FrontEra è un progetto, non è un duo, loro ci tengono a precisarlo. Loro, i due personaggi che reggono il timone; Baffo Banfi, la leggenda italiana – e non solo – del prog e della musica cosmica, insieme a Matteo Cantaluppi, produttore musicale e tecnico del suono, anche lui molto conosciuto in un certo tipo di ambiente, nato e cresciuto negli studi di registrazione milanesi degli anni novanta e che si è sempre districato tra cose più commerciali e altre più indipendenti, oggi uno dei soci di uno dei più importanti studi di Milano, il Mono.
Come vi siete conosciuti voi due?
Baffo: Beh, direi che è stato amore a prima vista. Matteo è stata la persona giusta al momento giusto. Diciamo che tutto è partito dal fatto che lui e i suoi soci del Mono Studio cercavano una nuova sede e io, nello stesso momento, stavo offrendo dei miei spazi a terzi. Avevo smantellato il mio studio, perché non avevo più voglia di lavorare nel campo dell’audio, ma fortunatamente sono arrivati loro.
Ho avuto la soddisfazione da “non più giovanissimo” di avere a che fare con dei ragazzi molto bravi che mi hanno spronato e consigliato a fare di nuovo qualcosa, poi mi è capitato di rimettere mano alle tastiere – un’esperienza che è durata pochissimo, in realtà, ma sufficiente per farmi tornare la voglia di suonare. Da lì, l’incontro con Matteo, che ha totalmente rivoluzionato il mio modo e le mie modalità tecniche poco evolute, perché è una mente fresca e soprattutto preparata.
Così abbiamo deciso di lavorare insieme.
Cosa vuol dire che hai modalità tecniche poco evolute?
Baffo: Che non sono maturato dal punto di vista della conoscenza delle nuove tecnologie di registrazione, nonché della strumentazione utilizzata per fare quella che io chiamo la “nuova musica”. Quella potenzialità enorme che si ha attraverso i computer. Matteo lo sa benissimo – e mi tira le orecchie – e me lo dice: “Tu sei vecchio.” (ride)
Matteo: No, è semplicemente che dal 1981 al 2013 è cambiata parecchio la tecnologia. (ride)
Baffo: Comunque, ciò che mi ha dato più soddisfazione è stato il fatto che, nonostante i suoi 35 anni, Matteo fosse emotivamente sollecitato da quello che è il mio aspetto compositivo. Allora mi ha sempre detto: “Tu continua a fare pezzi, che sei bravissimo, poi li mettiamo a posto insieme.” Con quali macchinari e con quali modalità è roba sua.
Matteo, ti rigiro un po’ la domanda: che cosa ha significato, invece per te, conoscere Baffo Banfi?
Matteo: Considera che io sono un appassionato di quel tipo di elettronica, legata a quegli anni, per cui per me conoscerlo, innanzitutto, è stato avere, finalmente, un contatto e una testimonianza di una persona che ha vissuto realmente quella cosa. Un conto è leggere enciclopedie e libri, vedere documentari, un altro è lavorare e stare vicino ad una persona come lui. Per me è stato grandioso, quel periodo musicale mi appassiona particolarmente, quindi il nostro incontro è stato, in qualche modo fortuito ma magico. Oltretutto è coinciso con la mia esigenza – insieme a miei due colleghi – di trovare uno spazio. Ho beccato due piccioni con una fava, in definitiva; trovare uno studio bellissimo, il Mono, e trovarci poi dentro un musicista come Baffo Banfi, per me è stata una cosa meravigliosa.
Mi lego, un istante, a ciò che ha detto lui riguardo i giovani: secondo me, il problema delle nuove generazioni è l’assenza di emotività o un livello di questa troppo controllato, cosa che invece non hanno persone che hanno vissuto un periodo diverso. La pre caduta del Muro di Berlino, per esempio. Quelli sono personaggi che si sono lanciati di più. Quindi, con i FrontEra non abbiamo fatto altro che unire la mia capacità di mettere ordine alle cose, con la sua emotività. E’ bello quando c’è una forte comunicazione tra due generazioni così distanti.
Baffo: Posso farti un esempio, riferito a quello che sta dicendo Matteo. Allora, stiamo lavorando al live, e io faccio i miei “compitini”, perché lui vive in Germania e io a Milano. Quindi, ad un certo punto ci vediamo e io gli faccio sentire le cose che ho fatto, gli dico: “Senti che figata pazzesca.” e lui ascolta e poi mi dice: “Ma no, qui hai usato un loop di Burial e si sente perfettamente. Non va bene.” Ecco, le nuove generazioni, i colti della musica, danno, giustamente, tantissima attenzione a queste cose, mentre io, la mia generazione di musicisti, ce ne sbattiamo. Mi piace? Allora ci lavoro, chissenefrega di chi l’ha fatto.
Matteo: Il problema dell’esempio che hai citato è che usare un loop riconoscibile estrapolato da un disco di un producer come Burial, ti da la forza del fare una cosa molto bella – perché è proprio il loop che hai estrapolato ad essere bello – però ti giochi tutta una fetta di pubblico esperto che capisce immediatamente che hai fregato. Per cui, ripeto, il bello è proprio questo: unire l’entusiasmo di Baffo con il bilanciamento di una generazione più giovane. La forza della sua generazione è che non hanno paranoie, si buttano. Mi è capitato di lavorare con altri musicisti di quegli anni, anche musicisti pop, da Eugenio Finardi ad Alberto Fortis, è tutta gente meno condizionata. Lo stai vedendo da te, io sono qui duro come il legno e lui è lì che se la ride.
Perché secondo voi c’è questa differenza fra le vecchie e le nuove generazioni?
Baffo: E’ molto semplice dal mio punto di vista. Noi che abbiamo vissuto quel periodo, non avevamo gli smartphone, non avevamo i computer, non c’era la tecnologia ultra veloce di oggi, e quindi chi voleva suonare e aveva gli spazi per farlo doveva ingegnarsi per farlo, dovevamo pitchare i 45 giri per riuscire a sentire bene il giro di basso, dovevamo andare da quelli più sgamati per farci spiegare determinati tipi di suono. Non era concepibile stare tutto il giorno attaccato ad un telefono o ad un qualcosa che schiacciando un bottone ti dava una risposta. Era tutto una conquista. Voi avete tutto a portata di mano, molto facilmente. Noi abbiamo vissuto un periodo unico ed irripetibile, perché dovevamo vivercelo veramente.
Matteo: La cosa che amo del lavorare con Baffo è che quando suona tende a creare una storia, a lavorare sulla melodia e sulle note, mentre quando ho a che fare con ragazzi più giovani, noto che c’è questo gusto e questa ricerca – che oltretutto mi piace – nella ricerca dell’ambiente, del rumore, del drone. Talvolta c’è confusione e, qualche volta è bella, ma non sempre. Non è così scontato trovare la storia e i temi oggi, nella musica elettronica. Quello che fa Baffo è dare profondità alla traccia.
Perché dici che a volte la confusione è bella?
Matteo: Pensa a Flying Lotus, mi vengono in mente, quando penso a lui, alcuni dei miei studenti della Scuola Civica. Ti parlano e guardano il cellulare nello stesso momento, poi lavorano sulle tracce, sono confusionari. E’ una cosa che, se convogliata bene come fa Flying Lotus, diventa una meraviglia. Però, per dire, se hai l’età del Baffo, dopo dieci minuti di ascolto ti viene una crisi epilettica. (ride) Quella cosa fotografa e rappresenta una parte di generazione di oggi. In altri casi può risultare negativa, perché diventa una mancanza di produttività, di concretezza. Alcuni miei studenti lavorano a delle cose che sono molto belle, ma non riescono a concretizzarle in un’opera di venti/quaranta minuti che abbia un senso. Ricordiamoci sempre che negli anni settanta in Italia, i musicisti elettronici erano una manciata, mi vengono in mente, oltre al Baffo, Battiato, Cacciapaglia e un paio ancora. Adesso in Italia quanti musicisti di elettronica ci sono? Migliaia. Non è facile.
Bisogna anche chiedersi quanti di questi migliaia possono essere definiti realmente dei “musicisti” di musica elettronica. Forse ce ne sono centinaia che sanno programmare un computer, ma non per questo sono musicisti.
Matteo: Beh, non ti credere che il Baffo sappia programmare un computer. Vero, Baffo?
Baffo: Onestamente suono quello che mi piace suonare.
Matteo: Che formazione musicale hai, Baffo?
Baffo: Assolutamente autodidatta. Devo dire, però, che sto ricominciando a studiare. l’unico rammarico che ho a distanza di tanti anni, è quello di non aver studiato approfonditamente. Io vado controcorrente, sto imparando adesso.
Beh, direi di cominciare a parlare di FrontEra, a questo punto?
Baffo: FrontEra è un progetto, non è una formazione, non è un duo. E’ Il Progetto FrontEra, che poi diventerà nel futuro Frontera 2, Frontera 3. Giusto, Matteo?
Matteo: Ovvio, come Rocky: Rocky 1, Rocky 2. (ride)
Ok, allora parliamo del progetto FrontEra.
Baffo: Allora, intanto perché FrontEra? Frontera è stata un’idea di Matteo. Quando abbiamo pensato al nome che ci poteva rappresentare, lui – andando contro alle mie proposte molto meno impegnate – ha trovato questo concetto che definisce l’era di un nuovo fronte in contrapposizione, ma allo stesso tempo insieme, ad un’era di vecchio fronte. Che si traduce per me in un nuovo inizio, per Matteo in una continuità, per la musica l’abbattimento di una barriera. Per me è una nuova frontiera, per l’appunto, ed è anche una modalità di far musica con uno spirito prettamente italiano, mediterraneo e retrò, nonostante abbia anche dei suoni moderni.
Matteo: Riguardo al nome un’altra cosa interessante è che è italiano, ma in realtà non lo è, però può essere letto ed inteso anche da uno spagnolo, per esempio. Non è nemmeno inglese, ma può essere letto da un inglese. Volevo comunque, in qualche modo, dare una continuità alla cultura italiana, quindi nasce anche con quest’intento. Io l’ho visto come dare una proposta alternativa ad una cultura musicale italiana bombardata dall’esterofilia. Ci sono, dentro i nostri pezzi, degli assoli di batteria alla Tullio De Piscopo, sonorità morriconiane, ma anche basi di cassa in quattro quarti.
A livello tecnico, cosa ha fatto Baffo Banfi e cosa Matteo Cantaluppi?
Matteo: Baffo scrive le melodie e le idee di partenza ed io organizzo. Lui parte iniziando a comporre con Cubase a casa sua, usando principalmente strumenti virtuali. Poi mi passa tutto ed io lo riorganizzo, capendo come sostituire determinati suoni, pur mantenendo la melodia, oppure quando utilizzare strumenti analogici e virtuali. Posso dirti che abbiamo composto il disco utilizzando in parti uguali software, strumenti analogici e strumenti virtuali, quindi robe che partono dal Moog Voyager, passando da sistemi modulari, Prophet, strumenti della Native Instrument. Baffo utilizza tantissimo roba della Spectrasonics per fare tappeti ambient e qualche batteria elettronica storica, tipo la 909 o cose nuove della Korg. E’ un mischione di tecnologia vecchia e tecnologia nuova.
Baffo: Io ho avuto la fortuna di lavorare per tre anni in sala d’incisione con Mina, quello mi ha dato la possibilità di registrare gli archi dal vivo e questa cosa mi è rimasta. Io metterei archi ovunque, però Matteo, giustamente, mi ridimensiona.
Matteo: Anch’io li metterei ovunque, ma non abbiamo i soldi per farlo. (ride)
Baffo: Era per dire che questo mix tra “strumenti naturali” e i suoni elettronici, anche virtuali, è strepitoso. Chiaramente non ti sto dicendo niente di nuovo.
Il mio sogno sarebbe quello di mettere dietro al progetto FrontEra un’orchestra vera. Sarebbe un sogno.
Matteo: Insomma, secondo me è un progetto inusuale, sicuramente non è nuovo, però se a me dicessero “lo sai che ci sono due musicisti, uno degli anni settanta e un giovane artista che hanno messo in piedi un progetto con un quartetto d’archi, con fiati e insieme l’elettronica, che vanno in scena nei piccoli teatri?” Beh, io credo che ci andrei. M’incuriosirebbe. Il nostro goal è cercare di essere trasversali.
Ma infatti, come state organizzando il live?
Matteo: C’è stato un grande lavoro di esportazione di ciò che è stato registrato. Un lavoro non facile. Lo abbiamo messo in Ableton Live per poterlo risuonare in tutta libertà. Stiamo capendo, come anticipato in qualche modo da Baffo, se può esserci la possibilità concreta di avere membri in aggiunta al progetto, che possano suonare dal vivo strumenti acustici come le percussioni o i fiati.
Una mezza band.
Matteo: Sì, qualcosa come tre persone, computer e tastiere. Un po’ suonato e un po’ remixato dal vivo. Baffo, ovviamente suonerà synth e tastiere.
Baffo, tu ad un certo punto hai smesso di suonare per tanti anni. Ora sei tornato fuori. Perché?
Baffo: Ad un certo punto ho capito che quello non era più il mio mondo. Perché non ci capivo una mazza di ciò che stava venendo fuori e sembrava non esistere più niente oltre al mettere insieme dei suoni già preconfezionati. Non ne volevo più di quella roba, non era mia. Poi, chiaramente, nella vita ti capitano cose inaspettate, ed io sono entrato in un altro mondo, quello della produzione video, che era altrettanto affascinante. Io ho vissuto il passaggio dall’analogico al digitale e quindi quello che era il mondo dei tournisti e dei musicisti che giravano nelle sale è finito e si suonava solo campionando. Quel tipo di musica stava morendo ed io avevo uno studio che per farlo lavorare dovevi fare pubblicità, per forza, e la pubblicità è una palla mostruosa, oltretutto seguita da degli idioti che sono in quel posto solo perché devono giustificare la loro presenza di creativi, anche se non lo sono mai stati. Ho detto basta.
Io ho molta invidia di gente come Matteo, che capisce cosa deve fare con i suoni. Mi hanno definitivo un innovatore, ma in realtà io ho sempre suonato per passione, senza andare oltre e cercare di capire. Io ho suonato perché era bello suonare, tutto qui, usavo un organetto Gem e un Mini Moog e con quella roba tiravo fuori delle atmosfere.
Un’altra cosa meravigliosa della vita, sono i figli ed anche quello ha influito parecchio.
Matteo: Tra l’altro la cosa eccezionale, pensandoci bene, è che Baffo ha smesso di suonare in un periodo che storicamente è stato un trentennio di transizione, un periodo pesantemente limitante, che poi fortunatamente si sta chiudendo con Ableton Live e Protools, ovvero programmi che funzionano finalmente bene. Il supporto fisico del CD è stato una tragedia per l’industria discografica. E’ stata la sua fine. Baffo è stato congelato in un periodo di merda per ritornare in un periodo in cui si possono usare di nuovo le macchine analogiche, insieme ai software che sono, paradossalmente, mille volte più creativi. I campionatori dell’Akai, per farti un esempio, erano una roba terribile in realtà. Baffo è riapparso nel momento in cui la musica elettronica è ritornata ad avere un senso.
Forse doveva andare così.
Baffo: Sicuramente. Io voglio capire, voglio avere maggiori feedback possibile, da chiunque. E poi il live, voglio salire sul palco e comprendere se riesco a tirare in mezzo la gente, solo a quel punto saprò di avere vinto.
Ci tieni molto a questa cosa del live.
Sì, moltissimo. Non ti nascondo che sono anche un po’ spaventato. E’ l’unico confronto definitivo. Sei tu e il pubblico davanti. La riprova finale ce l’hai solo in quel momento.
Baffo, che tempi erano per la musica quelli in cui hai iniziato tu?
Baffo: La mia è un’esperienza di un ragazzo di provincia, di Lecco. Cittadina vicina a Milano, ma lontanissima allo stesso tempo. Quindi, livello di contaminazione: zero. Forse questa è stata la chiave vincente. Eravamo gente intaccata, quello che veniva fuori eri tu, essenzialmente. Io ho avuto la fortuna di vivere in un periodo irripetibile storicamente, culturalmente e generazionale e dal punto di vista musicale noi eravamo subito dopo quel momento musicale che ha cambiato la storia della musica, i Beatles per citartene uno. Chi voleva fare musica doveva conquistarselo, ma allo stesso tempo c’era il posto dove poter suonare, c’erano le discoteche vere, per dire. Dovevi fare la gavetta nei locali, ma erano tempi dove la gente veniva a ballare, ma non solo, a volte si fermava anche ad ascoltarti. Ti dovevi fare un culo incredibile, ma era una scuola strepitosa.
Quello che abbiamo vissuto noi, le nuove generazioni se lo sognano: andare a registrare in una sala d’incisione per noi era la realizzazione di un desiderio. Io ho suonato davanti a trentamila persone, sono stati anni strepitosi.
Chiaramente anche allora la gente ti dava tre soldi, però era una cosa diversa, era viva. Oggi la maggior parte della gente non è abituata ad ascoltare. Vanno a ballare per bere, poi se c’è anche un idiota che suona meglio. E’ così, tendenzialmente.
Invece Matteo da dove arriva?
Matteo: Anch’io vengo dalla provincia di Alessandria, ma il contesto storico è completamente diverso. Io sono cresciuto durante il periodo di transizione di cui parlavo prima. Un periodo che alcuni miei coetanei guardano con nostalgia, gli anni novanta, ma che io trovo, a posteriori, un periodo terribile. Io me la sto vivendo meglio ora, ti giuro. Avrei preferito nascere adesso oppure nascere prima. Però non rimpiango nulla. Qualcosa l’ho preso dagli anni novanta, nonostante non ci fosse praticamente nulla, però c’era il bombardamento mediatico. Erano gli anni di MTV, la televisione pompava certa musica, stava arrivando internet. Io ho studiato pianoforte, anche se non mi sono laureato al conservatorio, e appena ho capito che mi interessava il suono, ho anche capito che avrei dovuto spostarmi in una città più grande. Allora sono andato a Milano a studiare in una scuola di tecnici del suono, che all’epoca era una cosa abbastanza innovativa, la SAE. Aveva aperto da un anno. Poi ho avuto la fortuna di lavorare anche negli studi di registrazione milanesi, in cui ho conosciuto tante persone interessanti, però, ripeto, devo dire la verità, a posteriori era abbastanza tragica l’atmosfera dell’epoca. Molti hanno un ricordo di una Milano della fine anni novanta, primi duemila, molto poetico, che io non ho. Sono sincero. Lavorando negli studi milanesi – senza fare nomi – ho capito soprattutto cosa non dovevo fare per rimanere vivo e per lavorare bene, ricreando un modus operandi che si è perso proprio a causa di quegli anni. Poi c’è da dire che io vivevo in un mondo tutto mio, ascoltavo le musicassette di mia sorella dei Pink Floyd e roba molto vecchia. Diciamo che negli anni novanta era come se vivessi nel 68. Baffo, praticamente vivevamo nello stesso periodo, però con trentanni di gap. Io mi facevo, letteralmente, di Can, Tangerine Dream, Genesis e tutto il periodo progressive.
Tu sei molto pop, in realtà.
Matteo: Io non potrei vivere in una realtà estremamente alternativa o “underground”, non ce la farei. Non è una questione economica, ho due facce: da utente mi ascolto anche roba molto sotterranea, però mi ascolto anche i Duran Duran. Questa cosa mi da un equilibrio. Infatti vivo tra Berlino e Milano, che sono due città estremamente diverse. Ho un occhio per il business, quindi riesco a non essere troppo ingenuo e naif, però ho gusto anche per cose alternative. Questo mi permette di non essere un personaggio sputtanato anche quando faccio cose più commerciali. Riesco a stare in una terra di mezzo pur mantenendo la mia integrità.
Baffo, invece tu, la prima esplosione. Gli anni di Klaus Schulze, in cui hai spaccato, come direbbero quelli della mia generazione.
Baffo: Beh, ho spaccato nel senso che, per tutta una serie di ragioni, mi sono trovato coinvolto in qualcosa di importante.
Io suonavo in un gruppo prog, ma mi piaceva fare ricerca, volevo sperimentare. Registravo tutto in casa, “Galaxy my Dear” è un disco homemade, l’ho registrato con un vecchio valvolare. Ad un certo è successo che doveva produrci Schulze e quindi sono andato a casa sua, a Berlino. Lui mi ha proposto un contratto discografico e quindi gli altri due dischi li abbiamo fatti insieme. Ho rischiato di diventare crucco anch’io, insomma, come Matteo.
Tutto torna, dunque.
Baffo: Direi di sì. Probabilmente avevo bisogno di uno come Matteo, di un treno che mi dicesse cosa fare e, soprattutto, mi aiutasse a farlo.
Probabilmente è stato giusto così.