François Kevorkian è una figura chiave nella storia della musica. Batterista, remixer, tecnico del suono, produttore, DJ, label manager, ha vissuto in prima persona i tempi d’oro della disco music e della house – ha suonato spalla a spalla con Walter Gibbons e Larry Levan – si è esibito nei locali newyorkesi più importanti di sempre – The Loft, Studio 54, Paradise Garage – puntando il suo sguardo costantemente “oltre” il comune sentire in musica – collaborando a dischi seminali, fra gli altri, di Depeche Mode, Kraftwerk, Pet Shop Boys – e recentemente organizzando una serata di musica dub che ogni lunedì a New York propone nuove sonorità a centinaia di frequentatori. Quando si tratta di “François K” non si può parlare di generi precisi di riferimento né di una esperienza particolare che conta più di altre, piuttosto è un artista di larghe vedute, instancabile curioso della musica in senso lato e figura insolitamente umile quando si parla del suo passato ingombrante. Lo abbiamo intervistato un attimo prima della sua esibizione romana presso il club “Nur Bar” (evento inserito nella rassegna musicale Rebirth).
Il tuo percorso artistico è incredibile, in pochi possono vantare una tale varietà di esperienze come quelle da te vissute. C’è una parola che credi rispecchi questa tua attitudine?
Passione.
All’età di 21 anni sei partito per New York sperando di trovare un impiego come batterista e ti sei ritrovato al “Galaxy 21” come percussionista accanto a Walter Gibbons e Kenny Carpenter. Che ricordo hai di quegli anni?
Facevo semplicemente il mio lavoro, quello che mi chiedevano di fare, dovevo pagarmi l’affitto e da mangiare, molto concretamente avevo la necessità di lavorare e di guadagnarmi da vivere.
Cosa significava esibirsi accanto ad un DJ, dovevi adattare il tuo stile ad un tipo di sonorità non proprio consuete al tempo.
Onestamente non c’è molto da dire, facevo quello che mi sentivo di fare, seguivo il flow, dovevo fare certe cose e le facevo, senza pensarci troppo su.
Poi c’è stato l’“Experiment 4” dove poi ti è capitato di sostituire per una serata il DJ resident del club John “Jellybean” Benitez e l’esperienza maturata ti ha permesso di proporre la tua visione musicale e di farti guadagnare il posto fisso accanto allo stesso Benitez. A quei tempi avevi già fatto dei remix e significava lavorare sui nastri ed in modo del tutto analogico per una sorta di “altro mix” non come le rielaborazioni comunemente intese oggi, giusto?
Iniziai a fare i primi remix nel 1978 e questa tecnica esisteva già da almeno cinque o sei anni, perciò quando mi chiesero di farli avevo già degli esempi dai quali attingere. Si facevano solitamente delle versioni estese di un brano, si aggiungeva una linea di batteria, si allungava l’intro, cose così… l’unica innovazione che ho visto fare a qualcuno in questo ambito riguarda Larry Levan con i Peach Boys quando sul lato b di un brano (“Life Is Something Special” NDR) registrò una versione “A Cappella”. Quella era una novità assoluta. Divenne subito una moda farlo, ma prima di lui nessuno aveva mai realizzato una cosa del genere.
Dopo la tua esperienza come responsabile della scoperta di nuovi artisti presso la casa discografica Prelude Records, specializzata in disco music, la tua attività come DJ si è intensifica, insieme alla tua fama, che ti ha portato a suonare nei migliori locali di NY: Studio 54, The Loft e il Paradise Garage spalla a spalla proprio con Larry Levan. Cos’altro ti senti di raccontarci su di lui?
L’unica cosa che posso dire è che mi manca moltissimo.
Recentemente hai dichiarato “The Paradise Garage was about the celebration of music. A deep, spiritual, heartfelt and powerful experience”, ci racconti com’era?
Innanzitutto il Paradise Garage era un club privato, non aperto al pubblico, quindi solo i suoi membri potevano entrare. Non veniva servito alcool o roba da mangiare e quindi il proposito non era quello di fare più soldi possibili al bar ma di far sentire le persone al sicuro e parte di una comunità. Inoltre il Paradise Garage era anche un gay club ed essere gay a quei tempi non era facile e quindi questo luogo, per i suoi frequentatori, era un autentico paradiso, dove poter essere se stessi e sentirsi parte di qualcosa di più grande.
E sullo Studio 54 cosa ti senti di raccontarci?
Lo Studio 54 era tutta una questione di soldi. Era la celebrazione del denaro, più ne avevi e più lo ostentavi a tutti.
Come se fosse il rovescio della medaglia rispetto al Paradise Garage?
Esatto, più potere ed influenza avevi e più eri il benvenuto. Era pieno di celebrità e non era facile entrare, bisognava avere le conoscenze che contano, non solo avere i soldi ma anche avere gli agganci giusti, bisognava essere qualcuno. Era un posto dove sembrava che le persone si sentissero di continuo davanti alla telecamera, come se fossero attori in una discoteca.
Torniamo alla tua storia, a metà degli anni ’80 hai deciso di lavorare principalmente a materiale tuo e anche come collaboratore per una lista lunghissima di artisti di lusso, tra gli altri ci sono Depeche Mode, Eurythmics, Kraftwerk, Pet Shop Boys, The Smiths, ma anche Pink Floyd, vero?
Mi sono rapportato solo con David Gilmour, mi mandò una traccia e io realizzai il missaggio ma non ci siamo mai incontrati in studio.
Nel 2002 ti sei esibito insieme a Derrick May suonando come “Cosmic Twins”. Che tipo di esperienza è stata per te?
E’ stata esplorazione musicale, ci siamo influenzati a vicenda e per me è stata una esperienza davvero stimolante. Lui è una persona speciale che va dritto per la sua strada, senza compromessi. E’ stato divertente.
Ogni lunedì sera a New York organizzi la serata “Deep Space” presso il Cielo Club per proporre musica dub, declinata in ogni sua forma possibile. Ci parli di questo progetto?
Deep Space riguarda la musica dub intesa come tecnica o, per meglio dire come approccio attraverso il quale proporre musica differente, che possa essere reggae o dubstep e così via. Per me il dub è davvero un modo di relazionarsi con la musica, di far ascoltare al pubblico materiale meno mainstream, che alle volte li sciocca, perché non sono preparati a qualcosa di diverso, che vada oltre le loro abitudini.
Anche se lo stesso dubstep ad un certo punto è diventato mainstream.
Si, lo è diventato, ma all’inizio era qualcosa di differente. Sono otto anni che il dubstep è diventato popolare, e la gente oggi lo comprende, ma quando lo proponevo alle serata Deep Space era una novità e non tutti riuscivano ad apprezzarlo. Eravamo l’unico club che suonava dubstep a New York e che invitava i protagonisti della scena: Digital Mystikz e quindi Mala & Koki, delle volte Pinch, Joy Orbison, Mary Anne Hobbs. E’ una attività che reputo molto stimolante perché è come cercare una connessione temporale che ti fa vivere il passato del dub ma anche il presente con artisti come Sherwood & Pinch che riescono ad aggiornare bene certe intuizioni musicali. Mi piace essere open minded e proporre musica senza barriere di genere, anche al rischio di non essere compreso. Perché ripeto, una larga fetta di pubblico non vuole il cambiamento, non vuole pensare o esplorare nuovi generi ma magari solo bere e divertirsi. In questo senso la serata Deep Space è qualcosa che va oltre una proposta classica in discoteca. Inoltre essendo di lunedì sera ha un pubblico maggiormente interessato alla musica in sé. Per esempio qualche settimana fa ho messo su un disco di Miles Davis e sono sicuro che a qualcuno sia piaciuto, che ricorderà quel momento, magari non tutti i presenti l’avranno capito ma una percentuale minore di sicuro.
Credi che la conoscenza musicale di un DJ possa compensare una tecnica magari non eccelsa?
Credo che dipenda sostanzialmente dal pubblico che hai davanti. Puoi avere una platea interessata semplicemente alla qualità della musica, che non si cura degli aspetti tecnici della vicenda. Ma esistono anche persone che si aspettano qualcosa di più e allora devi essere in grado di sostenere entrambi i livelli. Un DJ deve comprendere che pubblico ha davanti e quindi regolarsi di conseguenza.
Che rapporto hai con i software musicali odierni, li utilizzi e cosa ne pensi?
Ritengo che sia importante il risultato che si ottiene e non come si arriva ad esso. Io utilizzo ogni tipo di strumento possibile, compresi i moderni software musicali. Conta solo raggiungere il traguardo che ci si è prefissati, solo questo.
Cosa ci suonerai questa sera?
Buona musica.
Prima hai citato Miles Davis, ci vuoi consigliare qualche disco jazz che reputi più importanti di altri come chiusura dell’intervista?
Beh è una domanda difficile, ci sarebbe troppo materiale importante da consigliare… diciamo che quello che conta per me nel jazz è l’attitudine, ma sotto questo punto di vista si potrebbe parlare sia di solisti formidabili come Keith Jarret o il Chick Corea di solo piano che di formazioni imprescindibili che hanno saputo sperimentare nuovi linguaggi, sopratutto in ambito free jazz. Delle volte poi, nella carriera di un singolo artista, puoi trovare esperienze anche molte diverse l’una dalle altre, come nel caso di Herbie Hancock. I suoi primi esperimenti con Miles Davis sono incredibili, ma anche la sua esperienza nel rielaborare il materiale piano ed orchestra di George Gershwin lo è altrettanto. Dovrei scrivere un libro a riguardo!
English Version:
François Kevorkian is a key figure in the history of music. Drummer, remixer, sound engineer, producer, DJ, label manager, has experienced firsthand the golden age of disco and house – played back to back with Walter Gibbons and Larry Levan – has performed in the New York’s most important clubs – The Loft, Studio 54, Paradise Garage – continuously looking beyond the usual in music – collaborating on seminal records by, among others, Depeche Mode, Kraftwerk, Pet Shop Boys – and recently organizing dub parties each Monday in New York offering new sounds to hundreds of visitors. When we speak about “François K” we cannot talk about a specific reference or a particular experience that counts more than others, rather he is an open minded artist, an untiring curious about music in the broadest sense and an unusually humble figure when he speaks about his bulky past. We interviewed him just before his performance at the Roman club “Nur Bar” (event part of the Rebirth musical happenings).
Your artistic path is amazing, only few can vaunt such a variety of experiences like those lived by you. Is there a word that you think can reflect your attitude?
Passion.
At the age of 21 you travelled to New York hoping to find a job as a drummer and you found the “Galaxy 21” playing next to Walter Gibbons and Kenny Carpenter. Which memories do you have about those years?
I just did my job, what they asked me to do, I had to pay my rent and my food, very concretely I had the need to work to earn my living.
What meant at that time to perform alongside a DJ, you had to adapt your style to a quite unusual kind of sound.
Honestly I have not much to say, I just did it, I followed the flow, I had to do certain things and I did them, without thinking too much.
Then was the time of “Experiment 4” where happened to substitute for an evening the resident DJ of the club John “Jellybean” Benitez and your experience allowed you to propose your musical vision and make you earn the position next to Benitez. You had already done remixes and it meant working on the tapes and in analog way to realize “another mix” and not just a remix like we know it today, right?
I began to remix in 1978 and this technique already existed for at least five or six years, so when they asked me to do it I had examples to follow. They were usually extended versions of a track, the add of percussion breaks, a long introduction, things like that… the only innovation I’ve seen realizing regards Larry Levan with Peach Boys when on the b-side of a track recorded an “A Cappella” version of the song. That was an innovation. Then it becomes a common technique but no one before him had ever done such a thing.
After your experience as A&R at the record company Prelude Records your work as a DJ has intensified, along with your fame, that led you to play in the best clubs of NY: Studio 54, The Loft and Paradise Garage next to Larry Levan. What else can you told us about him?
The only thing I can say is that I miss him very much.
You recently said that The Paradise Garage was about the celebration of music. A deep, spiritual, heartfelt and powerful experience, what can you tell us about it?
First, the Paradise Garage was a private club, not open to the public. It means that only its members could enter. No alcohol was served or anything to eat so the purpose was not to make the most money as possible at the bar but to make people feel safe and part of a community. The Paradise Garage was also a gay club and be gay in those years was not easy, so the place was like a heaven, where people could really feel free and part of something bigger.
And what about Studio 54?
Studio 54 was all about money. It was the celebration of money, the more money you had the most could you show around.
As the flip side of the coin?
That’s right, more power and influence you had the most you were welcome. It was full of celebrities and of course it was not easy to get in, you had to have the right skills, not only have money, but also have social connections, you had to be someone. It was a place where it seemed that everyone feels constantly in front of the camera, as if they were actors on the dance floor.
Let’s go back to your story, in the mid-80s you decided to work primarily on your own material and as a producer for a long list of luxury collaborations, among others there are Depeche Mode, Eurythmics, Kraftwerk, Pet Shop Boys, The Smiths, but also with Pink Floyd, is it true?
Only with David Gilmour, he sent me a track and I realized the mix but we never met in the studio.
In 2002 you performed together with Derrick May playing as “Cosmic Twins”. What kind of experience was it for you?
It was a musical exploration, we influenced each other and for me it was truly inspiring. He is a special person who goes straight on his way, without compromise. It was fun.
Every Monday night in New York you organize the “Deep Space” evening at the Cielo Club proposing dub music, declined in every possible form. What can you tell us about this project?
Deep Space is about dub music, that for me is a technique or, rather, an approach with which filter different music that can be reggae or dubstep or something else. For me, dub is a way of approaching music, to propose to people material that is not mainstream. Sometimes that shocks people because they are not prepared for listening something different, beyond their habits.
Although even dubstep at one point has become mainstream.
Yes, but at the beginning it was something different. Since eight years dubstep has become popular, and people now understand it, but when I suggested it with Deep Space was a novelty and not the entire public were able to appreciate it. We were the only club that was playing dubstep in New York, calling the protagonists of the scene: Digital Mystikz and so Mala & Koki, sometimes Pinch, Joy Orbison, Mary Anne Hobbs. It’s an activity that I find very exciting because it’s like connecting the dots between the past of the dub and the present with artists like Sherwood & Pinch who manage to update certain musical intuitions. I like to be open minded and offer music without gender barriers, even at the risk of not being understood. I repeat, a large share of public does not want to change, do not want to think or explore new genres but maybe just drink and have fun. In this sense the Deep Space evening is something that goes beyond the classical disco proposal and being on Monday night there is an audience more interested in music itself. For example, a few weeks ago I put on a disc of Miles Davis and I’m sure that someone liked it, someone will remember it, maybe not everyone but a lower percentage for sure.
Do you think that the musical knowledge of a DJ can compensate a not excellent technique?
I guess it depends from the audience in front of you. You can have an audience interested simply on the quality of music, that does not care much about technical aspects of the story. But there are also people who expect something more and then a DJ must be able to support both levels. A DJ needs to understand his public and act consequently.
What do you think about today music software, do you use any?
I think that the result is important not the way you reach it. I use any kind of tool that I can, including modern music software. The thing that counts is the result, just that.
What are you going to play tonight?
Good music.
Before you mentioned Miles Davis, can you recommend some jazz record that you consider more important than other to close this interview?
Well it’s a difficult question, there would be too much important material to recommend… I can just say that what counts for me in jazz is the attitude, but from this point of view I can speak about formidable soloists like Keith Jarrett and Chick Corea only piano but also about essential groups that have been able to experience new languages, especially in the field of free jazz. Moreover In the career of a single artist, you can find many different experiences like those of Herbie Hancock. His first experiments with Miles Davis are incredible, but also its reworks of the piano and orchestra material by George Gershwin are great. I should write a book about this topic!