Per scoprire la grandezza di Franco D’Andrea bisogna un po’ andarsela a cercare; del resto, lui stesso si descrive come un “esploratore”, quindi per certi versi tutto torna. Ad ogni modo, si tratta forse di uno degli “unsung greats” del jazz italiano: non ha mai avuto il risalto mediatico di alcuni suoi colleghi, ma davvero per carriera e soprattutto per inventività e voglia di espandere i confini sonori a colpi di qualità meriterebbe di essere uno dei più celebrati jazzisti italiani, anzi, europei. Nella sua instancabile voglia di attraversare e migliorare i panorami dell’espressione, ad un certo punto ha intrecciato le traiettorie anche con una persona famigliarissima per chi legge Soundwall – parliamo di Dj Rocca, storico resident del Maffia e dj/producer di vaglia. Abbiamo parlato di questo, abbiamo parlato di molto altro, alla viglia della sua esibizione (venerdì 23 ottobre) all’interno della rassegna JAZZMI, un autentico miracolo non solo per il fatto che c’è, esiste, resiste, ma per la ricchezza e gusto del cartellone. A JAZZMI D’Andrea si esibisce con la formazione a nome New Things, un trio con Mirko Cisilino alla tromba ed Enrico Terragnoli alla chitarra. Quest’ultimo, per chi scrive, è un culto da sempre: grazie al fatto di provenire dalla stessa città (e Terragnoli, come racconta lo stesso D’Andrea, non si è mai sbattuto troppo per farsi conoscere fuori dalla zona di Verona), lo seguo da praticamente trent’anni e, davvero, sono pochissimi i chitarristi/musicisti in Italia così versatili, così immaginifici, così calibrati. Un “Bill Frisell italiano”, volendo la semplificazione giornalistica. Ad ogni modo, Franco D’Andrea è un musicista fantastico, con un approccio favoloso e da portare davvaero ad esempio. Leggendo questa bellissima chiacchierata, la cosa appare più evidente che mai.
Come ti dicevo, io Enrico Terragnoli musicalmente parlando lo conosco bene, e praticamente da trent’anni…
Beh, è stata molto divertente la maniera in cui ci siamo conosciuti di persona. Enrico faceva parte di un’associazione molto particolare, El Gallo Rojo, un po’ etichetta, un po’ collettivo artistico, una cosa molto interessante. Ero in contatto con loro, li ho visti fin da subito con grande interesse: erano persone capaci di spaziare, con uno spessore culturale autentico. Del collettivo faceva parte anche Alfonso Santimone; ecco, un giorno dovevo incontrarlo, doveva aiutarmi a sistemarmi alcune cose riguardo all’elettronica su alcuni strumenti, lui in queste cose è molto bravo, e l’appuntamento era appunto ad un concerto del collettivo. Un concerto dalle parti di Rovereto: per me perfetto, comodissimo, dato che io d’estate mi sposto sempre in montagna – d’altro canto sono nato a Merano, sono un montanaro nell’anima – quindi si trattava di non fare troppi chilometri per scendere giù a valle ed incontrarli. Perfetto. Arrivo, c’è il soundcheck in corso. Un gruppo validissimo: mi ricordo che c’era Zeno De Rossi, c’era Achille Succi… ma bisognerebbe nominarli tutti, erano tutti musicisti notevoli. Il problema però è che, non so per quale motivo, quel soundcheck quel giorno era particolarmente caotico, anarchico, suonavano tutti contemporaneamente, ma ognuno per i cavoli propri. Il fonico era palesemente contrariato! L’unico appartato, in silenzio, che non stava provando e suonando nulla, era Terragnoli. Gli altri, imperterriti. Ad un certo punto si zittiscono tutti all’improvviso; non so cosa sia successo, probabilmente un urlaccio del fonico, cose tipo “Vogliamo fare le cose seriamente o no?!“. E’ lì che Terragnoli finalmente fa due passi avanti, si mette in prima fila sul palco e, imbracciando un banjo (…sì, lui ama suonare gli strumenti più strani ed inusuali), fa una nota. Non un accordo: una nota. Solo una! Su un’unica corda. Se conosci il banjo, sai che è uno strumento che si suona sempre facendo degli accordi, delle parti ritmiche, comunque suonando più note assieme… E insomma: suona quell’unica nota. Io, folgorato. Guarda, ero lì con mia moglie, e mi ricordo di essermi voltato verso di lei dicendo “Ma questa è poesia pura…”. Quella singola nota aveva qualcosa di magico, quasi di divino – tant’è che da quel momento, e ci scherziamo sempre sopra, io mi sono divertito a chiamarlo “Dio”, io sono un politeista, ho qualche personaggio che mi fa da divinità, e lui è entrato in quel pantheon con quella singola nota, lui lo sa (ride, NdI). Bene, mi è bastata quella nota per capire che avevo di fronte un musicista speciale. Del resto, già me l’aveva detto Zeno De Rossi, già mi aveva parlato di lui. Terragnoli di suo è una persona molto tranquilla: vive a Verona, non si preoccupa troppo di fare chissà che. Ma è un musicista straordinario. In realtà avevo già sentito cose sue, e mi affascinava non poco la sua capacità di accostare suoni molto diversi fra loro uno dietro l’altro, con le sue chitarre poteva passare dall’essere Jim Hall a Jimi Hendrix senza soluzione di continuità, non so se mi spiego, per non parlare di quello che riusciva a fare con l’elettronica, con gli effetti. Ad ogni modo, appena lo conosco e dopo questa bizzarra epifania gli propongo praticamente subito di entrare nel mio sestetto: amo i musicisti in grado di disegnare scenari imprevedibili, inediti, non abituali. Ho aggiunto lui; ho aggiunto un altro musicista non strumentista, ma con le stesse qualità e la stessa capacità di “espandere” i suoni: Dj Rocca.
Altro amico mio!
Anche Dj Rocca è un tipo fantastico! Lui ed Enrico erano, per così dire, la “sezione elettronica” del mio ensemble, quelli col compito di creare – ognuno a modo proprio – dei colori particolari. Il sestetto diventa ottetto, ne nascono anche due dischi, “Intervals pt. 1” e “Intervals pt. 2”. Ad un certo punto però penso: “Bello, ma mi piacerebbe fare qualcosa in cui Enrico è ancora di più in primo piano”. Ed è così che nasce l’idea di New Things, un trio.
(I due “Intervals”, davvero bellissimi; continua sotto)
Un trio davvero atipico, per il jazz: non c’è batteria, non c’è contrabbasso, manca completamente la sezione ritmica. Eppure, paradossalmente, la musica di New Things ha una fortissima identità e propensione ritmica… Sbaglio?
Io mi diverto a creare ensemble dove, ufficialmente, la sezione ritmica non c’è: pensa ad esempio Traditions Today, il trio con Mauro Ottolini al trombone e Daniele D’Agaro al clarinetto, oltre a me al pianoforte. Perché vedi, con queste formazioni “strane” e prive di sezione ritmica ogni singolo musicista è, in qualche maniera, obbligato a cercare di dare una pulsazione ritmica di suo. Con Ottolini poi, davvero eccezionale nel dare una scansione ritmica ad un gruppo con la sua sola forza del suo strumento e di un uso eccellente dell’effettistica, il gioco era ancora più facile. Tutti e tre ad ogni modo concorrevamo nel darci una mano a “sostenere” ciò che, in teoria, non c’era. Sì: è importantissimo quando si suona darsi una mano, a maggior ragione se in formazioni non canoniche. Il dialogo è fondamentale. Io da ragazzino sono cresciuto innamorandomi del dixieland; il primo disco che ho sentito nella mia vita è quello di Louis Armstrong con gli All Stars, e già lì impari a capire che l’interplay tra strumenti, il dialogo che creano fra di loro, è importantissimo. E’ arte, è creazione. Ecco che quindi, tornando a noi, non hai bisogno per forza di una sezione ritmica se hai, dalla tua, un uso creativo dello strumento e un dialogo reale e costruttivo fra musicisti. Lo si capiva già col dixieland, se ascoltavi bene; ma lo si capiva ancora meglio poco più tardi con Duke Ellington, che metteva sempre una eccezionale attenzione all’effettistica degli strumenti nelle sue band – chiaramente lui con soluzioni acustiche, non elettroniche. Usare bene l’effettistica può insomma veramente cambiare le cose, può rendere “grandi” ensemble molto ridotti. Che poi, io di mio la uso poco, come pianista; ma ho ottantotto tasti a mia disposizione, le possibilità sono tantissime per me!
Sono un pianista sì, ma a mezzo servizio. A me prima di tutto piace l’idea di creare una direzione nella musica, di “fomentarla”, di comprenderne i meccanismi di funzionamento per poi poterli indirizzare
Le possibilità sono tantissime, ma bisogna saperle sviluppare. E io ho l’impressione che tu, negli ultimi anni, sia davvero in uno stato di grazia, di grandissima ispirazione e felicità creativa.
Sì, è vero, sono contentissimo. Allora, ti svelo una primizia, perché stiamo parlando di un progetto che ancora non ha inciso nulla: dicevamo di Dj Rocca, no? Ci siamo conosciuti grazie ad una situazione molto particolare. C’era una specie di “remix contest”, che si basava su un minuto e mezzo di musica suonato da me al pianoforte. Materiale acustico, quindi, affidato all’arte digitale del remix. Stiamo parlando di cinque, sei anni fa.
Il progetto promosso da Musical Box, su Rai Radio Due!
Esattamente. Furono così gentili anche da chiedermi di fare parte della giuria che doveva decretare il vincitore finale di questo contest. Arrivò una quantità sorprendente di materiale, credo qualcosa come sessanta, settanta remix; non partecipai al primo processo di selezione, ma una volta individuati i dieci migliori mi fu gentilmente chiesto di unirmi alla giuria e alle sessioni di ascolto per decretare il vincitore. Il mio parere non era vincolante, però insomma, ci tenevano tutti che ci fossi anche io… Insomma, sono lì, mi metto ad ascoltare, arriva il turno del remix di Rocca e dico subito “Oh, fermi tutti. Questo è un fenomeno”. Tutto il materiale era di qualità ma – per i miei gusti, almeno – quanto fatto da lui era davvero ma davvero una spanna sopra tutto e tutti. Dal mio minuto e mezzo aveva estratto e creato quattro minuti di musica che erano, fra le altre cose, incredibilmente “maturi”. Infatti quando poi ci siamo conosciuti devo dire che non me lo aspettavo così giovane: perché in quanto aveva fatto c’erano dei riferimenti che avrei attribuito a qualcuno più avanti nell’età, penso ad esempio a Gil Evans, alle sue orchestrazioni nell’ultima fase della carriera, cose molto sofisticate insomma. Ad ogni modo: finalmente ci conosciamo, e parlando scopriamo che qualcosa in comune lo avevamo. Lui, da giovane, aveva suonato il flauto traverso e si era molto interessato al jazz e, tra le altre cose, aveva una grande passione per il Miles Davis “elettrico”, che all’epoca avevo trovato molto interessante anche io, sia “Bitches Brew” che gli altri suoi lavori di quel periodo… Miles in quel periodo era davvero innovativo. In qualche maniera, questo discorso sul Davis elettrico venne accantonato; ci concentrammo su altri percorsi, nacque il trio Electric Tree con lui all’elettronica ed Andrea Ayassot al sax, un’altra storia. Succede però che ad un certo punto poco tempo fa mi contattano degli organizzatori di Guastalla, e mi fanno: “Ma, ti andrebbe di fare un progetto speciale? E farlo con Dj Rocca?”. Io sono sempre stato restio a fare queste cose un po’ improvvisate, preferisco esibirmi con organici già formati, già collaudati. Però è anche vero che mi piacciono molto i “Cosa sarebbe successo se…?”. Ad esempio, mi chiedo spesso “Che direzione avrebbe preso il jazz se non ci fosse stata la grande crisi del 1929? In quale altra maniera si sarebbe evoluto se la depressione economica non avesse influenzato le economie dei locali e delle big band?”. A questo punto ti devo parlare di “Turkish Mambo”…
(Un capolavoro atipico; continua sotto)
Il brano di Lennie Tristano?
Esattamente. Un pezzo che ho sempre amato moltissimo, dalla prima volta che ho sentito. Ma è un pezzo complicato. Una di quelle tracce “ingegnose”, come le definisco io – come lo è ad esempio “Giant Steps” di Coltrane. Musica non facile da suonare, nel jazz, perché ci sono accordi e successioni di accordi difficilissimi, molto complessi da eseguire e da gestire, devi essere molto veloce mentalmente e il rischio di “perdersi” è sempre molto alto. Però era affascinante, “Turkish Mambo”, coi suoi incastri ritmici, con le sue parti che si sovrappongono (all’epoca, una vera novità); anche se era un po’ cupa. Poco ariosa. Non amo le cose troppo cupe; ma l’ingegnosità di “Turkish Mambo” era tale che, insomma, non potevo non restarne conquistato pure io. Ma la sfida da affrontare allora diventava allora: prenderlo, e reinterpretarlo per renderlo meno scuro, meno involuto, meno cervellotico. Cimentarmi in questo esercizio, dagli anni duemila in poi, è diventata una delle mie routine preferite. Quindi capisci: per me “reinterpretare” le cose dando loro nuova vita è sempre stata una sfida bellissima, appassionante. Ma torniamo a Rocca…
(Eccolo, l’Electric Tree che ha “deviato” da Miles; continua sotto)
Torniamoci!
Il “come se” con lui era: “Cosa sarebbe successe se avessimo approfondito il discorso sul Miles elettrico, invece di dare vita ad un trio, ad Electric Tree?”. Quando poi è arrivata la proposta di Guastalla ho anche pensato: “Mmmmh… interessante: perché se siamo in due, lui dovrà per forza tirare fuori tutti l’armamentario sonoro e creativo che ha a disposizione. E ce l’ha bello grosso, questo armamentario!” Avevo ragione. E’ venuta fuori una gran cosa. Abbiamo iniziato a lavorarci ad agosto, in maniera atipica, io gli mandavo delle cose, corredate da spunti, idee, osservazioni, spiegazioni sulle mie scelte e sul mio modus operandi basato sugli intervalli (non è facile starmi dietro…), lui me le rimandava con spunti suoi. L’idea era, fin dall’inizio: creare musica insieme. Musica nuova, creata da entrambi, in un dialogo creativo serrato. Con alcuni punti caratteristici del Miles elettrico a fare da primo spunto: in primis i riff, gli ostinati, fatti con basso o anche con la batteria, che pur non arrivando a formare un vero e proprio tema davano un’atmosfera e una direzione ai brani. E, esattamente come faceva Miles nelle sue band, abbiamo costruito io e Rocca dei segnali specifici fra noi per riconoscere quando c’erano cambi, intervalli che scendevano, mutamenti di direzione da adottare. Dopo tutto questo lavoro preparatorio, è arrivata finalmente la data di Guastalla.
E?
E, è stato fantastico. Una rivelazione: finalmente uno di fronte all’altro, mettendo in atto ciò di cui avevamo tanto parlato e su cui avevamo tanto lavorato, e facendolo però dialogando dal vivo, in tempo reale. E’ andata non alla grande, ma proprio alla grandissima! Abbiamo poi fatto un altro concerto, a Pomigliano D’Arco, ed anche lì è andata molto bene. Ovviamente l’esibizione è stata diversa rispetto alla prima: io ci tengo sempre molto ad avere registrazioni di miei concerti perché così posso riascoltare e capire dove lavorare, dove approfondire, dove limare, dove arricchire. Ragiono sempre molto sulla musica che faccio quando mi esibisco dal vivo. E’ così anche per New Things, naturalmente: di Enrico ti ho già parlato, ma anche Mirko Cisilino alla tromba è un musicista straordinario. Pure lui usa molto gli effetti, non a caso. Adoro che un musicista sappia trasformarsi, sappia trasformare il suo strumento. Puoi farlo con l’elettronica, puoi farlo in acustico.
(New Things; continua sotto)
MI viene da chiederti, anche alla luce di quello che mi stai raccontando, della cura che metti nel “risultato complessivo” di quello che fai, nella visione: ti senti più pianista, o band leader? Dovendo scegliere, eh.
In generale, mi sento un musicista. Anche perché in realtà io nasco trombettista, è quello il primo strumento che ho suonato e a cui mi sono appassionato. Ho anche fatto di un gruppo dixieland, già a tredici anni, e devo dire che a sedici la tromba la suonavo abbastanza bene: mai avevo toccato il pianoforte, all’epoca. Solo che ad un certo punto un po’ mi ero accorto che con la tromba, per diventare veramente bravo, avevo delle limitazioni impossibili da superare, perché legate alla forma della mia bocca, dei miei denti, che mi davano problemi soprattutto sulle note acute; un po’ invece avevo iniziato ad ascoltare altro jazz che non fosse il dixieland e, beh, sentendo Horace Silver o John Coltrane non potei non pensare “Cavoli, interessante ‘sta roba… E’ bella. Ma non riesco a capirla bene, com’è ‘sta cosa?”. Perché armonicamente…
…era, per l’epoca, rivoluzionaria.
Già. Quindi, per tentare di capirla inizio a mettere le mani sul pianoforte. “Ok, sono uno strumentista a fiato, ma vediamo di capirci qualcosa di armonia, di come funzionano ‘ste cose nuove soprattutto”. Eh: da lì al pianoforte “…ci sono rimasto attaccato”, come dico sempre ai miei studenti. Soprattutto per questo jazz più “moderno”, il pianoforte era imprescindibile per capirne al meglio l’anima e lo sviluppo armonico, qualcosa che era sempre molto complesso – già con Silver lo era, figuriamoci con Coltrane. E’ in questo modo che piano piano ho cambiato strumento, e sono passato al pianoforte. Iniziavo a diventare un pianista, insomma. Solo che era difficile, all’epoca, fare il musicista di jazz come professione. Figurati che a Merano se dicevi “Jazz” ti rispondevano, ma succedeva veramente eh!, “Cosa è? Si mangia?”. Erano tempi così.
Ad un certo punto ho scoperto anche gli strumenti modificati elettronicamente, già ai tempi dei Perigeo, è già passato un po’ di tempo ormai: per loro storicamente ho sempre più suonato il Fender Rhodes che il pianoforte acustico. E sul Fender usavo tanta, tanta effettistica
Eh, dura.
Era difficilissimo immaginarsi di poter vivere col jazz. Io c’ho provato. Naturalmente con pochi soldi, con poche soddisfazioni economiche – ma con grande soddisfazione mia personale, del mio cuore. Il jazz mi ha dato una vita felice. E sono diventato un pianista di professione, sì. Ma se uno osserva la mia carriera, ho sempre amato infilarmi in formazioni dove gli strumenti a fiato giocano un ruolo importantissimo: non è un caso. E in più, devo dire che negli ultimi anni ho ripreso ad interessarmi al jazz più tradizionale – naturalmente ripreso però a modo mio. Per tornare alla tua domanda: sono insomma un pianista sì, ma a mezzo servizio. A me prima di tutto piace l’idea di creare una direzione nella musica, di “fomentarla”, di comprenderne i meccanismi di funzionamento per poi poterli indirizzare. Ad un certo punto ho scoperto anche gli strumenti modificati elettronicamente, già ai tempi dei Perigeo, è già passato un po’ di tempo ormai: per loro storicamente ho sempre più suonato il Fender Rhodes che il pianoforte acustico. E sul Fender usavo tanta, tanta effettistica. Sai perché? Perché in fondo mi ero accorto che era uno strumento “carino”… troppo “carino”. Sentivo il bisogno di dargli un po’ di grinta di trasformarlo un po’; quindi iniziai ad usare le scatolette che si usavano all’epoca, per l’effettistica. Era diventato abbastanza bravo ad usarle, dai.
(Uno dei dischi commercialmente più fortunati dei Perigeo con D’Andrea; continua sotto)
“Abbastanza”? Mi pare un eufemismo. Tra l’altro questo eufemismo mi fa tornare alla mente un passo della lunga chiacchierata con Fresu, quando ad un certo punto il discorso cadde su di te e ci trovammo d’accordo nel considerarti un “grande sottovalutato”, un jazzista di statura eccezionale che meriterebbe molta più esposizione e rilevanza. “Ma magari Franco è più contento così”, disse Fresu. Ora che posso chiederlo direttamente: qual è la verità?
Io, più che altro, sono un esploratore. Mi sono preso la parte di quello che va a vedere cosa c’è un po’ più in là, lì dietro l’angolo. In questa maniera, lo so, sono sempre un po’ sfasato rispetto al mio tempo. Non sono mai in sintonia con le mode del momento. Non lo era negli anni ’80, non lo ero nei ’90, non lo ero nemmeno nei ’60. Ero sempre quello un po’, come dire, “particolare”. Ma non mi dispiace questa cosa, sai? Capire cosa può succedere nel futuro, nel momento in cui ancora non sta succedendo, è una curiosità che ho sempre avuto. E poi mi piace, appunto, studiare, esplorare. Quando – parliamo di quaranta, cinquanta anni fa – ho iniziato a dirmi “Ma nell’armonia, cosa si può fare? Dove posso trovare le soluzioni più atipiche ed interessanti?”, ho capito subito che dovevo conoscere meglio la musica classica del ‘900, Schönberg, Webern (…non ti dico Debussy, perché Debussy nel jazz era già entrato eccome), e poi anche il grande stacco dodecafonico che si è avuto più in là. Stockhausen, ad esempio. Poi vabbé, i tedeschi hanno sempre queste manie di grandezza, opere che durano quattro ore…
…o partiture per elicottero, visto che stavamo citando Stockhausen!
Già! Insomma, io amo andare a spulciare in altre musiche che mi possono aiutare a muovermi meglio, e a capire di più, nella musica “mia”, che resta il jazz. Mi sento a casa, con lui. Ogni tanto esco, vado in giro, trovo qualcosa… lo riporto a casa, e lo uso a modo mio. Dalla classica contemporanea appunto ho imparato molte cose; nei primi anni ’80 invece ho avuto una grande fulminazione per la musica africana, soprattutto quella dell’Africa Occidentale, Mali, Ghana, Burkina Faso… una fulminazione tra l’altro nata un po’ per caso.
(Il rapporto con l’Africa nasce, indirettamente, da questo album; continua sotto)
Ovvero?
Fine anni ’70 ristampano un mio disco, “Modern Art Trio”, con Franco Tonani e Bruno Tommaso. Un’esplorazione sonora piuttosto forte, molto avanguardistica soprattutto per l’epoca. A curare la ristampa fu una persona che si occupava anche della collana Albatros, che all’epoca si occupava di musiche del mondo: registrazioni fatte sul campo in Australia, Thailandia, eccetera… e c’era naturalmente anche l’Africa. Un giorno, in ufficio da lui, mi indicò un po’ di dischi di questa collana e disse “Ah senti, ‘sta roba, se vuoi prenderla… non farti problemi…”: osservando i dischi avevo pensato che in fondo l’Africa nel jazz aveva avuto un ruolo importante, quindi magari poteva valere la pena dare un’ascoltata a certa musica tradizionale africana, anche se il jazz mi sembrava già molto completo e compiuto ritmicamente. Però: non si sa mai. Porto a casa. Ascolto. E mi dico: “Oh, ma guarda che roba…”. Percussioni, balafon, incroci ritmici incredibili… cose da matti! “Ehi, qui c’è da imparare qualcosa!”: il jazz ritmicamente era forte, ma avevo capito che gli africani potevano essere ancora più forti. Mi sono messo sotto a studiare. Per fortuna, sono abbastanza veloce nell’apprendere. Ho capito bene o male come funzionava il tutto e col quartetto che avevo all’epoca…
…quello con Tracanna, Zanchi e Cazzola?
Esattamente. Con quel quartetto, facemmo alcune date aggiungendo un quartetto africano di percussionisti, gli Africa Djolé. Fu molto interessante. Discograficamente non è rimasto praticamente nulla: peccato. Nel 1987 poi, con questo quartetto, e l’aggiunta di Luis Agudo, trovammo il modo di andare in Arfrica, in Camerun per la precisione. Noi suonammo la nostra musica, ma sentimmo anche la musica del posto: incredibile, pazzesca. Mi ricordo proprio un momento preciso – eravamo in una discoteca, ma una discoteca come potevano essere le loro all’epoca, poco più che una grande capanna, e tutti ballavano, con sul palco una band che faceva dal vivo delle cose assolutamente straordinarie. Si chiamavano Les Veterans: questo perché nella musica incorporavano anche elementi della tradizione, e questa in realtà era lì come può esserlo per noi oggi sentire la musica napoletana, magari può essere visto come un po’ “facile”, stucchevole. Per me era interessante non poco, invece, perché “riconoscevo” musica che avevo studiato. Ma loro appunto non era una tradizione “statica”: era resa viva, attuale, mutevole coinvolgente, era contaminata con quello che stava arrivando dall’Occidente. Io ero estasiasto. Loro sul palco, il modo in cui la gente ballava. Stavo lì, sembravo drogato… (ride, NdI) Ma poi in quel viaggio ci furono anche altre avventure, un francese che stava lì e che era molto introdotto ci guidò un giorno anche nella foresta, portandoci a feste notturne assurde, piene di percussionisti mirabolanti.
Fantastico! Ma, non sei rimasto lì. Sei tornato.
Io torno sempre a casa. Ci torno in varie maniere, e ci torno più ricco: perché arrivo portandomi dietro delle spezie che non conoscevo, che possono rendere più forte ed interessante quello che faccio, il mio linguaggio; ma torno sempre a casa, sempre.
Foto di Andreas Pichler