Nella stazione della tube di Angel qualcuno si è divertito a scrivere “Nella Bibbia, chiamano quaranta giorni di pioggia diluvio, da noi si chiama estate inglese”. Ebbene, questa edizione del Field Day è stata annacquata, quasi affogata, per due di questi quaranta giorni, rendendo il suolo su cui i palchi poggiavano e i fan camminavano, la più grande distesa di fango dai tempi di Glastonbury. Ma gli inglesi non si fanno certo fermare da un po’ d’acqua e da un po’ di fango, e non curanti delle pessime condizione atmosferiche hanno continuato a ballare e a cantare imperterriti, forse gasati dall’urlo del cantante degli Yeasayer “Maybe you can just dance the rain away” sotto un aggressivo diluvio (è effettivamente sbucato il sole poco dopo, potere della musica…).
Quando si parla di Field Day bisogna descrivere un festival le cui intenzioni sono quelle di offrire uno spaccato sull’attuale scena musicale anglosassone; un festival che vuole raccogliere il meglio di quello che sta succedendo nel Paese e indicizzarlo per palchi, utilizzando i migliori promoter e magazine come leader dei vari palchi.
Se è vero, come diceva qualcuno, che siamo fatti di storia, se si deve parlare di scena musicale inglese, non si può prescindere dal passato di un Paese che ha fatto delle colonie la propria ragion d’essere, creando scambi e commerci in ogni angolo del globo. Il rapporto tra il senso di colpa dovuto ad un passato coloniale e i paesi del terzo mondo è un argomento molto interessante che ci riserviamo di trattare in un’altra sede, ma che comunque vogliamo accennare brevemente. Quale dev’essere l’attitudine di un paese come l’Inghilterra verso le ex colonie, in ambito musicale? Brian Shimkovitz, aka Awesome Tapes From Africa, ci ha fornito un ottimo articolo, nel quale afferma che l’Occidente dovrebbe aprire le porte del music business a musicisti del terzo mondo, piuttosto, come sta succedendo a detta sua, che avere un atteggiamento paternalistico nei loro confronti. Questo argomento apre le porte ad un topic minore, ma di grande interesse per noi di Soundwall: qual è dunque la natura della scena musicale inglese? Se è vero un passato di colonie – fisiche, geografiche, economiche – ha creato una fitta rete di interscambi, è dunque vero che ha generato un massiccio scambio culturale, e viene dunque naturale chiedersi quale sia la natura oggi di questa scena. Potremmo affermare che il famoso melting pot che ti insegnano alle medie, nell’ora di geografia, quando si studia Londra, sia esattamente questo genere di musica che unisce disparate influenze e posti da ogni angolo del globo: un suono che mischia il dub giamaicano con il folk thailandese, la psichedelia con il sitar indiano, il reggae con il pop francese, insomma avete capito. La somma di questa insalata culturale è forse rappresentata da alcuni artisti invitati ad esibirsi in questo Field Day 2016: Ata Kak, Kimmo Phojonen Skin, Mbongwana Star, Orchestra Baobab, The Paradise Bangkok Molam International Band, Red Axes, solo per citarne alcuni. Non solo, alcuni dei nomi più rappresentativi della scena, sono di Londra, ma riescono a produrre una musica che suona esotica e locale allo stesso tempo – il tanto famigerato termine glocal che andava di moda qualche anno fa. Artisti come la brava Mura Masa o la talentosa Nao rappresentano la nuova generazione di musicisti nati da questo melting pot di culture che appunto il Field Day mostra nei suoi otto palchi.
Ci riserviamo il diritto di omettere nomi mastodontici come PJ Harvey o James Blake, che sicuramente conoscete a menadito e che suonano spesso in giro per l’Europa, per focalizzarci su nomi meno conosciuti al grande pubblico, ma non per questo meno importanti.
Si iniziano le danze con Avalon Emerson, forse la più grande promessa dell’anno, il suo “The Frontier” su Whities è una disco tra i migliori pubblicati recentemente. Sebbene il set di quaranta minuti, Avalon è riuscita ha tirare fuori una grande personalità nella scelta dei brani. Bravissima (aspettate e ne vedrete delle belle su di lei qui su Soundwall).
The Paradise Bangkok Molam International Band è stata un’esplosione in technicolor in mezzo ad un cielo plumbeo e grigio, con l’acqua che non ha scoraggiato le centinaia di spettatori dal ballare la psichedelia orientale della band. Simile sorte per quanto concerne Ata Kak ed la sua disco funk anni ’80.
Sul versante prettamente elettronico, i due tendoni della Bugged Out! e di Resident Advisor sono ormai un marchio di garanzia. Mentre nel primo Jackmaster giganteggia con un set largamente italo disco, nel secondo la doppietta pomeridiana formata da DJ Koze e Roman Flügel ha regalato tre ore di puro divertimento. Il primo più sperimentale e con alcuni brani mediorientali di grande effetto, il secondo più canonico nella scelta stilistica, ma sempre stilosissimo. A seguire, un mastodontico Floating Points, con una versione pompata del suo “Elaenia“: un’ora di pura psichedelia dal gusto sì retro, ma di gran classe: pensate a rock, elettronica, free jazz e psichdelia condensti in un impianto da festival e avrete una pallida idea di quanto abbiamo vissuto. Che Gold Panda fosse bravo ce n’eravamo accorti tutti, ma dal vivo lascia a bocca aperta: broken beats, brain elettronic music, chiamatela come vi pare, ma è impressionante da totale nonchalant con il cui il ragazzo esegue brani così ben strutturati.
Daphni ha suonato afro beat, anche se – guarda caso – due terzi del pubblico è stato costretto a ripararsi dal solito acquazzone ormai parecchio burrascoso – lo stesso dicasi per Psychemagik e Optimo, i quali hanno sonato di fronte ad uno sparuto gruppo di temerari.
Gli Junior Boys sono teneri con il loro synth pop da cameretta, mentre i GOAT sono una band di folk, world music e psichedelia dalla Svezia. Al limite del kitsch, vestiti come un patchwork di simboli ed archetipi antropologici e religiosi, la band scandinava impressiona da tanto furore e dalla passione dei membri, e anche dal discreto workout delle tarantolate cantanti, mai ferme per un’intera ora. La Fat White Family diverte nel suo feuilleton anti-fascista e i – scusate il gergo – fighissimi Sleaford Mods sembrano la risposta incazzata ai nostri altrettanto bravi Offlaga Disco Pax.
Con il Moon Duo veniamo catapultati nella San Francisco più psichedelica, così come con i Brian Jonestown Massacre, grandi barbe e riverberi infiniti. Sul versante folk, John Grant gigioneggia sul palco al limite del cattivo gusto, oscillando tra folk, funk elettronico anni ’80, e un pizzico di Liberaci, senza davvero convincere del tutto. Chi ha definitivamente deluso, invece, è stato il duo australiano degli Avalanches: tornati alla ribalta dopo sedici anni con un brano non impressionante, il duo ha suonato un dj set sgangherato ed un po’ troppo dozzinale, prendendosi anche qualche fischio dal sempre educato pubblico inglese (ironia). Infine, ci sentiamo di segnalarvi il duo di Tel Aviv Red Axes, pubblicato sull’etichetta francese I am a Cliché: una ventata di aria fresca nel panorama elettronico mondiale. Li aspettiamo al varco del prossimo disco.
Sebbene due giorni di diluvio universale e di fango abbiano innegabilmente reso il festival un’esperienza quasi agonistica, possiamo affermare che questa decima edizione del Field Day sia stata un’ennesima conferma.