La storia di questa edizione del FRAC Festival parla di una soft skill molto spesso in esubero sui curriculum e che magari poco si è sperimentata, ed è quella della resilienza che da definizione recita: “la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi” o, dal lato più psy della cosa, è quella capacità di affrontare e superare un evento traumatico. Beh il FRAC Festival, possiamo ben dirlo, ha affrontato una Hiroshima proprio alla vigilia della sua quarta edizione quando è stato comunicato all’organizzazione che il Parco Scolacium non sarebbe stato più fruibile per l’evento (ne abbiamo parlato qui). Un “urto” che avrebbe compromesso la tenuta di molti festival, un “evento traumatico”, maturato con motivazioni che stiamo cercando di indagare tutt’ora, che potenzialmente avrebbe ripercussioni su tutto il sistema dell’intrattenimento italiano.
Ma veniamo a quello che è stato, perché tralasciando la location, che comunque si è sposata con le intenzioni del FRAC, il festival ha molto da dire.
Se non è Catanzaro Lido e il Parco Scolacium, dobbiamo arrampicarci per quindici km, lasciare il golfo di Squillace alle spalle e raggiungere Catanzaro e Villa Margherita o, inspiegabilmente per me, Villa Trieste. La prima giornata, quella del venerdì, ha subito un necessario slittamento di orari, ma tutto è confermato; Villa Margherita si snoda in alcuni vialetti arricchiti dalle istallazioni del collettivo Cultrise e, complice una chiacchierata con Tommaso Cappellato per chiarire piccoli flame social, perdiamo la performance dei Dewey Dell ma siamo consci entrambi di poterla apprezzare il giorno dopo e ci avviciniamo al palco per seguire le performance prima di LNDFK e poi YOMBE. I primi stanno raggiungendo un buon livello performativo, li avevamo già ascoltati in altre occasioni ma non nella formazione a tre con l’aggiunta di Andrea De Fazio (batterista che ha collaborato anche nel disco dell’estate “Nuova Napoli” dei Nu Guinea, quindi no: le batterie non sono elettroniche come qualcuno pare abbia detto); gli YOMBE, vuoi per la carica più devastante del loro live, invece sembrano avere una presa del palco più decisa, ma abbiamo l’impressione di aver assistito a due live concreti e con buone prospettive di crescita (chissà se cantassero qualcosa in italiano come sarebbe, ci chiediamo). A seguire c’è Populous che ammanta il dancefloor con i suoni provenienti dai suoi molteplici excursus musicali: oramai è un decano e sa come creare un pacco sul floor, lasciando una pista buona a Floating Points che meno spallucciato del solito ha comunque dispensato un dj-set di tutto rispetto. Lasciamo Villa Margherita alle spalle con il vento che a Catanzaro non finisce mai di spirare, consci che sarà un sabato di grandi aspettative.
Dopo aver bagnato le nostre membra nell’acqua di Copanello, siamo puntali per godere di tutta la serratissima programmazione del sabato a trazione decisamente femminile che il FRAC ci propone. Esclusi Tommaso Cappellato e i Nu Guinea, il primo con una live performance partita con il favore di pochi e gli applausi di molti, i secondi con un dj-set che è diventato da “Festivalbar” per quanto tanto hanno fatto proseliti con la loro selezione e il disco “Nuova Napoli”, la line-up è riflesso del female power che pervade il FRAC. Tracciando un’ideale percorso di crescita nel valore di performance, Mavi Phoenix si posiziona tra quelle più basse, vuoi per sua scarsa incisività, vuoi anche per il ciclone di presenza scenica, formato dall’accoppiata MYSS KETA e CATNAPP, che si era abbattuto prima della sua esibizione: la prima, davanti ad una platea davvero mista, ha sfoggiato l’irriverenza con cui ha conquistato schiere di fan e ha divertito più che musicalmente compiaciuto; CATNAPP invece è stata la rivelazione dell’intero festival. Frutto di una ideale e degenerata scopata tra Ninja e Yolandi durante un jungle rave in quel dell’Argentina, la producer di casa a Berlino e prodotta da Monkeytown ci ha trascinato in un live totale: ha presenza scenica, suoni contaminati da influenze d’n’b – hardcore – emigabber – jungle – zarratamonkey e non ha concesso un cazzo e siamo convinti che anche davanti diecimila persone spaccherebbe il palco in due (C2C se ci leggi, sappi che…). A chiudere la quarta edizione del FRAC ci ha pensato Paquita Gordon, con un set quadrato dalle punte acide a degna chiusura di un cerchio ben cominciato il venerdì sera.
Buio.
Il ritorno sulla Jonica si fa più scorrevole, vuoi per la statale deserta vuoi per quel senso di appagamento che ti prende quando hai assistito ad una due giorni di musica a cui non potevi chiedere di più. Tralasciando i grossi problemi dovuti al cambio location, che hanno sicuramente penalizzato il festival per la sua componente estetica, il FRAC possiede una carica di ricerca non indifferente ed un potenziale elevato se riuscirà a determinarsi in tutto e per tutto come bouquet festival. Il legame con Catanzaro potrebbe diventare strategico tanto da riuscire a far cambiare l’opinione di un’autoctona intercettata al di fuori del festival che in stretto accento recitava: “questa musica mi fa venire l’ansia”. Bene, è quello che la musica elettronica deve suscitare in un primo istante, un’urgenza di diverso che allerta i recettori di organismi non pronti e questo il FRAC può farlo: insistere per rendere l’Italia (e in un primo momento avrei scritto Calabria) più vicina all’Europa in un connubio perfetto tra esibizioni di nicchia, act affermati, live in divenire e sorprese da palco, insistere per legittimare e difendere il tema della musica elettronica come viatico di cultura. A rendere il FRAC avamposto in terre di frontiera serviamo tutti, per l’anno prossimo cerchiate di rosso le sue date, sarà un’edizione ancor più entusiasmante. Parola di Soundwall.