Siamo alla fine degli anni ’80 – primi ’90, il mondo sta cambiando, non solo a livello politico: nuove sonorità si stanno affacciando in tutta Europa. Cose mai viste e sentite cominciavano ad arrivare anche in Italia, da oltreoceano, dall’Inghilterra o dal nord Europa. Tutto ciò si accompagnava a nuove forme di aggregazione, nuove sostanze stupefacenti, come l’ecstasy, che facevano il loro vero ingresso tra le sottoculture giovanili. Erano i primi passi del movimento clubbing che oggi conosciamo e frequentiamo, c’era in testa la riviera romagnola (vera capostipite quantomeno per la mentalità), c’era il Veneto, Roma e c’era la Toscana. Si trattava di una sostanziale rivoluzione dei costumi, c’era in ballo una sostanziale rivoluzione nel mondo del divertimento notturno. Tra quelli che, da dietro la consolle, hanno visto nascere e crescere tutto ciò, c’è sicuramente Francesco Farfa. Dal 1984 nelle consolle prima toscane, poi nazionali ed internazionali è stato una delle figure più importanti per il clubbing italiano degli anni ’90. La “farfalla” è stato uno dei grandi miti di quella prima generazione di clubber italiani e, con lui, attraverso la sua carriera trentennale, ripercorriamo quella che potremmo definire la golden age del clubbing italiano, anche confrontandovi il mondo della musica elettronica e del clubbing attuale.
Partiamo dai tuoi inizi, nel 1984. La tua carriera inizia prestissimo, a 16 anni. Cosa significava fare il dj nella profonda provincia toscana? Da dove arrivavano le tue influenze musicali e dove ti procuravi i dischi?
Significava molte cose. Per alcuni ero un piccolo talento, per altri un folle sognatore, per altri ancora lo scemo che lavorava quando tutti di si divertivano… tutta una questione di prospettiva. Dal mio punto di vista, era vivere un’ avventura sensazionale piena di incognite e particolari vibrazioni, soddisfazioni e delusioni ed ancora sogni e sorprese. Ho vissuto tutto come una grande speranza e un grande supporto da parte di chi vedeva in me un potenziale “particolare”. Ho iniziato in una disco di paese e frequentavo altre discoteche di provincia. Le influenza erano limitate perché, nei primissimi anni, in Toscana, primeggiava l’Italo disco. Ho avuto due amici importanti, molto più grandi di me, che mi hanno stimolato ad ascoltare altre cose oltre ad approfondire l’onda dei ’70, vissuta appieno nella loro fresca gioventù. Fortuna ha voluto che i miei genitori ascoltassero tanta musica, ed io, sin da piccolo, ho acquisito un’apertura a tutto ciò che mi dava “sensazione” senza mai pensare che un genere fosse peggiore di un altro. Tutto serve, e ciò che ho assimilato da piccolo me lo sono ritrovato, soprattutto a livello di mentalità. Quando ho iniziato a giocherellare con i piatti, a Firenze c’erano molti negozi di dischi ma si faceva fatica ad avere le primizie. Essendo novizio, ti beccavi un po’ di scarti e alcune chicche te le beccavi un paio di settimane dopo. Poi la frittata, negli anni a venire, si è rigirata a mio favore. Non compravo solo a Firenze però, agli inizi dei ’90 ho cominciato a muovermi appositamente per comprare dischi a Francoforte e Londra. Quando ho iniziato il mio percorso professionale a livello internazionale, approfittavo di ogni viaggio anche per esplorare le “cantine” dei negozi in tutta Europa; tutto questo spulciare, soprattutto negli scarti altrui, è stata la mia peculiarità.
Poi l’esplosione dell’acid house e della techno, che arrivano inesorabilmente anche in Italia. Come arrivano queste nuove sonorità nella borsa di Francesco Farfa? Ricordi dei dischi di “svolta” particolari?
Il suono acid della 303 nella musica house e techno è come il “pepe in gastronomia”. E’ curioso, però, parlare di “acid” facendo riferimento a questi 2 generi primari della “dance elettronica” di meta’ anni ’80… anche perché, se penso veramente ad un disco che portava dentro questo “dna sonoro”, mi viene in mente “Let Me Go” (Heaven 17), che di house ha ben poco ed è un disco dell’82. Del grande periodo di esplosione dei fine anni ‘80, ricordo i seguenti progetti discografici: Ecstasy Club – Jesus Loves The Acid, Humanoid – Stakker Humanoid, Phuture – Acid Tracks, Lords Of Acid – I Sit On Acid.
Con nuove sonorità arrivano nuovi locali, come Insomnia e Imperiale, e nuovi riti, come gli after hour, che in quel periodo sovvertono le convenzioni, per di più nella piena provincia italiana. Che ricordo hai di quel periodo e come sei approdato in quei locali poi divenuti storici?
Queste sono storie di pura alchimia che posso sintetizzare con due incontri “professionali”, fondamentali nel mio percorso, sto parlando del “mito” Roby J e della leggenda vivente MIki. L’ estate 1990 fu la mia prima al Tartana (ndr, Follonica) e verso fine agosto venni a conoscenza che il successivo inverno sarei dovuto andare a lavorare in Barcaccina (ndr, Rosignano) – dove avevo già fatto precedentemente 3 stagioni invernali e 3 estive – con un gigante proveniente da Genova. Una delle ultime serate in cui lavoravo al Tartana me lo ritrovai davanti, e dopo essere stato travolto da quella mole eccezionale di simpatia e dalla sua “grande” stretta di mano, con sorriso compiaciuto mi disse: “ciao io sono Roby, mi hanno detto che sei bravino, ho la sensazione che ci divertiremo tanto insieme.” Da li è partito un grande treno emozionale che ci ha portato ad incontrare successivamente MIki, che a suo tempo lavorava all’Imperiale, il primo “mezzanotte-mezzogiorno” in Italia, con il quale condividemmo l’orario lavorativo in after-hour. Successivamente, abbiamo creato molte situazioni insieme, la più importante tra queste la “Rave Age Parigina”, ovvero l’inizio dei festival di musica elettronica in Francia. Poi nel 1992, con la nascita dell’Insomnia ci fu il “grande botto”: in un anno avevo già girato tutti i migliori locali d’Italia, quando si dice che tutto può arrivare in un attimo e inaspettatamente…
Maratone musicali, musica elettronica ripetitiva e alti volumi furono cambiamenti epocali soprattutto per l’opinione pubblica e per i giovani di quel periodo. Non credo si possano definire solo “questioni da discoteca”, ci sono secondo te, che l’hai vissuta da protagonista, fattori sociali che possono aver influenzato un tale cambiamento e un tale successo sui giovani di allora?
Tra le molteplici serate ed after-hours, mi resta impresso il grande fenomeno di nomadismo, scoppiato a livello nazionale e non solo. Iniziavi con un venerdì sera a Firenze, per andare il sabato sera a Jesolo, e dopo 12 ore, passando da un “pomeridiano” a Mestre, finivi il week-end a Genova. Tutto questo sembra normale, l’eccezione era che per tutto l’itinerario ti seguivano un gran numero di macchine in carovana. Internet non c’era e la rete di telefonia mobile era poco diffusa, quindi l’unico modo per assistere a più serate era quello di aggregarsi. In un determinato periodo storico si è vissuta realmente la piena sensazione di condivisione e spirito di fratellanza.
Si può parlare, a ragione, di golden age del clubbing italiano oppure si è eccessivamente mitizzato un periodo, sì assolutamente florido, ma con eccessivi problemi di droghe e con gli stessi problemi tipici di molti club attuali, vedi risse e persone senza l’attitudine da “party people”?
Non vedo molta differenza tra ora ed allora, per quanto riguarda il consumo di droghe. L’unica differenza sta nella maggior informazione a disposizione della gente, che ha opportunità di sapere quali sono gli effetti negativi sulla salute. Al riguardo delle risse, la maggior parte erano alimentate da fattori “calcistici”: certi eventi sarebbero accaduti lo stesso, sotto effetto dell’alcool. Al riguardo dell’attitudine da “party people”, una cosa è ben evidente: in discoteca, adesso, perlopiù si saltella o si pesticcia. Rivedendo alcuni video di party “vintage” si nota che il pubblico ballava sfrenato ed era molto coinvolto, non come ora che si preoccupa di fare foto e video da pubblicare su Facebook. Da qui una nasce una metafora: se negli anni ‘80 “Video Killed The Radio Star”, oggi è il caso di dire: “smartphone killed the nightclub”.
Parlare di clubbing italiano degli anni 90 significa parlarne in termini nostalgici, spesso da chi non era nemmeno presente in quegli anni. Una specie di descrizione di un mondo ideale che però poi nessuno cerca di riprodurre veramente nell’attitudine e nell’approccio al club e alle persone. L’attitudine al “si stava meglio quando si stava peggio” è un comportamento molto italiano, ma non credi che l’eccessiva mitizzazione del passato (che magari non si è vissuto) ci impedisca di vivere al meglio il presente e di costruire un futuro migliore, non solo a livello di club?
A me non piace crogiolarmi sul passato, non amo le chiacchiere da bar. Prima si stava meglio perchè la gente aveva più soldi in tasca: c’era lavoro e ottimismo. Questo è uno dei semplici motivi che determinano la cosiddetta “golden age”. E’ ovvio che chi ha vissuto la nascita di un movimento musicale, come era allora, ricorda quest’epoca con una certa passione. E’ gratificante sentir dire, ad alcuni giovani di oggi, che avrebbero voluto vivere quel periodo di grande rivoluzione musicale. Secondo me, è importante fare una rispettosa distinzione di ciò che c’è stato prima e quello che è oggi: c’è molta presunzione in giro da parte di alcuni djs/produttori che credono di aver inventato nuovi generi musicali; ciò non è vero perchè la maggior parte dei generi attuali non sono cosi innovativi come si vuol far credere.
Tra i dj italiani esplosi negli anni 90, tu e pochi altri siete riusciti a fare il salto verso una carriera internazionale stabile, non solo a livello di gigs ma anche di produzioni. Come si approdava in circuiti e locali internazionali, prima che internet favorisse comunicazioni e veicolazione delle informazioni?
Sentivano parlare di te, ti chiamavano pur non conoscendoti e tu ti giocavi la partita. Il promoter francese parlava con un suo amico in Spagna e andavi a giocarti un’ altra occasione. Il pubblico cresceva esponenzialmente senza l’ausilio di pubblicità di agenzie dedicate al marketing o pompaggi politici di convenienza. Il tuo brand era il tuo stile e lo stile veniva riconosciuto subito. Tutto qui.
Hai iniziato a produrre dischi praticamente da subito, una carriera prolifica che ti ha portato su etichette storiche come UMM, alla creazione della tua Audio Esperanto, e che vive tutt’oggi. Per te, che hai prodotto il tuo primo disco nel 1991, che differenze ci sono, in positivo e in negativo, tra la tua generazione di producer e quella dei giovani italiani di oggi?
Uno studio costava moltissimi soldi, essendo tutto hardware. Le vendite standard generavano comunque i denari, necessari per investire nuovamente. A livello musicale, c’era molta spazzatura anche allora, ma tanta era la qualità sul mercato, che la si distingueva senza fatica. Oggi c’è bella musica, ma è aumentata esponenzialmente la mediocrità della musica stessa. Se un brano è “brutto” hai subito una sensazione di repellenza e decidi facilmente di non sceglierlo; il brano mediocre ti crea la sensazione di incertezza, il che mette più spesso in difficoltà di scelta. Per rispondere alla domanda sulle differenze tra produttori della mia generazione e quella nuova, posso dire che la differenza sta nel fatto che, la maggior parte di questi ultimi, producono in maniera molto “seriale”e simile ai colleghi stranieri. Probabilmente, sempre secondo il mio parere, la nostra generazione si diversificava più facilmente, dando anche ai vari generi un “certo” tocco “made in Italy”. Chiaramente questa interpretazione lascia spazio al libero arbitrio, senza voler essere critica.
Quando hai iniziato a produrre avevi dei riferimenti particolari che volevi seguire e da cui traevi ispirazione? Quali erano?
Il mio stile primordiale era molto etereo, anche se ben collegato alle mie radici. Nel produrre, ho sempre puntato a sonorità che stimolassero il viaggio mentale. Per me la musica elettronica è sinonimo di cosmo / universo / spazio: sono cresciuto con i Kraftwerk, mentre venivo affascinato dai Rockets o Moroder. Le mie radici sono funk & dance e per questo, dopo un po’ di anni di attività, con l’esplosione dell’elettronica, per lo più strumentale/sperimentale, ho trovato la via che mi ha portato, musicalmente e professionalmente, verso un stato mentale sublime, coniugando in maniera peculiare elementi di genere diverso tra loro.
Come vedi il panorama attuale dei produttori italiani? C’è qualcuno che segui di più o che pensi abbia veramente qualcosa in più degli altri?
Difficile esaudirvi su questo quesito. Persino nomi internazionali importanti, di cui sono grande stimatore hanno fatto delle cose che non erano di mio gradimento. Credo che questo sia normale, sento tante produzioni di giovani italiani interessanti, ma in maniera sporadica.
Oltre a dj e producer, organizzi anche i party Farfasound, dove inviti amici e giovani producer a suonare. Oltre all’esperienza, hai quindi una visione praticamente a 360° del mondo del clubbing italiano. Come pensi che si possano risolvere (se è possibile) i problemi del clubbing italico? Penso all’esterofilia innata, alle pubbliche relazioni fatte “a peso” e all’eccessivo costo dei booking.
Il 90% dei promoter ha fatto una scelta, ovvero quella di affidarsi alle dinamiche dettate dalle agenzie di booking internazionalmente collegate, le quali decidono che genere (inteso come “brand”) debba funzionare, chi deve lavorare…ma anche chi deve rimanere fuori da certi giochi. Fortunatamente c’è anche un mondo a parte, nel quale ci si può muovere. La globalizzazione ha portato ad un giudizio “massiccio”, altamente plagiato. C’è del resto anche una fetta di pubblico a cui non piace viaggiare sempre con i paraocchi. Forse non c’è nessun problema da risolvere, posso suggerire solo una cosa alla gente: imparare ad affinare il proprio potere interpretativo della bellezza e, da lì, sperimentare il proprio gusto.
Dopo 30 anni di vita dietro la consolle, come si vede oggi Francesco Farfa?
Una persona che ha vissuto molte evoluzioni e osserva cambiamenti, che cerca di compenetrare nel proprio gusto la creatività che avanza.
Chiudiamo questa intervista con una playlist, cinque dischi che rappresentano la carriera di Francesco Farfa.
Cito 2 mie produzioni e altri 3 dischi molto famosi:
Universal Love – Francesco Farfa
Peace Treathy – Learn to Fly (F.Farfa)
Kraftwerk – The Model
Mory Kante – Yeke Yeke
Massive Attack – Unfinished Sympathy