Ci si conosce da un sacco di tempo, con Sam Shepherd alias Floating Points. Da quando era ancora nessuno, da quando in Italia anni fa gli capitava di suonare sotto un tendone con dentro delle automobili di lusso – pieno Salone del Mobile, Milano, evento sponsorizzato – di fronte a un pugno di aficionados già suoi fan e, per il resto, solo gente in giacca e cravatta che già fa fatica a distinguere Lorenzo Fragola da Marco Mengoni, figuriamoci cosa ne poteva sapere di Plastic People eccetera eccetera. Indifferenza totale. Pare impossibile, vero? Lo diciamo non per fare a gara a chi è più amico e chi conosce meglio e da più tempo uno degli artisti del momento, ma semplicemente per aiutare ad inquadrare al meglio questo chiacchierata, il suo mood.
Un’ora e passa a registratore acceso, con anche un sacco di divagazioni personali, risate, aneddoti comuni, cose che insomma non ha senso finiscano in questa pagina: questo perché Sam è lontano dall’essere una persona noiosa, piena di sé e povera di umanità, tutto concentrato sulla sua arte e sulla sua intelligenza. Zero. E’ l’esatto contrario, davvero; senza che questo tuttavia gli impedisca di essere serio, terribilmente serio quando si tratta di musica, della sua musica. E comunque: quando si è parlato dell’opportunità di passare dal rapporto di amici a quello da intervistatore/intervistato, in occasione dell’uscita del bellissimo “Elaenia”, la sua reazione è stata entusiastica. Ma pure per un motivo ben preciso: “Uh! Sì, dai! Così finalmente ho di fronte qualcuno che non mi fa le solite domande sui parallelismi tra il mio dottorato e i miei studi in neuroscienze e la mia musica…”. E infatti: si parlerà più di Srillex e di EDM che di neuroscienze. Bene così.
Guarda, mi piacerebbe iniziare da quello che secondo me è stato un punto cruciale nella tua carriera, la tua prima esibizione al Sónar…
Uh! Anni fa, vero?
Esatto. Quando hai praticamente tentato di suicidare sul nascere la tua carriera.
L’ho fatto?
L’hai fatto. Eri lì come un promettente talento emergente della musica house per dancefloor “intelligenti”, l’hype che ti accompagnava – sull’onda delle tue prime release – era questo. E tu che fai? Fai un dj set solo di rare groove, suonando tipo dei 45 giri…
(ride, NdI) Vero. E’ che non avrei saputo fare altro…?
Ma per favore! Dai, su. E’ che all’epoca, sarebbe il caso di ricordarlo, perché veramente è un po’ di anni fa e sembra un’altra era, mettersi a suonare funk e soul d’epoca al Sónar non era per nulla una cosa cool, anzi, era una cosa da vecchio trombone fuori tempo massimo o al massimo da Gilles Peterson (che infatti per molto tempo è stato guardato con sussiego da tantissimissima gente). Insomma, era un gran rischio.
Beh, io mi ricordo che fu bello. Così come mi ricordo tutti i ragionamenti che mi ero fatto, prima di suonare: era il primo giorno del festival, era pomeriggio, era il main stage quindi all’aperto. Se fossi stato io tra il pubblico, in una situazione del genere – ancora agli inizi del festival, sotto la luce del giorno, quindi belli rilassati – a me sarebbe piaciuto molto di più avere davanti un tizio che suona musica brasiliana piuttosto di qualcuno che martella con la cassa. Un inizio morbido, no? Tanto per darci dentro c’è sempre la notte, la parte notturna del Sónar, quella nei capannoni…
Ok, ok, tutto ragionevole, resta il fatto che era una cosa assolutamente impopolare ed antistratetegica, per te in quel momento, giocarti così quello che per te era il dj set nel contesto più importante mai affrontato prima. Guarda che te lo disse pure la tua fidanzata, mi confessasti che ti cazziò per questa scelta…
Però dai, alla fine è andata bene. No? Ho un bel ricordo di quel set, e pure la gente sembrava divertirsi, no? L’unica cosa fastidiosa è che, mentre suonava, sul palco principale – vicino alla mia console quindi – si stavano preparando i Little Dragon per il loro live e si erano messi a fare il loro soundcheck mentre stavo suonando… non il massimo… almeno avessero provato i loro strumenti a tempo e in tonalità con quello che stavo mettendo su in quel preciso istante! Che poi, a dirla tutta, quel giorno non è che ero in formissima, la sera prima avevamo fatto tardi…
Ah, hai pure fatto tardi la sera prima? Insomma, hai fatto di tutto per giocarti nel modo peggiore il set che poteva dare una bella botta alla tua carriera… Ma senti, a tal proposito: quando hai capito che questa cosa della musica poteva diventare per davvero il tuo lavoro, la tua carriera? Che tu la musica, da appassionato oltre che da creatore, l’abbia sempre presa sul serio questo lo so, ma credo che ci sia comunque una differenza rispetto al fatto di considerarla anche il mezzo per cui ti manterrai nella vita.
Vero, la differenza c’è eccome. E ti dirò, solo recentemente ho cominciato a maturare l’idea che sì, la musica potrebbe essere davvero la mia vita anche dal punto di vista professionale.
Recentemente?
Sì sì, recentemente. Quando ho finito il dottor…
Ah, ma lo vedi che sei tu che la butti sempre sul dottorato in neuroscienze! Non è la stampa!
(ride fragorosamente, NdI) …ok, ok, diciamo allora: quando ho finito l’università.
Ecco, già meglio… (altre risate, NdI)
Insomma, forse solo quest’anno è successo questo cambio di prospettiva. Quello per cui inizi a pensare “Ehi, forse la musica è davvero quello che farò per la maggior parte della mia vita”. Anche prima, come dicevi giustamente, ero molto serio su quello che facevo, ma non necessariamente pensavo che questa sarebbe stata la mia occupazione principale, quella che mi portava via la stragrande maggioranza del tempo in gran parte degli anni a venire. Ora invece ho molte meno remore. E bene così: ho molte idee, e mi piacerebbe realizzarle – e per questo ci vuole tempo. Poi per carità, non si può mai sapere, non è il caso di dare nulla per scontato. Per ora mi diverto. Anche in questo “cambio di prospettiva” che ho vissuto sulla mia pelle, continuo a divertirmi veramente tanto. Questo è fondamentale.
Fino a che punto è giusto considerarti un’artista di estrazione dance, uno che insomma va legato alla scena della club culture? Perché questo è quello che avviene.
In effetti.
Magari la fai strana, la musica dance, magari la fai elaborata; ma è sempre lì che ti sistemano.
Beh sì, in effetti è così. All’inizio le mie prime produzioni erano in effetti prevalentemente da dancefloor. Oddio, in realtà non erano solo così, ce n’erano anche un sacco non propriamente ballabili ma per qualche motivo erano viste come – secondarie. Dei divertissement, tipo. “Bene ragazzo, bravo, carina ‘sta cosa, ora però basta giocare e tornare a sfornare delle cose house per farci ballare, grazie”: l’atteggiamento era un po’ questo, e immagino derivasse dal fatto che – ovviamente – ero ancora un nome nuovo nella scena e la gente non si sentiva obbligata a tentare di capirmi con attenzione. Ora è diverso, ora vengo in qualche modo sempre preso sul serio, vedo che ogni mia mossa è seguita e capita con attenzione… cioè, insomma, mi prendevano sul serio anche prima, però diciamo che si sforzavano meno di capire quale fosse la mia vera identità, il vero percorso che volessi fare. Ora non più. Boh? Magari sono diventato più bravo io a spiegarmi, a raccontarmi? Non lo so. Sta di fatto che la mia identità artistica non è votata solo al dancefloor. Però è anche vero che fra pochi giorni vado a starmene qualche giorno a New York, mi sono portato dietro il laptop con dentro un po’ di materiale su cui lavorare e, beh, è tutto materiale dance oriented. Perché mi manca questa cosa, non è che ora ho smesso di fare musica per i club e non la voglio fare più! Mi porto con me di tutto: da materiale più minimale a faccende quasi orchestrali, sarà divertente provare a combinarle.
Te la butto lì: non pensi ogni tanto che i media e in generale il pubblico legati alla dance siano un po’ coi paraocchi e dallo spettro interpretativo un po’ limitato? Perché nel leggere le reazioni ad “Elaenia” in certi casi è sembrato quasi che tu avessi fatto un atto di stregoneria, più che un normalissimo disco. Normalissimo e, sia chiaro, incredibilmente bello. Ma di sicuro non iconoclasta o rivoluzionario nelle scelte sonore, se uno mastica un minimo di certa musica anni ’70 non trova nulla di particolarmente rivoluzionario o sorprendente nel tuo materiale… Invece per un certo tipo di critica e pubblico legato al clubbing, mah, pare quasi tu abbia fatto qualosa di inusitato, di mai sentito e pensato prima. Sinceramente questa cosa mi lascia perplesso.
Interessante questa cosa. La difficoltà di comunicazione e direi proprio di “misurazione” tra scene differenti è un fenomeno di vecchia data. Chi arrivava dalla scena rock, per dire, pensava all’inizio che fare house fosse una cazzata, una cosa semplicissima. Poi improvvisamente sono cambiate le carte in tavolta e si è iniziato a celebrare – anche giustamente, sia chiaro – la “musica fatta in cameretta” col proprio computer e nulla più. Che in effetti ha portato aria fresca, nuove idee: quindi ci sta. Però ecco, non vorrei che ora si dimenticasse che stare in una band è una gran fatica, è qualcosa di molto complesso a livello di processo creativo e lavorativo, una fatica e una complessità che non vorrei fossero sottovalutate… La mia posizione in effetti credo sia interessante: arrivo cioè, nella percezione comune e con anche delle ragioni, dalla scena della musica fatta col laptop; ma il mio è un tipo di album che è stato fatto secondo principi e direzioni piuttosto differenti. Questo può permettermi di ricevere attenzione anche da nuovi contesti, diciamo quello “indie” per dire, anche se io tento di non leggere nulla di quello che si scrive attorno a me…
Veramente?
Mmmmh.
Veramente-veramente?
Diciamo che… diciamo che ho molto da fare e non ho troppo tempo (ride, NdI). Anche perché in passato ho letto delle cose che… Mettiamola così: certe volti non ti rivedi in quello che leggi scritto nelle interviste che ti fanno o negli articoli che ti dedicano. Ma davvero, probabilmente prima di tutto sono io che non sono bravo a parlare, a spiegarmi. Tornando comunque al punto, mi pare che sia i media di contesto dance – generalizziamo – che quelli di contesto indie abbiano accolto molto bene il mio album. Sono contento di essermi fatto conoscere da cerchie nuove, sono altrettanto contento che quella cui di solito sono accostato abbiano apprezzato. Non sono così in tanti a dire che ho fatto una cosa inaspettata, dai…
…però qualcuno sì. Non so, sarà perché abbiamo parlato del processo creativo ed organizzativo dietro ad “Elaenia” un sacco di volte mentre lo stavi preparando, quando ancora all’esterno non era trapelato quasi nulla, ma alla fine è esattamente il tipo di disco che mi aspettavo mi facessi. E’ che non è rivoluzionario, nei suoni, nelle scelte sonore. I suoi pregi stanno altrove. Ma io continuo a beccare con una certa frequenza gente del giro dance che, nel caso tuo ma anche in altri casi, ha questo atteggiamento tipo “…e poi suona anche degli struemnti! Incredibile! Ci sono pure delle partiture su pentagramma! Pazzesco! Genio!”.
Sì, fa ridere questa cosa. Tanto più che ci sono tantissimi producer di musica elettronica che in realtà sono preparatissimi come strumentisti, solo che la gente non lo sa e loro non hanno bisogno di farlo sapere alla gente. A dirla tutta, io che arrivo da un background classico per un bel po’ di tempo ho pensato “Ma questi qua che fanno musica con le macchine, senza sapere suonare mezzo strumento? Penseranno mica di essere dei musicisti per davvero?”. Poi però fortuna ho cambiato idea, mi sono aperto mentalmente, ho ascoltato con attenzione e ho scoperto delle musicalità incredibili in quanto fatto da producer che usano solo il computer e non sanno praticamente nulla di come si suona uno strumento o leggo uno spartito. Il fatto che tu sia, per dire, un violinista tecnicamente eccelso non significa che, in modo automatico, sarà eccelsa pure la tua musica. Certo: il modo migliore per entrare “dentro” alla musica è entrare dentro agli strumenti e alla notazione su spartiti, ma proprio per questo assunto io ho una ammirazione ancora maggiore per chi riesce in questo intento senza avere una preparazione di base alle spalle. Io suono il pianoforte, ho imparato a suonare secondo i criteri più classici, ma da un certo momento in poi ho capito che questo non è assolutamente un plus. Anzi: chi riesce ad arrivare lì dove in teoria non dovrebbe arrivare, ecco, spesso lo fa con una forza ancora maggiore, e soprattutto con la capacità di vedere strade nuove, vie nuove. E questo è importantissimo.
Chi sono i producer di musica elettronica più illuminati, in tal senso? Quelli in grado di avere una grande complessità e padronanza “musicale” pur operando nel campo della musica digitalmente generata?
Mmmh. Allora: direi prima di tutto Delia Derbyshire…
No no, aspetta. Io mi riferivo ai producer di taglio marcatamente legato al clubbing, un campo dove spesso la semplicità se non proprio la semplificazione sono una regola difficile da eludere.
Uh, fammi pensare. Mmmmh. Theo Parrish, per dire. O Robert Hood.
Che tu citassi Theo non era nemmeno quotabile dai bookmaker, ma già sentirti dire Hood mi sorprende un po’. E’ apparentemente l’opposto da te, come approccio all’elettronica.
Sarà che giusto un paio di giorni fa riascoltavo cose sue, e sono così dannatamente belle. Così ben rifinite, così essenziali, così definitive. Comunque ecco, continuando nell’elenco: Pepe Bradock. Four Tet certamente, Caribou. Poi Matthew Herbert, lui non può mancare. Però sì, Dan(Dan Snaith, ovvero Caribou, NdI) sta facendo ultimamente delle cose incredibili. Lui, come gli altri che ho citato, è sempre più bravo in un aspetto fondamentale: rendere il proprio tocco riconoscibile, essere originale senza perdere nulla in consistenza. Recentemente Dan ha fatto una traccia dove la cassa è rumore della tavoletta del bagno che si abbassa, la linea di basso è il frigo che si chiude – tutto questo campionato a casa mia. Ha suonato questa traccia durante il back to back a sorpresa che ha fatto un po’ di tempo fa con Skrillex e la gente, beh, è impazzita… Io guardavo il pubblico e dovevo trattenermi dall’urlare “Ehi, ma guardate che questo è il suono del bagno di casa mia”, sì, lo so che è molto nerd da ridere su questa cosa, che ci vuoi fare… Proseguendo comunque con altri artisti che amo: Thomas Melchior, Soul Capsule.
Gente attentissima a rifinire in modo maniacale il proprio suono.
No, o non solo. Piuttosto: gente che ha un progetto, una visione complessiva di quello che sta facendo. Ce l’aveva anche la jungle, quando era venuta fuori. Io infatti ero ossessionato dalla jungle, ne ero super appassionato.
Ma dai! Non lo sapevo! E perché diavolo non la suoni mai nei tuoi dj set?
Non la suono, non la suono…
Dovresti!
Mah. Anche perché quasi tutti i dischi jungle che avevo li ho regalati a un’amica che ha fatto assieme a me il dottor… ops, pardon l’università.
Come mai?
Riascoltati oggi, di tutti quei dischi solo venti erano veramente importanti, avevano vera personalità, e sono quelli che mi sono tenuto.
Insomma, quella per la jungle è stata un’infatuazione intensa ma passeggera, quasi adolescenziale.
Da adolescente, la vera passione è stata per il jazz, altro che jungle. La mia ribellione contro il mio background totalmente classico: il jazz, come la musica della libertà da un certo tipo di canoni e quindi, all’epoca, la massima ribellione possibile che potessi immaginare. Pensa che nerd sfigato sono, vero? I ragazzi di solito si ribellano col punk, con musica così; io invece ascoltando Charlie Parker… faccio ridere! (risate, NdI)
Torniamo però un attimo a ‘sta cosa del back to back di Four Tet con Skrillex, scusa. Com’è stato?
Superdivertente!
Stai attento a quello che dici.
Oh, lo so, io di solito quando faccio un dj set cerco traiettorie diverse, delle cose un po’ più complesse, complicate, cerco di entrare nell’animo della gente per vie più traverse, perché è così che mi piace, è così che preferisco. Ma che ti devo dire: quella sera lì il club era una bolgia! Tutti a saltare, tutti esaltati. L’umidità che gocciolava dal soffitto, per quanto era tutto pieno ed infuocato lì dentro.
Stai molto attento a quello che dici. Guarda che per una robustissima fetta di gente che ti stima Skrillex è, tipo, il Nemico.
Mmmh, dici? No dai. Non penso. Non così tanto. L’unico problema che ho con certi tipi di musica è quando hanno dei testi particolarmente stupidi. Per il resto, non puoi invece disconoscere la quantità di energia che c’è in essa. E’ un’energia “telefonata”, prevedibile? Anche sì, ma alla gente piace. Fa effetto. E se alla gente piace e su di essa fa effetto, chi sono io per dire che è “brutta musica”? Anche perché la sua presenza non influisce minimamente sul tipo di musica che faccio io. Quindi… dove sta il problema? Perché considerare Srillex e gente come lui un “nemico”?
Ma sai che accade.
Sì, lo so. Del resto pure io se tu mi dicessi “Ehi Sam, stasera andiamo a fare un salto a questo concertone EDM, ci sono Skrillex, Flume… e qualche altro ancora”…
…tipo Hardwell, Avicii, Garrix, Ingrosso…
Ah ma li conosci tutti allora, sei un fan! (risate, NdI) Ecco, ad una serata con questa gente qui sul palco magari potrei anche non volerci andare, perché quello che cerco nella musica è qualcosa di meno prevedibile, sia come struttura che come modo di gestire l’energie e le dinamiche. Però se ci sono persone a cui piace, che problema c’è? Anzi, magari in questo modo si avvicina a sonorità legate al clubbing persone che di loro non l’avrebbero mai fatto.
Il rischio però è quello di “avvelenare i pozzi”: rendere molto grossolano il gusto collettivo attorno alla musica elettronica.
Alla fine dei conti, per fortuna, lo spirito umano vuole qualcosa in più del solo bianco o solo nero, solo forte o solo silenzioso. Siamo essere viventi complessi; e più maturiamo, più sentiamo l’esigenza di toni intermedi, di sfumature. La musica EDM è quasi cinica nel suo essere costruita per essere sempre tirata al massimo, quello e solo quello; va bene se sei giovane, quando adori i colori primari, quando pensi che solo loro abbiano veramente senso. Poi, di solito, passa. Comunque anche in questo suo cinismo c’è qualcosa che è, musicalmente, interessante. Prendi Srillex, la sera di quel back to back: quasi ogni disco che ha suonato era masterizzato dannatamente bene, una cosa incredibile, tanto più che ti dico per certo che lui quella sera ha cercato di suonare roba più “sottile” di quella che mette di solito. Four Tet, per quanti sforzi facesse, spesso e volentieri era almeno uno o due decibel sotto la potenza sonora di quello che suonava lui (che peraltro quella sera ha messo cose interessanti, ha fatto delle belle scelte, e non ha certo suonato solo EDM). E’ stata una serata incredibilmente divertente, comunque. C’ero io, c’era Dan, c’era tutta la nostra stretta cerchia di amici, stavamo dietro Kieran ed eravamo praticamente la sua posse… (risate, NdI) Ma è stato tutto sempre molto amichevole e sorridente.
Ti fossi ritrovato tu, in console, a fare il back to back con Skrillex?
Avrei pensato: “Sono fottuto!”.
Ma smettila. Poi oh, sei pure sopravvissuto alla Piramide, al Cocoricò, e pure sopravvissuto bene…
Prima di me quella sera c’erano i Mouse On Mars, giusto?
Esatto.
Eh. Avevano fatto un set talmente complicato che io di sicuro non potevo essere peggio… (risate, NdI) Però dai, alla fine ho fatto un buon set, e mi sembra di aver suonato la “mia” roba.
Assolutamente. Ma ricordo che prima di salire in console eri preoccupato.
Ho suonato altre volte in sale molto grandi, ma ero perfettamente conscio di cosa la Piramide rappresentasse, storicamente, quale tipo di immaginario si porta dietro. Una cosa però mi ha lasciato molto offeso.
Prego.
I getti di anidride carbonica, le macchine sparaghiaccio! Le hanno usate solo dal set di Four Tet in avanti quella sera, non è giusto! …sto scherzando ovviamente, in realtà è una cosa che insomma non mi piace parecchio. Ricordo una volta al Womb, a Tokyo: lì i cannoncini sono posti sotto la console, col risultato che l’effetto-fumo almeno dalla mia prospettiva si diffondeva solo dopo, salendo dal basso: ecco, quando arrivava la suggestione dell’effetto-fumo il momento di enfasi del brano che stava suonando era già bello che è andato – sentivo solo il casino dello sparo di ghiaccio nel momento in cui veniva effettuato, solo quello! Sentivo quello, che mi faceva pure prendere un bello spavento, ma poi per un po’ non vedevo nulla di diverso. Io sono dell’idea che gli effetti dentro un club dovrebbero essere per principio silenziosi (e quelle macchine sparaghiaccio fanno un casino infernale, quando le attivi): lavora sulle luci, lavora sulle sfumature e le zone d’ombra, ma lascia stare le frequenze sonore. Quelle lasciale all’impianto (e al dj che sta suonando).
E’ più divertente fare il dj, o il band leader durante un live? Visto che ora stai facendo in misura uguale entrambi.
E’ pazzesco quanto siano due ruoli diversi. Ora, quando c’è di mezzo il live, sono molto più tranquillo perché ho maturato una fiducia infinita nella mia band. Quando fai il dj la cosa un po’ seccante è che, pubblico che hai di fronte a parte, non puoi condividere le emozioni del momento con altre persone accanto a te…
…sì, dovresti condividerle con un laptop e dei controller. Non il massimo. Un filino autistico e psicopatologico.
Esatto. A questo aggiungi il fatto che io ho da sempre un enorme rispetto per chi crea ed esegue musica dal vivo, facendolo in prima persona. C’è sempre della differenza tra costruire qualcosa di tuo e passare invece una serata riproponendo – senza rischio alcuno nell’esecuzione – quello che altri hanno già immaginato e già fatto. Tuttavia, l’altro lato della medaglia è che fare il dj è qualcosa di molto più immediato: quando hai un’idea da proporre ce l’hai già sottomano realizzata, ben strutturata, e quindi puoi subito proporla davanti alla gente e vedere l’effetto che fa. Entrambe le situazioni hanno insomma una simile valenza artistica – diversa nella forma, ma simile per valore. Una cosa però fammi dire: il deejaying per me resta prima di tutto una celebrazione, la celebrazione del fatto che c’è un gruppo di persone che vuole radunarsi in un posto per godersi le sensazioni e le vibrazioni di bella musica suonata ad alto volume. Questo è quello che devi celebrare, non me, non chi sta suonando in quel momento. Fosse per me, il dj dovrebbe sempre stare in un angolo semibuio della sala, per non distrarre chi si sta godendo la musica ballando. Il mio ruolo, come dj, lo vedo ancora come quello del tizio che passa la settimana in cerca di dischi nuovi che possano poi far star bene i propri amici che, nel weekend, arrivano nel pub locale e vogliono passare una bella serata ascoltando i dischi in questione suonati su un impianto decente che non sia quello di casa. Ecco, mi vedo così. Quando si suona dal vivo, con una band, l’emozione è continua così come la tensione, mentre quando fai il dj ci sono sì momenti di grande euforia ed intensità ma anche altri in cui puoi cazzeggiare o fare delle cose inutili (la prima fra queste è rimettere i dischi a posto nella custodia!). Dal vivo no, dal vivo ogni singolo istante devi essere attento perché qualsiasi cosa tu faccia, qualsiasi minimo tuo movimento produce degli effetti sul risultato complessivo. Devi stare attento a stare sempre sul pezzo, o se decidi di non starci e di andare fuori giri, beh, devi farlo bene – come ad esempio hanno fatto il sassofonista e il batterista della mia band qualche concerto fa a Parigi, quando sono partiti per la tangente in un assolo a due in chiave veramente free ed è stato fantastico. Anzi, ad un certo punto era una cosa talmente estrema che ho cercato di fare segno verso di loro “Ok, bello!, ma ora calma…”.
Sei un band leader autoritario ed inflessibile?
Macché, il contrario. Al massimo sono inflessibile con me: ho una buona memoria, mi ricordo tutte le imperfezioni e gli errori dei concerti precedenti e faccio quindi di tutto per non farli accadere di nuovo, sono maniacale in questo, e non è una gran cosa considerando che in un live set può sempre succedere di tutto. Ho però con me dei bravissimi musicisti e, cosa molto importante pure questa, delle bellissime persone con cui si è creato un gruppo eccezionale: siamo uno dei pochi casi in cui il day off, invece di essere accolto con sollievo (“Oh, finalmente un giorno per i fatti miei e non sempre con la stessa gente!”), viene vissuto con tristezza e anzi, molto spesso ci ritroviamo comunque a pranzare assieme, anche se in teoria ognuno potrebbe essere libero di andarsene in giro.
E le persone che incontri nel circuito dei club quando giri il mondo a fare da dj? Ti piacciono? Ti piacciono ancora?
Sì. La club culture è ancora un bel contesto dove stare. Io amo fare il dj, ancora adesso. Che poi, “fare il dj”… Diciamo che finora non mi sono quasi nemmeno reso conto di avere questo ruolo, ho avuto una specie di epifania nemmeno troppo tempo fa una sera a Berlino, al Berghain, quando è come se mi fossi visto dall’esterno, “Uh, ma sono io quello in console, faccio il dj, è questo quello che sto facendo, già già”. All’inizio non ero io a voler fare il dj: mi capitava di farlo, ecco. Le cose sono diventate vagamente più serie e consapevoli quando mi hanno offerto la residenza al Plastic People. Quello, per me, è stato il vero battesimo. E’ lì che ho imparato i segreti del mestiere. I principi-base del deejaying li ho imparati lì e credimi, sono sempre validi sia che suoni in una sala piccola sia che ti capiti di suonare in una sala grande da migliaia di persone, come mi è successo recentemente proprio qua da voi in Italia a roBOt Festival. A Bologna ho suonato esattamente gli stessi dischi che avrei suonato in una sala molto più raccolta – robe soul d’annata, eccetera. Ma è giusto così. Se il dj per primo non è emozionato dalla roba che suona, perché dovrebbe emozionarsi la gente? Io, quando faccio il dj, impazzisco letteralmente. Lo so. Di mio sono una persona normale, tranquilla, quasi noiosa direi – mi conosci no? Ma quando suono la musica che amo, la musica che io per primo vorrei sentire per primo ad una serata, vado giù di testa.
Ti sei mai rivisto su YouTube?
No, per fortuna! Fosse per me quando suono ballerei pure, ma ci sono due problemi. Il primo è che a ballare faccio schifo, e lo so; il secondo è che mi sono talmente abituato alla dj booth del Plastic People, che era microscopica, che do per scontato non ci sia spazio per ballare quindi mi limiti a rimbalzare su e giù, tutto il tempo. E a scuotere la testa, un sacco. E a cantare. Canto molto la roba che suono, lo sai vero?
Certo che lo so.
Ecco, sì, diciamo che come dj non sono uno che si annoia nel fare quello che fa, dai.