Poter spiegare determinate sensazioni che si respirano al di fuori dei caotici centri urbani diventa sempre molto complesso a chi queste realtà non le vive quotidianamente: una serie di abitudini che si incastrano tra di loro danno vita ad un frullato unico di passione, spontaneità e profondo attaccamento al territorio. Per un viaggio immersivo a 360 gradi tra cultura, bellezze naturali ed una gastronomia unica nel suo genere: Gaeta, nel litorale sud di Roma, è la meta perfetta. Una città che non ha bisogno certo di grandi presentazioni, con una parte medievale pregna di storia dove il semplice alzare lo sguardo ed ammirare chiese e castelli con la salsedine nostrana a condire il tutto ti fa sentire al posto giusto nell’atmosfera ideale. Se poi aggiungiamo un festival dalla linea artistica sempre più ricercata rivolta verso orizzonti che contaminano jazz, melodie black, arrangiamenti soul e qualche distorsione elettronica, il quadro si completa da sé. Il Gaeta Jazz festival giunto alla sua XIV edizione è la vera risposta alla domanda che ci poniamo quando abbiamo bisogno di ossigeno, quello puro fuori da certi circuiti facili acchiappa folle: qui la line-up è stata da sempre improntata sul gusto e la profonda competenza artistica. Dal 14 al 17 Luglio una gita fuori porta direzione Gaeta vi porterà ad apprezzare artisti del calibro di Nicola Guida, Raffaele Costantino, DayKoda, Tiger and Woods, Serena Brancale, i Secret Night Gang giusto per farsi qualche idea ed attivarsi per ferie, biglietti e B&B. Per approfondire questa realtà così particolare e suggestiva abbiamo chiamato in causa il direttore artistico del festival, Fabio Sasso, il quale da anni si è posto come obiettivo quello di alzare l’asticella in termini di qualità con una continua ricerca musicale.
Prima che essere l’attore principale del festival sei un batterista con all’attivo partecipazioni in diverse formazioni, da quelle puramente jazz alle contaminazioni elettroniche come negli Ugoless. Da musicista quale è stata la tua formazione musicale ?
Ho iniziato sin da piccolissimo, non ricordo l’età, ero già sulla batteria a suonare le canzoni del musical “Aggiungi un posto a tavola” quando forse avevo 3 anni, si può dire che è iniziato tutto da lì. Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia con una grande passione per l’arte in generale, e in particolare per la musica e per il teatro. Da piccolo ero circondato da tutto questo: mio zio era il regista e mio padre suonava la batteria e io volevo copiarlo, infatti ne avevo una piccola in casa, di quelle adatte per i bambini ma sicuramente meno per i vicini. All’età di 17 anni ho inciso il mio primo disco con la band Tecnosospiri (pop/rock) con la produzione artistica di Amerigo Verardi (Baustelle, Lotus) e prodotto per l’etichetta Cinico Disincanto. Ad Amerigo Verardi, che in futuro diventerà un fratello, devo molto: ha cambiato il mio modo di vedere la musica e mi ha insegnato tanto anche dal punto di vista umano. Con i Tecnosospiri girammo tutta la penisola, i tantissimi concerti sulle spalle mi hanno fatto crescere tantissimo. Finite le superiori ho deciso di trasferirmi a Roma per frequentare l’università della musica (UM) dove ho avuto modo di conoscere il jazz, e nel frattempo iniziavo a suonare e fare le prime esperienze in questo nuovo mondo. Finita l’UM mi sono trasferito per qualche mese a New York, dove ho preso lezioni private con Jimmy Cobb e Kenny Washington. Tornato, decisi di iscrivermi al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma per studiare con il maestro Roberto Gatto. In quegli anni ho avuto la fortuna e il piacere di suonare con musicisti del calibro di Giorgio Rosciglione, Danilo Rea, Max Ionata, Denise King, Stefano Di Battista. Loro e altri ancora come Domenico Sanna, Daniele Tittarelli, Pietro Lussu, Francesco Fratini, Enrico Zanisi, Marco Acquarelli, Nicola Guida e Andrea Molinari mi hanno veramente arricchito. Dal jazz poi ho imparato che il suono e la creatività sono elementi indispensabili per plasmare la personalità sullo strumento: gli stessi principi che mi hanno spinto con il tempo a cercare nuove vie e nuove soluzioni, avvicinandomi quasi per gioco al mondo della musica elettronica/sperimentale contaminando il mio background. Da lì insieme a Daniele Tittarelli al sax formammo la band Ugoless, inizialmente un duo che diventò presto un trio con Andrea Guastadisegni alle macchine. Abbiamo inciso due Ep, “Introducing” (2015) e “2” (2018), fino al 2020 quando è uscito il disco “Soul Church Music”, prodotto dall’Auditorium Parco Della Musica di Roma, con la partecipazione di Domenico Sanna ai synth. Per l’occasione della presentazione abbiamo avuto il piacere di collaborare anche con Daniele Spanò ai visual. Attualmente con Ugoless stiamo in studio lavorando a cose nuove, e il 4 luglio saremo live al Monk di Roma per la rassegna Mockup. Inoltre con il gruppo Hic. è in uscita il prossimo 22 luglio il disco “Hic.” con Francesco Fratini alla tromba e Nicola Guida ai synth, per l’etichetta Hyperjazz di Raffaele Costantino. Altri progetti paralleli mi hanno visto protagonista anche nel prossimo disco di Khalab con la registrazione di alcune parti di batteria, il 28 Luglio saremo alla Casa del Jazz di Roma con una super formazione insieme a Pietro Santangelo (PS5, Nu Genea) e due ospiti americani di altissimo spessore come Ameen Saleem e Hamid Drake.
Un festival inizialmente nato come puro contenitore jazz ma con gli anni si è spinto verso le più disparate contaminazioni musicali. Qual è stato il momento che ti ha fatto capire che potevi spingerti anche oltre ?
È stata semplicemente la conseguenza di un percorso, visto che agli inizi ero piuttosto netto nei confronti della musica: esisteva solo il jazz, ed in particolare quello tradizionale. Penso che la tradizione sia fondamentale per un musicista ma non esiste solo quella, altrimenti non potrebbero nascere cose nuove e di personalità. Il jazz è una musica che nel tempo è sempre stata in continua evoluzione e mai si fermerà, basti pensare solo agli anni ’20 dove si ballava il charleston o lo swing. Tutto il mio percorso mi ha portato quindi ad aprire progressivamente i miei orizzonti e di conseguenza a guardare oltre. Il festival nello specifico fu un’idea di mio padre, nata quasi per gioco e diventata poi realtà. Agli inizi si chiamava “Jazz al Castello”: mio padre Roberto Sasso era il presidente dell’associazione Armonia ed io, ancora giovanissimo, ero il direttore artistico. Dopo i primi anni di grandi successi, persone vicine a mio padre gli proposero di farlo diventare il Gaeta Jazz Festival e di renderlo itinerante per tutta la città. L’amministrazione di Gaeta nel tempo ha giocato un ruolo importante lasciando molta libertà nella scelta delle location senza porre particolari limiti. Forse il cambiamento iniziò proprio lì quando nel 2015 suonarono i Native Dancer (UK) e noi con gli Ugoless. Nel 2016 poi la squadra diventò sempre più grande ed entrò a far parte del team Salvatore “Solko”, ora responsabile di tutta la comunicazione del festival. L’anno successivo dopo la prematura scomparsa di mio padre, Salvatore mi presentò Raffaele Costantino, oggi con il ruolo di advisor, aprendomi ancor di più gli occhi e le orecchie portando un grande contributo al festival. Negli anni infatti a Gaeta siamo riusciti a far esibire molti artisti tra cui Robert Glasper, Dayme Arocena, Youssef Dayes, Nu Genea, giusto per citarne alcuni.
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Come sempre la qualità di artisti che arrivano a Gaeta è emozionante, quest’anno in particolare c’è il ritorno di Nicola Guida oltre che la presenza ormai fissa di Raffaele Costantino. Cosa annotiamo in agenda per non tralasciare nulla al caso ?
Che la qualità artistica sia emozionante lo dici tu e mi fa molto piacere. Si, Nicola Guida torna con grande piacere al Gaeta jazz Festival: quest’anno in particolare lo farà da headliner per presentare il suo ultimo album “Speleology”, che ha riscosso tanto successo in Italia e soprattutto in Europa, Londra su tutte. Sono veramente felice poi di ospitare Serena Brancale che inseguo da qualche anno, così come i Secret Night Gang (del giro Brownswood), una band inglese giovane e fresca da tempo sotto l’ala protettrice del guru Gilles Peterson. Faranno a Gaeta l’unica data Italiana, almeno al momento, per poi suonare in festival come il Primavera Sound, We Out Here o il North Sea. La presenza di Raffaele Costantino è fissa non solo in quanto membro cardine del festival, ma soprattutto perché quando l’ho sentito per la prima volta al Jazz Re:found a Torino, credo 2017/18, rimasi veramente colpito. Raffaele sa farmi ballare con musica di qualità, bella e ricercata, ma soprattutto mi fa divertire come pochi quando suona: ha una cultura incredibile ed è un instancabile ricercatore di musica proveniente da ogni parte del mondo. Il giorno in cui avrò la fortuna di conoscere altri dj con queste caratteristiche sarò ben felice di chiamarli.
Se dovessi pensare a tre fotogrammi di tutte le passate edizioni quali sceglieresti e soprattutto perché ?
Robert Glasper è stato il mio sogno e siamo riusciti a realizzarlo, non posso aggiungere altro, così come lo è stato portare a Gaeta Roy Hargrove. Rimasi poi veramente colpito da Gabriele Poso, percussionista italiano di altissimo livello, si esibì con un live emozionante che ricordo con grande piacere. Su Pietro Lussu ho un grande rimpianto: quello di non essere riuscito a registrare il concerto in piano solo all’alba nella suggestiva location della terrazza dei bastioni “La Favorita” la passata edizione, fu un momento surreale. Pietro è un musicista che conosco benissimo, ma ogni volta che lo sento suonare rimango emozionato dal suo talento e dalla sua classe infinita, non ho mai sentito nessuno fare un concerto in piano solo in quel modo.
Non si può, purtroppo, tralasciare il fatto che durante il periodo appena passato la pandemia ha limitato molto tutte le manifestazioni culturali ed in particolar modo la musica live e non solo sono state le più colpite. Cosa a tuo avviso ancora manca a questo settore per rilanciare pienamente tutto l’indotto musicale ?
Ahia, hai toccato un tasto molto dolente. È veramente complesso il discorso. Al di là della pandemia, in Italia ci sono dei costi insostenibili per la realizzazione di un festival; anzi, dopo la pandemia sono anche aumentati. Non posso non notare che nel settore musicale mancano dei ruoli professionali che vengano valorizzati. A partire dai festival passando ai promoter per arrivare alle etichette discografiche, esistono sì figure professionali ma sembra sempre che siano considerate come un secondo lavoro per tutti. A differenza di altri paesi europei, noto che queste mansioni sono lavori poco riconosciuti e non ricompensati adeguatamente. La mia è un’osservazione, non so di chi sia la colpa, dove sta l’errore o come risolvere la situazione: perché se analizzata in modo profondo è una lunga catena di responsabilità che parte dal musicista, passando per chi produce, fino ad arrivare all’ascoltatore. Bisognerebbe cambiare il concetto culturale, molto radicato in Italia, che la musica non sia solo un hobby.
Dopo questo lungo excursus non possiamo che salutarci con la musica, visto che si è parlato approfonditamente di jazz, da quello tradizionale alle varie influenze che ha avuto nel tempo, ci lasciamo con due tracce che secondo te possono ben raccontare questo passaggio.
Ne metto tre così la musica si prende lo spazio che merita…