Va bene tutto, purché ci sia consapevolezza: un principio di semplice buon senso, questo. Che però troppo spesso si tende a dimenticare o almeno a sottovalutare. Vale, vale sempre. Vale anche in un fenomeno che ormai ha preso massicciamente piede; un fenomeno che, se ce l’avessero detto anche solo vent’anni fa che sarebbe andata così, non c’avremmo creduto mai. D’altro canto, vent’anni fa non avremmo nemmeno creduto che internet potesse essere possibile così come lo conosciamo oggi, e quindi… E non è un caso se chiamiamo in causa il world wide web: perché la recente proliferazione di musica “a gratis” in giro, che è il motivo di questo editoriale, nasce grazie al web. Ma nasce forse anche a causa del web.
Guardatevi attorno. Ormai non passa giorno, con una particolare intensificazione nell’ultimo anno, in cui non ci sia qualche artista o dj che vi “regala” un brano, un mixato, un ep: qualcuno lo fa per festeggiare ricorrenze (particolarmente di moda il “xxxxxx amici su Facebook” o “xxxxx amici su Twitter), qualcuno lo fa perché lo trova il modo migliore per farsi conoscere ed uscire dal semi-anonimato, o almeno così spera. “E’ normale”, direte voi, “oggi è così che ci si fa conoscere o comunque si consolida il rapporto coi propri fan”. In realtà per chi ha un po’ di memoria storica no, non è normale. Per chi ha un po’ di memoria storica, e riesce a teletrasportarsi stile Micheal J. Fox qualche decennio più addietro, è piuttosto surreale, parecchio, quasi quanto gli assoli alla Hendrix su “Great Balls Of Fire”.
Qualche anno fa, mantenere la proprietà sulla propria musica era tutto. Tutto. Il rapporto coi fan lo consolidavi col filtro e l’aiuto dell’industria dei media, il tentativo di farti conoscere pure. Da un lato questo accadeva perché la musica costava di più produrla (studi di registrazione, strumenti… oggi con un mille euro te la cavi a fare un lavoro decente e professionale, vent’anni fa ti servivano non meno di cinquanta milioni di lire) ma ti costava di più anche farla “esistere” concretamente (se volevi regalare qualcosa di tuo, dovevi anche sobbarcarti la spesa del supporto, vinile o musicassetta o cd che fosse). E gli artisti, con rare eccezioni, sono squattrinati; così come quando non sono più squattrinati diventano tirchi – sempre con rare eccezioni.
Queste righe non stanno qua per rimpiangere i bei tempi andati, quando “la musica aveva un valore”, “c’era rispetto per l’originalità” e “i treni arrivavano in orario”, eccetera eccetera. Ma proprio per un cazzo. Ci piace molto – ed è paradossale che siamo noi a dirlo, noi che facciamo parte dei media – che oggi l’artista possa avere un rapporto diretto coi fan e, se gli gira, con grande semplicità e senza dover spendere nulla possa fare dei regali per ringraziare, o ingraziarsi favori, e senza dover per forza passare dal sistema appunto dei media. Ci piace molto, sì, anche perché questo significa che si è sempre più padroni delle proprie creazioni, non c’è tutta una serie di passaggi che serviva a pagare la cocaina, gli hotel di lusso e le ville al mare di discografici senza scrupoli e senza meriti, come per troppo tempo è stato. Pure noialtri dei media, almeno noi di Soundwall ma di sicuro molti altri, siamo più contenti di poter raccontare un mondo così, invece che dover sottostare agli umori di un label manager impizzato o ufficio stampa isterico. E’ una conquista che chi fa musica, oggi molto più di prima, possa decidere cosa farne e come distribuirla.
Però ecco: stiamo attenti a non farci prendere la mano. Consapevolezza, si diceva nella prima riga. Già. Dobbiamo essere tutti consci che ogni volta che regaliamo qualcosa, corriamo il rischio di rafforzare l’idea – che oggi è il vero nemico, a parere di chi scrive – che la musica possa o addirittura debba essere gratis. Nessuno si sognerebbe di pretendere delle scarpe a gratis, o una giacca, o eccetera eccetera. Nessuno pretenderebbe di avere uno smartphone a gratis (al massimo, sai che devi legarti alla tal compagnia per almeno un paio d’anni, in cambio della gratuità). E gli esempi simili potrebbero continuare quasi all’infinito. Oggi però misteriosamente spendere soldi per avere il possesso di un prodotto artistico audio è visto sempre più come una roba da sfigati, da sorpassati, da eccentrici o da dj di alto livello. Quando sganciare cento euri per una Nike o un’Adidas e trecento euri almeno per uno smartphone sarà considerata una roba da sfigati, da sorpassati da picchiatelli o da calzolai d’alto livello, chiamateci. Non escludiamo che succeda; ma per ora non succede. Proprio no.
Certo, idealmente è bello assai accodarsi all’anda – un po’ populista – del “fotti le multinazionali, regala gratis la tua musica, la cultura deve essere di tutti, stop allo sfruttamento delle corporation”. E’ tuttavia nella grande maggioranza dei casi una scelta molto ipocrita, soprattutto dal punto di vista dell’utente finale, perché diventa solo un paravento ideologico dietro al quale arraffare le cose senza spendere nulla (perché poi se l’artista ti chiede un contributo “libero”, si sa come va a finire: sennò perchè i Radiohead non hanno più ripetuto l’esperimento di “In Rainbows”?). Ma anche l’artista, in questo modo, sfugge al giudizio del mercato.
La musica ha un valore. Se l’avete immaginata, pensata, creata, realizzata con cura, la cosa vi ha portato via tempo ed energie. Parecchie. Dandola via troppo facilmente, per la più banale delle leggi economico-antropologiche, essa si deprezza. Sì, magari all’inizio farla circolare gratis può servire a farvi conoscere, a farvi mettere sulla mappa; o se siete già famosi diventa una bella occasione per dimostrare la vostra generosità e gratitudine senza doverci rimettere dei soldi; ma questa pratica del regalo va maneggiata con molta cura. Va centellinata. Perché altrimenti il rischio è quello di coltivare una generazione di fan e di semplici ascoltatori che via via dà pochissimo valore a quello che fate, per quanto impegno, talento e creatività voi ci possiate mettere. Un rischio che si può presentare anche abusando delle anteprime in stream integrali.
Per ora la situazione sembra ancora sotto controllo: ma, visto che ne abbiamo viste parecchie, negli anni, sempre meglio mettere le mani avanti. Parliamo soprattutto ai producer esordienti: può ingolosire questa cosa che, mettendo una cosa in free download, si arrivi alle orecchie di 10.000 persone invece che 150. Ma se tutti i producer esordienti iniziano a fare così – perché voi dovreste essere gli unici a farlo? – le 10.000 persone torneranno ad essere 150, perché le 10.000 persone in questione saranno messe di fronte non più di fronte a un brano in download, il vostro, ma di fronte ad almeno mille, quelli dei vostri colleghi. La vostra potenziale audience si atomizzerà, voi tornerete ad avere solo 150 ascoltatori. Stavolta però senza ricavarci una lira, e quindi senza la possibilità di potervi ricavare il tempo e la tranquillità per dedicarvi in futuro alla vostra musica. E convincere la gente a pagare qualcosa che prima davate a gratis sarà, beh, sarà un filino difficile.
Non esiste una ricetta sicura. Non esiste una ricetta perfetta. La maggior diffusione virtuale della musica a gratis ha creato tanti problemi ma ne ha risolti altrettanti, ha abolito molte opportunità ma ne ha create altrettante di nuove (se non di più). L’unica, è essere sempre consapevoli sia dei rischi che delle opportunità che nascono da qualsiasi mossa voi stiate facendo. Qualsiasi. E il compito dei media, più che fare da megafono alle vostre uscite discografiche e/o ai vostri narcisismi, sarebbe anche e soprattutto quello di vigilare e fare molto spesso il punto della situazione complessiva. Se proprio ci chiedete un consiglio, una cosa che ci pare assennata sarebbe quella di dare gratis solo degli scarti di lavorazione (per gli artisti già affermati) o dei semplici assaggi (per gli emergenti). E di farlo solo quando c’è un motivo veramente significativo per agire in tal senso: “farsi conoscere” è l’equivalente dell’accettare un lavoro gratis perché così “hai visibilità”. Non è detto valga la pena, e comunque è un tema caldo (molto volentieri linkiamo questo, per chi avesse seguito tutta la diatriba sui “coglioni” che lavorano nel campo della creatività: categoria di cui anche musicisti, dj e promoter fanno sotto molti punti di vista parte).