche perché negli ultimi decenni – pur tra alti e bassi – la politica ha cercato di incoraggiare l’imprenditoria culturale e la predisposizione cittadina ad ospitare e valorizzare cultura. Cultura di respiro internazionale. Speriamo che questo patrimonio non venga dissipato. Una discussione che è in corso, al di là di come la vediate politicamente.
Una città, anzi, una regione che storicamente ha sempre dato buon peso alla cultura è l’Emilia Romagna. Anche qui, al netto degli alti e bassi. Di sicuro, roBOt ha avuto vita più facile a nascere e svilupparsi a Bologna che altrove. Non che questo significhi che abbia avuto la strada spianata, tutt’altro, e anche dal punto di vista economico gli appoggi sono sempre stati risicatissimi se non residuali, ma di sicuro location, permessi, in generale un “clima cittadino” favorevole ha permesso a roBOt di innalzarsi fino a presenze da cinque cifre. Poi l’edizione del passo più lungo della gamba e, fra le varie cose, più ancora che il rapporto con le istituzioni a spezzarsi è stato proprio il “clima cittadino”. Non si spiega altrimenti l’affluenza solo a malapena discreta per la parte di festival programmata all’ex-Galleria d’Arte Moderna in zona Fiera, un posto tra l’altro con delle potenzialità altissime: negli anni passati, una line up così piena di chicche e ben fatta avrebbe non solo fatto sold out a Palazzo Re Enzo, avrebbe proprio lasciato migliaia di persone fuori dai cancelli a sperare di rientrare. Si è lacerato il rapporto di fiducia con la città, in primis; bisogna avere la pazienza di ricostruirlo. Più di quanto ha fatto, roBOt non poteva fare: line up di alta qualità, venue nuova e davvero interessante, prezzi bassi. La strada è quella giusta. E’ stata premiata a metà, nel 2018, ma la strada è quella giusta, non ve n’è. Chiaro che veder suonare artisti eccezionali di fronte a sale semivuote non piace a nessuno, a partire dagli artisti (che poi, l’ex GAM non aiuta, lì ottocento persone sembrano praticamente la metà, a livello di percezione, per come sono dislocati gli spazi). Ma roBOt è un patrimonio di tutti che non andrebbe dissipato. A maggior ragione vedendo come ci mette la faccia e riparte con umiltà, gusto e misura.
Resta infine Roma, con Spring Attitude. Che un festival che ha “Spring” nel nome si svolga ad autunno fa un po’ ridere; quello che non fa ridere ma strappa un apprezzamento è il coraggio di cambiare. In questo 2018 SA ha corso un azzardo, ponendo drasticamente gli italiani in primo piano come mai in passato (ok, nell’indie-pop questa è una mossa vincente già da qualche tempo, ma nei contesti più elettronici ad oggi no, proprio per nulla) e scommettendo sul fatto che è possibile legare Myss Keta con Dj Tennis e i Nu Guinea (che sia possibile lo crediamo noi qui a Soundwall per primi), o Peggy Gou con Demdike Stare e Roly Porter. Certo, c’è stato l’effetto Frah Quintale, diventato “larger than the festival”, il giorno che c’era lui l’ex Dogana era strapiena e nella sua sala era impossibile entrare dalla folla, con tanto di lamentele di chi è rimasto fuori, oltre al fatto che forse mai nella sua storia Spring Attidue ha venduto così tante prevendite; ma non è che finito il suo set siano rimaste le macerie e i caspugli che rotolano in giro, zero, il turnover di pubblico è stato reale, se i “quintalini” se ne sono andati in massa sono comunque stati rimpiazzati da chi questo Spring Attitude autunnale comunque non se lo voleva perdere (e a ragione: è stato un festival in cui hanno suonato praticamente tutti bene, davvero nessuno ha deluso e tutti se la sono giocata alla grande).
Ecco. Questo per stare ai festival che ha visto chi vi scrive. La panoramica è parziale, molte cose che avrei voluto vedere me le sono giocoforza perse (Ortigia Sound System, per fare un nome, o Locus), e ci sono pure eventi che ho visto e a cui ho partecipato che avrebbero bisogno di un lungo discorso a parte (Viva Festival: affascinante, ambizioso, ma ancora imperfetto), così come ci sono tante realtà più piccole che meriterebbero più di un incoraggiamento, oltre che ovviamente almeno una citazione. Così come un capitolo a parte meriterebbe qualche segnale per cui festival storicamente da estate standard italiana (indie) rock con ingresso gratuito hanno iniziato a buttare più di un occhio sull’elettronica (ad esempio il MAG alle porta di Verona, a Sona, con Dj Tennis, Bawrut e Richard Dorfmeister in cartellone).
Però ecco, se siete arrivati fino in fondo, un minimo di visione d’insieme spero di essere riuscito ad offrirvela. Come stiamo, allora?
Non benissimo. Ma abbastanza bene. L’ottimismo su una crescita inevitabile ed esponenziale è ormai un ricordo del passato. Si fatica sempre dannatamente tanto, e a questo punto probabilmente sempre si faticherà: inutile farsi illusioni, l’Italia è così. Ha troppi limiti e troppe cose inutilmente complicate, così come la gente ha troppi schematismi mentali che da altre parti non hanno. Non diventeremo mai una “nazione di festival”. Si mettano l’anima in pace, quelli che muovono i grandi investimenti pubblicitari: puntare solo ed esclusivamente sui festival non ti garantirà una copertura totale della fascia di mercato legata emotivamente alla musica, agli eventi, agli spettacoli, alle nuove forme di cultura, a tutto ciò che non è pop così mainstream da essere quasi stucchevole. Bisognerebbe quindi essere un po’ meno concentrati sui festival, e riscoprire altre forme di presenza (diluite nell’anno, magari, e non solo concentrate in un weekend solo). Una riscoperta che può e deve darsi anche il pubblico: ora che i festival da noi ci sono, sono buoni, sono in bel numero, forse è il momento di riscoprire anche il piacere della singola club night, dell’appuntamento che si fa abitudine frequente.
Perché se pensi che la musica e le situazioni belle ormai le trovi nei festival, ti perdi una bella fetta della storia. E’ come pensare che Parigi sia solo la Tour Eiffel (che comunque è splendida), e Roma solo il Colosseo (che comunque lascia senza fiato). Un peccato, una visione monca ed inaccurata. No?
Per dare comunque una risposta alla domanda data nel titolo, perché una risposta va data, essa comunque resta: sì. Ne vale la pena. Il festival resta un’esperienza bellissima: per chi lo vive, per chi lo idea, per chi lo fa, per chi lo supporta. Bellissima e particolare. Basta non credere sia tutto facile e scontato (da un lato); basta non credere sia un feticcio che vi rende fighi così di suo e non avete più bisogno di altro (dalla prospettiva di chi fa da audience, dalla prospettiva di chi la musica la vive, la consuma, la ama).