Ci siamo divertiti parecchio a guardare “Fyre”, il documentario prodotto da Netflix (e lì ovviamente ve lo potete vedere) sul “Greatest party that never happened”. In realtà già ci eravamo divertiti un mondo a scriverne, all’epoca, dando un po’ di brio alla nostra estate di due anni fa. Siamo delle brutte persone se diciamo che prima di tutto ci divertiva l’idea che chi ha in testa di associare musica e lusso, festival e migliaia su migliaia di dollari spesi, se la fosse presa in quel posto? Per carità, ognuno è libero di dilapidare i suoi soldi – se li ha – come meglio crede. Ma restiamo dell’idea, molto vecchia scuola, per cui scialacquare a cazzo fa male a chi spende e, in realtà, anche a chi prende (…perché inizia a piegare ogni sua azione in direzione della massimizzazione dei profitti: quando ti arrivano soldi tanti e “facili” ti ingolosisci, è umano).
Zero solidarietà quindi per i turlupinati e ancora meno di zero, ovviamente, per Billy McFarland, il deus ex machina di questa atroce e criminale idiozia. Tra l’altro, esiste anche un altro documentario sulla faccenda, uscito per la piattaforma Hulu: dopo aver visto il documentario netflixiano vi verrà voglia di recuperare pure quella, l’argomento infatti è spassoso; ma tenete conto che in questo secondo documentario McFarland appare sì, ma si è fatto pagare per apparire. L’operazione andrebbe boicottata anche solo per questo.
Troppo duri? Macché. Una delle cose che meglio mostra il docu-film è proprio far vedere cosa ci può stare dietro al fallimento di una impresa scriteriata: pazienza appunto per i rampolli da spennare, loro se la caveranno coi soldi di papà, e pazienza per quello psicolabile ballista di McFarland, ma un sacco di gente ha lavorato per settimane e mesi, un sacco di gente non ha visto nemmeno mezzo soldo, anzi, molti c’hanno dolorosamente rimesso di tasca loro. C’è anche chi, senza averne nessuna colpa, si è rovinato. “Fyre – The greatest party that never happened” lo mostra benissimo. Così come mostra anche come è possibile che alcuni professionisti di valore si siano fatti via via abbindolare, diventando (in)consapevoli complici di questa gigantesca truffa. Ah: momento-macchietta, in chiave tragicomica, per Ja Rule, il garante “mediatico-artistico” dell’operazione. A dimostrazione che non sempre un rapper che entra in affari ha l’acume di in Dr. Dre. Anzi, spesso ha l’acume di quella cosa che certi arbitri, secondo Buffon, hanno al posto del cuore.
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Però ecco, il punto è un altro. Il documentario guardatevelo assolutamente, insomma, però quello che ci interessa qui approfondire è: ma in Italia, potrebbe mai succedere una cosa tipo Fyre Fetival? Un simile disastro?
La risposta è: quasi sicuramente no. Perché da noi non c’è, come in America, la fiducia quasi illimitata nell’imprenditore, la facilità con cui si ottiene credito non tanto nell’opinione pubblica quanto in banca. Chiaro, anche noi abbiamo avuto i Calisto Tanzi e i Matteo Cambi, ma va detto che tra chi tiene i cordoni della borsa in Italia non c’è, di solito, grande simpatia verso chi investe in gusti musicali non iper-classici. Meglio così: perché le persone che investono a vuoto, spesso e volentieri “drogano” il mercato. Pur di perseguire il loro sogno/disegno, offrono il doppio, triplo per accaparrarsi ciò che vogliono. Col risultato che tutti i prezzi si livellano verso l’alto, portando asfissia anche per chi ha sempre operato con avvedutezza. Naturalmente il discorso non è così semplice: investire, come in qualsiasi attività imprenditoriale, è obbligatorio. E investire significa, facciamola terra-terra, “all’inizio ci perdo dei soldi”. Il confine tra “investimento” e “buttare via soldi facendo il ganassa e drogando il mercato” è piuttosto sottile e, soprattutto, mobile. Cambia di anno in anno.
Ora. Lavorando nella musica da un sacco tempo, una delle bestie più pittoresche del nostro meraviglioso zoo sono quelli che “Ho avuto un’idea geniale, faccio un festival!”.
Uno dei più classici errori dei dilettanti, anche quelli animati dalle migliori intenzioni e dai migliori gusti musicali, è di costruire il festival partendo dalla line up ideale che si ha in testa, facendo i conti iniziali su di essa e solo su di essa
Il punto è: quando i grandi operatori nazionali del settore (agenzie, promoter) decidono di lanciarsi nell’avventura-festival, sappiate che lo fanno per lo più perché sono implicitamente costretti a farlo dalle grandi agenzie americane e anglosassoni, quelle che muovono le fila di tutti i mercati globali. Per tutta una serie di motivi cioè “devi” avere un festival, “devi” dimostrare di avere un chiaro potere d’intervento nel contesto-festival (…quindi la cosa più facile è che ne faccia uno tu, per tagliare la testa al toro. La cosa sarà molto apprezzata). Le grandi agenzie ritengono che sì, i soldi per i propri artisti li fanno con le date normali, venendoli lì durante la stagione, ma coi festival in realtà fai sia i soldi, che ti dai del prestigio da poter monetizzare successivamente: i più grandi perché possono lottarsi lo spot di headliner che poi diventa un moltiplicatore del tuo cachet, i piccoli e medi perché possono far vedere di aver suonato in contesti assai potenti e prestigiosi, e anche questo li aiuta ad emergere dal gruppone. Doppio vantaggio per tutti, quindi. “Festival” è diventata così una ineludibile parola d’ordine, nel business dell’imprenditoria musicale. Sappiatelo.
Eppure il festival, per chi lo fa, e scusate il francese, è quasi sempre un’inculata – almeno all’inizio.
Sorpresi? Mediamente, un festival di buon successo e forte profilo fa almeno le prime tre edizioni in perdita. Se non avete compreso bene, ripetiamo la frase: un festival di buon successo e forte profilo fa almeno le prime tre edizioni in perdita. Todo claro? Dimensions, che fece una prima edizione da sogno che lo mise prepotentemente sulla mappa mondiale dei migliori festival estivi di musica elettronica sulla terra, in questa sua prima edizione lasciò sul terreno circa 300.000 euro, da fonti ufficiose (ma a nostro modo di vedere realistiche). Ma questa regola vale spessissimo anche per eventi su scala più piccola, non solo per i colossi. Nel momento in cui pensate quindi di fare un festival, dovete insomma avere un piano a media-lunga scadenza e le spalle finanziariamente coperte almeno per due, tre edizioni. Se nella vostra testa si agita la luccicante scrittina “Faccio questa edizione, coi guadagni poi faccio la prossima che sarà ancora più bella” state già partendo molto, molto male; e di sicuro se fate un festival e la seconda edizione è più ridotta della prima, perché all’esordio vi siete scottati quando pensavate invece di guadagnarci, lanciate un segnale chiarissimo ed inequivocabile – ed è molto probabile che alla terza edizione manco ci arrivate. Contando così nel vostro portafogli solo perdite. Bello, vero?
Altra cosa: uno dei più classici errori dei dilettanti, anche quelli animati dalle migliori intenzioni e dai migliori gusti musicali, è di costruire il festival partendo dalla line up ideale che si ha in testa, facendo i conti iniziali su di essa e solo su di essa.
In questo caso spesso si ignora che un artista che partecipa ad un festival, se headliner, chiede molto di più di quello che chiedere per una serata normale; già questo vi fa sballare i conti. Altra cosa: chi costruisce un festival dalla line up, vuol dire che si fa guidare prima di tutto dalla propria passione musicale. Ok. Bello, giusto. Ma occhio che un eccesso di passione non vi porti purtroppo a sopravvalutare il richiamo dell’artista X o Y. Aggiungiamo: se costruite un festival partendo dalla line up, dovete tenere conto che se volete avere determinati artisti, quelli e proprio quelli, potreste essere costretti a partecipare ad aste, e/o a vedere raddoppiati o triplicati i costi di produzione (voli, hotel, trasporto materiale tecnico, eccetera), visto che un conto è prendere un artista che quella data non c’ha nulla da fare, e “aspetta a voi”, un altro è imporgli di fare triangolazioni geografiche strane (Oslo / Milano / Amburgo: per venire a suonare a Milano, magari vi chiederà il doppio, perché sennò facilmente si prendeva un comodo day off e si faceva solo Oslo / Amburgo). Insomma, bisogna essere molto flessibili. O bisogna saper individuare guest poco impegnativi, con poche date, che il “vostro” pubblico è però pronto a seguire con attenzione e in buon numero. E’ possibile, ma non è semplice. Anche perché avere un pubblico “vostro” significa aver seminato tanto per anni, non bastano due stagioni andate bene (e men che meno bastano i tot mila euro che qualche socio figlio di papà spuntato dal semi-nulla dice di essere disposto ad investire).
C’è uno step preliminare. Che qua in Italia spesso non si capisce. O viene derubricato a “Eh, la mafia delle agenzie”
Ma questo è già uno step successivo della questione. C’è uno step preliminare. Che qua in Italia spesso non si capisce. O viene derubricato a “Eh, la mafia delle agenzie”. Ovvero: tu non puoi pensare di fare subito un festival della madonna, con nomi di primo livello, se prima non hai fatto cose minori (o addirittura non hai fatto niente: sì, c’è anche questo, tra i piccoli McFarlandini di provincia di casa nostra). No. Non puoi. Questo non perché le agenzie siano brutte e cattive e siano gestite da tanti Don Vito Corleone para-massonici, ma perché fanno giustamente il loro lavoro: un artista importante, in grado cioè di richiamare pubblico, implica sempre e comunque un livello di professionalità a livello di produzione corrispondente. Livello che si raggiunge solo lavorando sul campo, passo dopo passo. Io agenzia mando l’artista “grosso”, da te, solo se ho la ragionevole certezza che sei ottimo a livello di produzione: allestimento della venue, gestione degli impianti audio, livello di sicurezza, qualità dell’accoglienza per l’artista e tutta la crew al seguito. Una certezza che, stando seduto su una sedia a Londra, Berlino o New York, posso avere solo se ho notato che comunque da organizzatore hai un CV fornito, costante, di spessore, costruito passo dopo passo, testato a fondo. Levatevi dalla testa che per fare i nomi grossi dell’elettronica oggi basta sfoderare una smazzettata immonda di soldi e la boule con lo champagne, tre bocce di Grey Goose e il gin raro della distilleria di vostro zio: erano mezzucci buoni negli anni ’90. Oggi si guarda prima di tutto non ai free drink in console, ma a una serie di standard tecnici e lavorativi (ad esempio, anche la professionalità nel gestire amministrativamente i contratti) che con la boule in questione non c’entrano un cazzo. E, guardate, si sta molto meglio così. A noi pare un passo in avanti.
Prima insomma di fare Kalkbrenner, che vi farà guadagnare un sacco, dovete esservi fatti almeno una decina d’anni di eventi minori, di dj di medio-piccolo cabotaggio. Esattamente come nel pop-rock prima di fare Calcutta (che oggi riempie i palasport) dovete avere una esperienza corrispondente in concerti pop-rock più piccoli. Il fatto che Calcutta fino a tre/cinque anni fa suonasse anche nei bar, beh, non significa che voi signori baristi oggi possiate improvvisarvi promoter e pensare di fare un suo concerto nel vostro locale, così, dal nulla, perché Calcutta vi piace. Qualsiasi cifra offriate, anche la più mostruosa, vi sarà rifiutata. Giustamente. Esiste una gavetta. Va fatta. Non per nonnismo, non perché le agenzie lavorano mafiosamente solo coi soliti noti, ma per verifica funzionale e professionale. McFarland è invece uno che non l’ha voluta fare, la gavetta, perché pensava fosse inutile e bastasse l’”idea”: ehi, volete essere come lui?
Levatevi dalla testa che per fare i nomi grossi dell’elettronica oggi basta sfoderare una smazzettata immonda di soldi e la boule con lo champagne, tre bocce di Grey Goose e il gin raro della distilleria di vostro zio
Altra cosa: gli sponsor. Sono necessari. Con le cifre folli (in qualche caso francamente imbarazzanti ed eccessive) che hanno raggiunto i cachet degli artisti di punta oggi, è impensabile di fare un festival di livello e di pensare di starci dentro contando solo su incassi al botteghino e al bar. Gli sponsor ci vogliono (altra cosa che McFarland evidentemente non aveva capito…), bisogna sapere come agganciarli. Ma una volta presa questa consapevolezza, fateci per favore dire un paio di cose.
La prima è che gli sponsor sono, per definizione e per natura, una grande rottura di scatole se organizzi un festival. Oh sì. Hanno degli obiettivi che sono naturaliter diversi da chi il festival lo organizza: i primi, gli sponsor, lavorano per l’identità/visibilità di un marchio commerciale, i secondi per fare una cosa artisticamente e socialmente bella. I punti d’incontro sono mille, ma dimenticare questa differenziazione originaria è sempre un pessimo errore e la causa di molte incomprensioni dolorose. Se non ve la dimenticate, questa “separazione alla base”, capirete meglio alcune richieste dei brand che a voi organizzatore a prima vista appaiono assurde o sovradimensionate o inutili. Non stiamo dicendo che bisogna dire di “Sì” a tutto, attenzione, è giusto trattare e capire fino a che punto ci si può spingere per trovare un compromesso; ma se il rappresentante del brand Vattelapesca vi dice che il logo va messo storto e illuminato da una luce color merda liquida, ok, forse è perché è un ignorante che non ha gusto artistico, ma è forse è anche perché sopra di lui ha chi gli impone di mettere ovunque il logo storto ed illuminato da una luce virata a tinta letame, perché questa è stata la decisione a livello di guideline aziendale in qualche remoto ufficio con pareti a vetri in qualche metropoli mondiale.
Lo sponsor non sarà mai vostro amico. Perché lo sponsor non è un mecenate, ma un collega di business che, lo ripetiamo, ha obiettivi diversi dai vostri (e vuole ottenerli anche grazie ai voi). Le persone che gestiscono un marchio e lo portano al vostro festival magari invece sì, magari vostri amici veri lo sono, ma dovranno comunque mediare fra gli interessi del marchio che rappresentano, che vanno in una direzione, e la vostra visione, che va invece in un’altra. Venitegli incontro. Non odiateli. Né sottovalutate le loro richieste dicendogli “Sì, sì…” a parole ma poi facendo di testa vostra. Anche perché senza di loro il vostro bellissimo festival sarà quasi sicuramente destinato a diventare un bagno di sangue economico, se avete deciso di puntare un minimo in alto e avere dei nomi “fighi”. Dovete saper trattare con loro.
Occhio: anche noi pensiamo che l’ecosistema migliore è quello in cui un festival si può sostenere con la sola forza delle idee e degli incassi in serata, stop. Per tutta una miriade di ragioni, di cui pareremo in futuro e di cui bisognerebbe parlare più spesso, questo non spesso è possibile. Fate quindi meglio ad attrezzarvi sul lato gestione sponsor, ok? Magari individuando come vostro collaboratore una figura che abbia già esperienza sul campo e che sappia sempre come salvare capra e cavoli, che capisca cioè quando una richiesta si può scartare, quando invece si può trattare e ridurre, e quando invece è meglio esaudirla costi quel che costi.
Ah, a proposito, questo ci porta a un altro punto fon-da-men-ta-le: se pensate di fare un festival accentrando su di voi praticamente tutto, perché voi siete bravi, voi conoscete gli artisti, voi conoscete il territorio, beh, è di nuovo un piccolo McFarland che parla in voi. Al massimo con qualche pagliaccio come Ja Rule al fianco a farvi da motivatore.
(continua sotto; Ja Rule e Billy McFarland belli come il sole, durante la fase di promozione pre-evento del Fyre)
Solo chi non ha mai fatto festival non sa quante siano le voci che entrano in gioco. Permessi amministrativi, logistica (materiali da far arrivare giorni prima dell’evento, da stoccare, da rispedire…), gestione del personale (chi, quale, quando, quanto, pagato come…), controllo dell’attività del bar e delle fonti d’incasso che esulano dal botteghino, gestione fiscale della biglietteria (in Italia è una cosa tremendamente complicata, se volete far da soli senza affidarvi a chi lo fa già di mestiere è un incubo). Tutte cose che o riuscite a delegare a persone di fiducia, o vi assicuriamo che ad un certo punto potete anche aver invitato il vostro personale Dio In Terra in dj set o live, ma non ve ne fregherà più nulla, da quanto sarete esausti e ricoperti di problemi pratici da gestire e tamponare. Delegare fa bene. Delegare è fondamentale. Il capo di un festival migliore non è quello che riesce a fare tutto, zero!, ma quello che è il più bravo a dividere il lavoro tra più persone in maniera sensata e all’interno di un team affidabile.
L’idea di McFarland per Fyre, in realtà, non era così assurda. Creare un hype assurdo attorno ad un festival, usando i mezzi crea-hype che ci sono oggi, ed offrire una esperienza luxury (il settore luxury, in quasi qualsiasi campo imprenditoriale, è negli ultimi due decenni quello che ha sofferto meno la crisi e la contrazione economica, segnando sempre tassi di crescita robustissimi). Il meccanismo si è inceppato nel momento in cui ha messo la sua Idea davanti alla Realtà: e la realtà è davvero poco poetica, è davvero il contrario della “purezza di una Idea”. Se fate troppo gli idealisti, rischiate di diventare dei piccoli McFarland.
Il miglior capo di un festival non è quello che riesce a fare tutto, ma quello che è il più bravo a dividere il lavoro tra più persone in maniera sensata e all’interno di un team affidabile
Ecco che insomma ci sono un po’ di domanda da farsi, prima: ho abbastanza esperienza? Da quanti anni lavoro in questo campo? Sono in grado di avere le spalle finanziariamente coperte se va tutto ammerda? Sono in grado di avere le spalle finanziariamente coperte per almeno tre anni, se va tutto così così o anche benino? Ho abbastanza gente professionalizzata attorno a me? Solo se le risposte a queste domande sono soddisfacenti, potete iniziare a pensare “Mi piacerebbe avere Theo Parrish, poi Gerd Janson, poi Maurice Fulton, poi Laurent Garnier, Poi DVS1, poi…”, non prima. Non. Prima.
Se poi vi si becca a starnazzare contro le “mafie delle agenzie”, con argomentazioni tipo “Io so che X costa 20.000 euro, io gliene offro 22.000, ma non mi vogliono dire di sì, è tutta una mafia, mi boicottano, o vogliono spremermi” sorvolando sul fatto che il vostro curriculum da promoter è quasi nullo a determinati livelli, allora il grado di separazione tra voi e quel pollo megalomane di McFarland è molto più basso di quanto crediate.
Anche se i vostri gusti musicali sono molto migliori dei suoi.