Che i festival siano tornati di moda da ormai una decina d’anni è un dato certo, così come il fatto che siano diventati un business milionario per gli organizzatori e promoter. Per anni, l’idea ha funzionato più che egregiamente per quel sapore anni ’70 e vagamente hippy del far le cose insieme, del vivere un’esperienza corale con una colonna sonora perfetta, impreziosita da reunion d’effetto di anno in anno. Questo poteva onestamente essere vero una decina di anni fa, prima che l’entropia avesse la meglio, quando le cose erano ancora prevedibili e dunque governabili, ora francamente i festival hanno iniziato a stufare. Da piccoli e indipendenti – divertissement per i gli appassionati- a giganti macchine produci introiti; da bucoliche cornici in campagna ad enormi capannoni in periferia; da precise line up a torrenziali quantità di inutili nomi.
A parte l’irritante problema della Coda Infinita, categoria dello spirito che si palesa durante i festival in diverse occasioni -coda all’entrata, coda alla sicurezza, coda al bar, coda alla cassa, coda alle birre (calde), code al bagno- il tutto ormai sembra aver assunto sembianze circensi, con tipologie umane diventate caratteri veri e propri: la gente di fronte al palco, le fotografe cesse di qualche magazine alla moda che fanno le splendide con quindici pass al collo, i critici musicali che sonnecchiano annoiati da tutto, i fattoni che spingono e urlano, ventenni che all’una del pomeriggio vengono già portati via in ambulanza, gli italiani con gli occhiali da sole alle due del mattino, gli inglesi ubriachi alle due del pomeriggio, spagnoli che urlano e tedeschi in calzini, una specie di versione 3.0 della barzelletta degli europei in un aeroplano…
In questa per nulla rassicurante cornice, spuntano fortunatamente ancora festival dove le cose sono ancora rimaste naïve, dove ancora sembra che le cose di facciano per divertimento e non per calcolo. Sappiamo che è ancora una questione di tempo, tutto si evolve verso il capitalismo, anche la musica, ma per ora ci godiamo ancora questi nomi. Il Field Day di Londra è al limite tra il diventare un festival-circo e rimanere invece un festival divertente, giunto com’è alla sua settima edizione.
Diviso in due giorni e concettualmente in due generi – il sabato una line up eclettica che riusciva a coprire un vasto spettro di generi musicali e la domenica una giornata decisamente rock, al Field Days a Victoria Park abbiamo visto parecchia musica nuova e purtroppo alcune band affermate che avremmo fatto volentieri a meno di vedere ed ascoltare. L’idea del festival è quella di promuovere le realtà musicali e gestionali della città, dando dunque spazio a organizzatori londinesi, quali Shakewell Arms, Eat Your Own Ears, Bugged Out tra gli altri.
Per quanto riguarda il versante più pop si comincia sabato con Only Real, la band del londinese Naill Galvin, una specie di crossover tra Belle & Sebastian, Salt’n’Pepa e Poolside: “bianchi che rappano in bicicletta” potrebbe essere una descrizione piuttosto veritiera vista l’attitudine a mischiare rap e chitarre in levare. Arthur Beatrice seguono intorno alle tre del pomeriggio, sotto il segno dei Metronomy: non c’è niente da fare, agli inglesi piace quel suono pop da camera, con un minimo di cassa ma decisamente compito ed educato. Dire che è noioso è dire poco. Lo stesso vale per gli All We Are, tanto carini su disco quanto mosci sul palco. Il problema di questi festival è che per allungare la line-up si chiamano band che in verità su un palco di grandi dimensioni non hanno alcun senso e pratica, gruppi che qualora fossero visti in un piccolo pub suonerebbero meglio. Jaako Eino Kalevi non solo ha vinto la palma del più stiloso e del nome più impronunciabile, ma ha anche quel della migliore next big thing, grazie ad una vaporosa psichedelia primi anni ’80. John Wizard seguono a ruota, e colpiscono per l’ottimo suono à la Vampire Weekend. Il quintetto del Sud Africa propone un electro pop africano, con idee brillanti e convincenti.
I nomi pop più famosi, Blood Orange e Sky Ferriera, hanno invertiti i ruoli: mentre il primo su disco è una bomba funk e la seconda su disco, be’ fa pena, dal vivo capita esattamente l’opposto: Blood Orange senza voce e affannato, sopraffatto da coriste più brave di lui e da strumentisti da Live Aid suona un mid-tempo funky senza avere la verve di Prince, mentre Sky Ferreira, pur sembrando sempre una bambola drogata, convince con una performance smaccatamente pop ma azzeccata, dove i nomi che vengono al pettine sono sì Blondie e Cyndi Lauper, ma anche Suicide e My Bloody Valentine (ok, ok, all’acqua di rose…).
John Hopkins dal vivo e dunque con un impianto adeguato è un toccasana per l’anima, visto che riesce a martellare con classe, riuscendo nella titanica impresa di far muovere il piedino anche al più rigido degli inglesi -notoriamente pubblico immobile ai concerti. Nonostante il set più atteso della giornata fosse Jamie xx, è stato Todd Terje a spazzare via tutti i concorrenti: all’interno del tendone di Resident Advisor, il baffuto norvegese è stato acclamato come un vincitore dei Mondiali tanta era l’attesa, e quando duemila persone intonano Inspector Norse a squarciagola ti viene in mente perché i festival alla fine sono così divertenti. It’s Album Time dal vivo è una festa tropicale infusa di italo disco, dove i suoni e gli strumenti esplodono come in un carnevale balearico. Idolo indiscusso.
Il migliore artista della giornata si rivela Omar Souleyman, musicista iraniano prodotto da Four Tet – non a caso a bordo palco durante l’intera performance. La sua è un’elettronica mediorientale, con suoni di sitar, di Sac (la chitarra turca) e Tar (liuto iraniano), di certo non avete mai ascoltato nulla di simile prima d’ora. Fatelo.
Spetta a SBTRKTchiudere le danze della prima giornata, suonando sul palco con un enorme drago di cartapesta, presentando i brani nuovi scritti con Sampha ed ospitando la cantante dei Little Dragon nella conclusiva Wildfire. Pop scritto e suonato nel migliore dei modi.
Un nome nuovo su cui puntare è Tourist, londinese fino al midollo, vista la somiglianza con Jamie xx, Four Tet, Ultraista, The XX, Young Turks e compagnia anglosassone, ma con una spinta club niente male. I lettori di Soundwall conoscono bene SOHN ed il suo talento, ma l’esibizione live ha leggermente deluso le aspettative, risultando monotona e scialba.
La domenica il clima si è fatto più rilassato e più adulto. Diversamente dal sabato, i palchi si sono ridotti da sei a tre, concedendoci più tempo per meno artisti, dandoci l’opportunità di focalizzarci meglio. I due nomi più importanti del sabato pomeriggio sono Drenge e Telegram: i primi suonano grunge e sono rei di aver scritto Fuckabout, miglior pezzo dal vivo di questo festival. I secondi si posizionano esattamente in mezzo a due band largamente sopravvalutate, ovvero Temples e The Horrors, entrambe presenti al festival. Temples suonano una psichedelia di derivazione anglosassone, con cenni alla scena di Canterbury, gli Horrors suonavano un discreto garage punk agli inizi, per poi perdersi con gli anni nel marasma pop da Mtv (vedi l’ultimo disco Luminous).
Il maestro della chill-wave Nguzunguzu, dagli Stati Uniti, narcotizza il pubblico del tendone Red Bull intorno alle sette di sera, offrendo una drogatissima colonna sonora per il tramonto, ottimo live set. Sui Pixies non c’è molto da dire, visto l’esaustivo articolo uscito su GQ Italia. Sottoscriviamo ogni singola parola.
Future Islands vincono la palma di miglior live della domenica. Sì, è vero che il cantante Samuel T. Herring è imbarazzante sul palco (balla come un tarantolato, sproloquia tra una canzone e l’altra, si atteggia come Herry Rollins e canta come Peter Murphy) e sì, è vero che ricordano mille gruppi, ma a conti fatti, hanno pubblicato uno dei migliori dischi di questo 2014 e dal vivo emanano una magnetica energia che incolla gli occhi al palco. Chaepau.
Questo Field Days ha sancito un generale ritorno di certe sonorità proprie dei primi anni ’90, ponendo l’accento sulle chitarre e sul versante più rock: da una parte abbiamo la neo psichedelia di Temples, The Horrors, Telegram, The Wytches e dall’altra il neo grunge dei Drenge – a parer nostro, col prossimo disco potrebbero esplodere. Per quanto concerne l’elettronica, il suono inglese consolidato (Jamie XX, SBTRKT, Tourist) è ormai quello dell’etichetta Young Turks, in assoluto una delle più influenti degli ultimi anni -fatta esclusione per Todd Terje, un puro cavallo di razza e completamente a se stante. La sorpresa etnica, Omar Souleyman, ha piacevolmente lasciato il segno, mentre si deve assegnare la menzione speciale al dj set di Erol Alkan, sempre una spanna avanti a tutti in termini di divertimento. A proposito, qualcuno conosce il remix di Once in a lifetime dei Talking Heads che Erol ha suonato?