Il periodo storico in cui si inserisce (perfettamente) la nostra storia è stato senza dubbio caratterizzato da un grande vuoto, sotto diversi punti di vista, nel mondo della musica elettronica e non. Il periodo della minimal stava giungendo al suo tramonto. E si lasciava dietro un sacco di voglia repressa. Quella dei giovani che si approcciavano al club con la speranza di fare festa e che invece l’eccessiva essenzialità ed opacità totalmente volute per quel filone stilistico avevano reso sempre più speranzosi che qualcosa di nuovo potesse liberare quel celato desiderio di euforia fine a se stessa che sopiva sempre più a fondo nel loro animo. Anche l’hip-hop nostrano, lasciatosi alle spalle onori ed oneri degli anni d’oro, viveva momenti di grande rivoluzione, con un’evidente banalizzazione e commercializzazione dei suoi talenti, agli albori di un processo che negli anni a seguire avrebbe poi raggiunto il suo zenit (con tutti i punti a favore e sfavore del caso).
All’improvviso, semplicemente, successe.
Un nuovo suono iniziò a prendere piede nei piccoli club (quando ancora non ne chiudevano uno a settimana) e si espanse a macchia d’olio per tutto il sottobosco della scena meneghina come se fosse sempre stato lì. Una visione anticipata, come spesso è accaduto negli ultimi 20 anni, dal Plastic. Passando poi per i party nel sottoscala del Sottomarino Giallo con le mitiche feste Discolimone ed il sempre attento Rocket, capace di proporre a costo zero alcuni di coloro che hanno poi portato il genere al suo massimo splendore. Chi vi scrive ed una manciata di altre persone per qualche tempo hanno semplicemente goduto nel sentirsi investire e trasportare da questa ventata d’aria fresca nelle loro orecchie.
Fu amore a prima vista con la scena. La fidget house aveva impattato fortissimo e, col suo minestrone infinito di influenze musicali (dalla UK garage al grime, dal french touch all’electro, passando per dubstep, kuduro e hip-hop) era riuscita a convogliare (per la prima volta da molto tempo) buona parte di quelle sottoculture e “fazioni” che si erano sempre ostracizzate vicendevolmente dalle nostre parti, garantendosi un pubblico tanto eterogeneo fuori dal club quanto omogeneo sul dancefloor.
L’occasione per verificare l’esattezza questo teorema ed allo stesso tempo per prendere il termometro della scena fidget di fronte al “grande pubblico” furono i giovedì WonKa all’Amnesia, uno dei locali più in voga anche e soprattutto durante il periodo minimal. La prima serata fu un ottimo esempio di ciò che questo filone musicale presumeva di poter fondere: un’inedita compartecipazione fra una leggenda del turntablism come Grandmaster Flash, il tocco french di Brodinski (che già imperversava sulla Turbo del canadese Tiga) e due semi-sconosciuti ragazzi veneti, con addosso le maschere da black Spyderman e divenuti poi celebri col nome di The Bloody Beetroots. Non ce ne vogliano né Bob Rifo e nemmeno The Bogeyman, ma siamo abbastanza sicuri che quella sera la bilancia del guest per cui la gente era presente in quel di via Gatto pendesse fortemente dalla parte dell’uomo delle Barbados. Eppure fu un plebiscito anche e soprattutto per loro, capaci di non far “scappare” il pubblico venuto per l’hip-hop creando un immediato feeling che fu la definitiva scintilla d’innesco del movimento. Ora era tutto alla luce del sole.
All’improvviso sembrava non si parlasse d’altro sotto la Madonnina. Le serate fidget spuntavano come funghi, era diventato impossibile tenersi alla larga dai party Reset! oppure dalle trasgressive (a tratti fin quasi al kitch) notti insonni della Neon Disco. Non mancavano all’appello altri locali storici come Leoncavallo, Magnolia e Magazzini Generali. Senza dimenticare una moltitudine di loft parties e secret events. Durante quel periodo passarono dalle nostre parti spesso e volentieri nomi come Boys Noize, un giovanissimo Diplo, i MixHell dell’ex Sepultura Igor Cavalera, i 2ManyDJs, i MSTRKRFT, Tommie Sunshine, i Justice e chi più ne ha più ne metta, andando a contribuire tutti all’incremento di popolarità della fidget, seppur non facendone direttamente parte. I Crookers ed i Bloody Beetroots furono persino scelti per chiudere dopo gli Underworld al Traffic Festival di fronte a decine di migliaia di persone alla Reggia di Venaria, dove probabilmente un suono così marcatamente electro non lo si sentiva echeggiare dal lontano 2007, quando da una piramide si scrissero ampie pagine di storia (vi ricorda niente?). Insomma, tutti sembravano voler partecipare a questo nuovo movimento, uscito dal nulla, che stava conquistando sempre maggior interesse. Anche e soprattutto fuori dai confini nazionali.
Ricordo particolarmente il Sònar 2009 come punto di massima esplosione a livello europeo del movimento fidget. Dal sabato pomeriggio con l’intero main stage al MACBA dedicato ad Ed Banger, l’etichetta di Busy P, fino alla chiusura del venerdì nello stage da sempre riservato a BBC Radio 1 con Brodinski, Erol Alkan e Don Rimini, passando per i pienoni assoluti di SebastiAn e Crookers nel main stage accanto a nomi come Richie Hawtin, LCD Soundsystem e Grace Jones ed ai live dei Late Of The Pier, dei Crystal Castles (interrotto a metà causa rissa di tutto il gruppo con la sicurezza del festival) e Buraka Som Sistema, tutti racchiusi nel filone musicale infinito da cui la fidget traeva forza vitale. In quel Sònar si ebbe la prova che quanto seminato nel Regno Unito da nomi come Switch e Jesse Rose e germogliato poi dalle nostre parti stava ora fiorendo in tutto il continente in maniera incontrollabile. La conferma fu vedere, l’autunno successivo, il Flanders Expo di Gent quasi crollare per i salti della gente durante il set dei Bloody Beetroots, in quell’I Love Techno dove una volta erano le ritmiche forsennate di Rush, Murphy e Dave Clarke a farla da padroni. Fu la conferma che il treno non si poteva più arrestare.
Così, all’improvviso, nomi come The Bloody Beetroots, Crookers, Congorock, Nic Sarno, Scuola Furano, His Majesty Andre, Gigi Barocco, 3 Is A Crowd, Belzebass e Pelussje passarono dall’essere una piccola parte della scena underground milanese ad affollare (chi più, chi meno) le line up di molti degli eventi principali della scena prima europea e, in men che non si dicesse, anche globale. Dopo tanto tempo, il suono italiano poteva vantare nuovamente una credibilità riconosciuta anche all’estero. Fino ad arrivare in Australia e negli Stati Uniti, dove la figura di Steve Aoki e della sua Dim Mak stavano iniziando ad affermarsi con sempre maggior vigore sulla West Coast.
E proprio Steve fu una delle figure che mi stregarono maggiormente e che seppe rappresentare al meglio, nel bene e nel male, l’obbiettivo che il movimento fidget si era preposto di raggiungere. Ricordo la sua prima volta a Milano, al WonKa. Si sentiva parlare spesso di questo americano matto da legare che sembrava più il front man di un gruppo punk piuttosto che un dj. Infatti il suo fu tutt’altro che un dj set. Mai si era visto in un locale di musica elettronica milanese un artista capace di mettere “Killing in the name of” dei RATM e di fare stage diving dal booth come se niente fosse tra un pezzo electro e l’altro.
Ecco, per quanto mi riguardo il segreto della fidget era tutto lì. Non era la ricerca di un’evoluzione musicale (sebbene per certi versi fosse qualcosa di mai sentito prima), non era neanche il tentativo di giocare ai ribelli a tutti i costi (come poteva in effetti sembrare), era semplicemente quello che era, senza fronzoli e senza limiti predefiniti. Ci divertivamo come pazzi perché era tutto così meravigliosamente sbagliato, perché stavamo prendendo i canoni del clubbing moderno e li stavamo rimodellando a piacimento. Ed ogni artista aveva il suo modo diverso di farlo, così come il pubblico diametralmente opposto che si poteva trovare da una festa all’altra aveva un ruolo chiave nella riuscita degli eventi. Ci si conosceva tutti, e come una grande famiglia ognuno portò un po’ del suo background musicale per creare un ecosistema di musica e festa in cui si continuava a spingersi sempre più oltre, senza più capire quale sarebbe stato il limite. Fino a che semplicemente la scena è implosa su se stessa.
Con la stessa rapidità con cui era entrata nel cuore dei milanesi, la fidget scomparì dal radar cittadino. Senza che ci fosse stato un evento scatenante. Semplicemente esaurì il suo corso ed uscì in punta di piedi, lasciandosi alle spalle solo il ricordo di ciò che era stato e confluendo a sua volta in altri movimenti in ascesa come dubstep e nu disco, ma soprattutto in quella che sarebbe stata identificata prima come big room ed infine come EDM. E paradossalmente continuò il suo corso a pieno regime all’estero per alcune stagioni, specialmente negli Stati Uniti ed in Australia.
Come alla fine di un film, è ora di dirvi cosa fanno oggi i nostri eroi: i Bloody Beetroots, dopo aver girato il mondo come dj e fatto lo stesso (con risultati altalenanti) come band, tramite il progetto Death Crew 77, hanno diviso le loro strade e tutto è tornato (come era stato in origine) nelle mani di Bob Rifo, che oggi si esibisce sotto il moniker di SBCR e che è stato recentemente anche sulle nostre pagine. Anche il progetto Crookers è rimasto nelle mani del solo Phra, con il compagno Bot che ha preferirsi concentrarsi su progetti da solista. Congorock si è trasferito in California ed ha collaborato con artisti del calibro di Skrillex e Sean Paul. Non credo sia necessario raccontarvi di cosa si occupa attualmente Steve Aoki che, piaccia o non piaccia, continua a prendere le regole del clubbing ed a riscriverle a suo piacimento.
La domanda che resta da porsi è: perché è finita così? E cosa ha lasciato quindi quel periodo in ciò che è oggi la club culture milanese? Ci potrebbero essere molte risposte a questa domanda: partendo dal fatto che un suono così carico di influenze, così iper-concentrato, possa tendere ad esaurire la sua presa in tempo breve (anche se poi, come detto, si possono trovare molti elementi riconducibili ad esso in molti dei generi in voga in questo momento). Se a questo aggiungiamo il fatto che (seppur sia partita con presupposti diversi) è inutile negare che la fidget sia diventata poi una moda. E come ogni moda che rispetti ha avuto i suoi “5 minuti di gloria” ed è tornata nel dinenticatoio. Ma se vogliamo vederla in maniera un filo più romantica, come vale per i grandi talenti bruciati della storia, forse non la ricorderemmo con lo stesso palpitamento se non avesse esaurito la sua fiamma così in fretta.
Quel che è innegabile è che nessuna motivazione o teoria renderebbe dovuta giustizia a ciò che la fidget (e tutto l’ecosistema di persone, luoghi e musica ad essa associato) hanno saputo creare durante quel lasso di tempo in una città difficile e “choosy” come il capoluogo lombardo. Come detto, seppur ben consci che molte delle meccaniche alla base di ciò che era quel movimento sembravano quasi studiate a tavolino per colmare il gap lasciato da anni di suoni scuri e capillari, una volta innescata la scintilla, tutto ciò che ne è scaturito è stato meravigliosamente spontaneo, raggiungendo (seppur per un breve periodo) un target spropositato di persone, riunite sotto il segno di qualcosa che, in un modo o nell’altro, le ha fatte stare bene insieme. Anche solo per un po’.