Ora che Elita, a Milano, è ripartita con l’Ouverture, è arrivato il momento di condividere una chiacchierata bellissima avuta qualche mese fa nei camerini del Teatro Franco Parenti, durante il #DWF10. Il protagonista è sua maestà Gilles Peterson (…bisogno di presentazioni? No, vero?), l’attore silenzioso secondario è Rob Gallagher (presente accanto a noi durante l’intervista ed ascoltatore interessato tutto il tempo), ovvero il fondatore e primo artefice del progetto Galliano, una band leggendaria per quanto riguarda la scena acid jazz. Scena di cui Peterson è, notoriamente, uno dei primi artefici, probabilmente il più importante (l’etichetta da lui fondata, la Talkin’ Loud, è stata un’esperienza ricchissima di contenuti e successi). Tant’è che con lui spesso si finisce a parlare prima di tutto di acid jazz, di quegli anni, ed eventualmente poi del suo attuale lavoro per la BBC, dei Worldwide Awards, del suo ruolo di catalizzatore/scopritore di talenti. Ecco: noi abbiamo voluto fare un passo indietro, parlando di ciò che accadeva prima ancora dell’avvento dell’acid jazz, e un passo a lato, ritrovandoci a fare considerazioni molto interessanti sulla club culture di ieri, oggi e domani. Una di quelle interviste da leggere tutte d’un fiato, una di quelle di interviste da tenere a lungo – concedetecelo – tra i proprio bookmark. Una di quelle interviste in cui capisci che non si diventa uno dei dj e “tastemakers” più influenti al mondo, nella galassia della club culture, per caso.
Senti, non vorrei iniziare parlando subito del “solito” acid jazz o della “solita” BBC. Vorrei andare un attimo più indietro. Molto più indietro. Ancora anni ’80. Vorrei tornare a quando ho visto comparire per la prima volta il tuo nome, leggendo avidamente i credits dei dischi dei Working Week…
Ah sì. Facevo gli scratch, lì!
Ma quanti anni avevi?
Oddio, non so… Forse ventidue? Qualcosa del genere.
Eh, essere a quell’età nel disco di una band che all’epoca era piuttosto importante e riverita, beh, non era per nulla male.
Ero pure nel video della versione veloce di “Venceremos” (“Ehi, ma non lo sapevo! Che è ‘sta storia! Non me l’hai mai detto…” ride Rob lì accanto, NdI). Avevo fatto delle cose in quella traccia, una traccia che trovo ancora adesso splendida tra l’altro. Chi era il regista di quel video, aspetta? Uno molto famoso, quello che poi ha fatto anche il documentario su Glastonbury… uff, non mi ricordo (per la cronaca: si tratta di Julien Temple, NdI). Ad ogni modo: facemmo quel video in un piccolo club, a Soho, vicino all’Astoria. Una cosa mi ricordo soprattutto: dovetti stare tutto il tempo nella dj booth per farmi riprendere, senza tuttavia avere la minima certezza che sarei entrato nel montaggio finale. Oh, due palle! (ride, NdI)
Era un periodo molto interessante per il pop “avanzato” inglese: Working Week, Style Council… Tu però arrivavi da un contesto piuttosto diverso, quello molto movimentista e battagliero delle radio pirata londinesi, dei club più sotterranei e lontani – all’epoca – dalle rotte del mainstream.
Vero. Ma Simon Booth, uno dei leader dei Working Week, era una persona molto aperta e curiosa: questa faccenda, all’epoca nascente, della club culture lo incuriosiva molto. Gente come lui, o come gli stessi Paul Weller e Mick Talbot degli Style Council o altri protagonisti di quella vampata di pop elegante e progressista dell’epoca arrivava in ogni caso dal mondo indie, se non direttamente dal punk: questo significa che erano comunque molto attenti a quello che succedeva nell’underground, sapevano che le cose più interessanti quasi sempre arrivano da lì – ci erano passati loro stessi. Ricordo che Simon Booth venne una sera all’Electric Ballroom, in console c’eravamo io e Paul Murphy, e rimase abbastanza folgorato. Sai, a quel tempo – parliamo della metà degli anni ’80 – a Londra iniziavano a succedere un sacco di cose: c’era il magazine The Face, che iniziava seriamente a parlare di stili e sottoculture con un taglio accattivante, c’era il Wag Club, insomma, a Soho si sentiva qualcosa di molto vibrante nell’aria. Io, d’altro canto, era già ben immerso nel mondo delle radio pirata dal taglio musicalmente black (che è un contesto da periferia urbana londinese nera) o dei soul weekenders (che invece è un fenomeno da provincia britannica bianca). E io mi ero ritrovato ben coinvolto in tutt’e tre i contesti.
Poi, all’improvviso, arriva il ciclone acid house. Cosa cambiò?
Fu qualcosa di molto radicale. Dopo venti, trent’anni ti guardi indietro e ti rendi conto di quanto l’avvento dell’acid house stravolse le cose, di quanto fu importante. Prima che arrivasse, la musica era per tutti un hobby; dopo, per molti è diventata una carriera. Dovessi riassumere il fenomeno acid house in una frase, sarebbe questa. Ha reso possibile il lavorare con la musica e nella musica; ha fatto capire a tutti che attorno alla musica poteva esserci una cultura e potevano esserci dei movimenti sociali imponenti – e i più scafati hanno capito che, con un po’ di abilità, tutto questo poteva diventare anche un’industria, non solo un passatempo. E’ con l’acid house che nascono i superclub, è con l’acid house che i dj iniziano a viaggiare: nel 1988 io e Rob partimmo per il Giappone a fare un tour, fummo noi a portare l’acid house in Giappone. Noi due, e Dave Dorrell, che con CJ Mackintosh formava i MARRS – “Pump Up The Volume”, hai presente?
Che domande, certo che sì. Però scusa: ok i MARRS, va bene, ma tu e Rob? Che c’entravate? Da quel che ne so le vostre radici sono molto più legate alla scena jazz dance, al soul, al funk.
Eh, ma Dorrell sapeva bene che io comunque bazzicavo molto anche il giro acid house. Facevo parte della cricca: Danny Rampling, Nicky Holloway… andavo spesso in giro con loro. Con però sai quale differenza?
Vai.
Non prendevo l’ecstasy! Però ecco: se torniamo al 1984, 1985, 1986, c’ero anche io nel famigerato gruppo che se ne andava ad Ibiza in vacanza e che poi lì ha avuto l’epifania per importare l’house balearica in Inghilterra. Il capocomitiva era Holloway, assieme a Rampling, poi c’erano Pete Tong, Johnnie Walker, Chris Bangs, Paul Oakenfold… Prendi Oakey: facevamo i dj assieme da quando avevo diciotto anni, figurati! Eravamo amici già da un pezzo. Il momento decisivo fu non mi ricordo se nel 1986 o 1987, quando loro presero l’ecstasy e io e Chris Bangs no. Io e Chris eravamo i fricchettoni del gruppo, perché mentre gli altri si andavano di alcool noi preferivamo le canne; improvvisamente, i ruoli si erano invertiti – i veri ribelli che facevano cose “pericolose” diventarono loro. Perché noi alle pasticche dicemmo no per principio… Comunque ecco, dicevamo di Dorrell: lui tutte queste cose le sapeva, osservava per bene tutta la faccenda, e notò subito che c’era spazio per una doppia dimensione del fenomeno acid house: da un lato una main room sotto l’insegna dell’ecstasy, e dall’altro una sala due molto più rilassata e bohemienne – ecco, su questo territorio io potevo dire la mia. Tanto più che già dopo qualche mese, allo Shoom, i veterani della serata, quelli che venivano dal giorno uno, iniziarono a stufarsi del tipo di gente che stava iniziando ad arrivare. Gente sempre più sopra le righe. E quindi quando mi misi ad organizzare piccole serate dove suonavo funk, soul ma anche free jazz e cose assurde e psichedeliche, loro accorsero in massa. L’acid jazz nasce così. Una di queste persone ad accorrere era proprio Dorrell. E quindi ecco, quando è il momento di andare in Giappone ci chiama, ci chiede di venire con lui. Logico. Tra l’altro, giusto poche settimane prima di partire avevo fatto uscire la prima release in assoluta dell’Acid Jazz intesa come label, “Frederic Lies Still”: una strumentale presa da “Freddie’s Dead” di Curtis Mayfield e Rob che ci fa sopra dello spoken word. Quindi in Giappone arrivammo io e Rob: io che suonavo, Rob a fare l’mc. Esattamente come stasera qua a Milano. Non è cambiato nulla, che noia… (risate di tutti, NdI)
Dopo questa sortita giapponese come cambiò la tua vita? L’acid jazz divenne una cosa seria, mi sa, un lavoro vero e proprio.
Onestamente, una parte di me rimpiange il fatto che non fui abbastanza astuto da rendere tutto un business molto più efficace di quello che fu in realtà. E’ che io ho sempre fatto il dj cinque sere a settimana, due volte alla settimana ero in radio; ad un certo punto avevo anche preso a girare fuori dall’Inghilterra, e fui uno dei primissimi: Helsinki, le ospitate a Radio Nova a Parigi, le prime residenze a Vienna, a Wuppertal… Ecco, tutto questo a ventuno, ventidue anni. Quindi insomma, non avevo nemmeno il tempo per immaginarmi un “progetto complessivo”: per me era già una figata assurda riuscire a fare tutto quello che facevo, mi pareva già incredibile, e non ho mai sentito l’esigenza di pensare più in grande. Poi guarda, ‘sta cosa dell’acid jazz non era, come ti raccontavo, la prima cosa che mi succedeva: avevo già avuto molte fasi, molte esperienze. Era già la seconda o addirittura terza fase della mia vita.
Infatti: non a caso volevo iniziare facendoti parlare di quello che accadeva prima dell’avvento dell’acid jazz, è una parte di te che spesso non viene raccontata.
Guardarsi dietro è molto interessante. Guardandomi indietro, capisco ad esempio che non ho assolutamente mai avuto un “career plan”. Zero. Oggi questo sarebbe inimmaginabile: ce l’hanno tutti. Il che è anche giusto, ma… non so… l’effetto collaterale è che in qualche modo ti fa automaticamente perdere l’innocenza, la purezza in tutto quello che fai. Io mi sento fortunato ad essere sempre e solo stato mosso dalla passione; però al tempo stesso, lo ammetto, mi dispiace non aver mai avuto un mentore, qualcuno che mi aiutasse a dare una direzione alle cose, una visione complessiva. Strutturando tutto in un certo modo, rendendolo forte.
Un business mentor, insomma.
Massì, dai. Qualcuno che arrivasse lì e mi dicesse “Ma cazzo, hai in mano tua i Jamiroquai, i Brand New Heavies, i Galliano: smettila di cazzeggiare e crea qualcosa di serio, di potente”.
Guarda, per la mia percezione esterna quell’uomo potevi e dovevi essere proprio tu, per te stesso. Insomma, hai fondato e portato avanti la Talkin’ Loud, che ad un certo punto era diventata una cosa seria, molto seria. Tu, mica altri.
Oh, io nel ragionare da uomo d’affari sono sempre stato pessimo. Ma sai perché, anche? Perché non avevo nessuno a cui ispirarmi. Ero l’unico, ero – all’interno di una certa scena – il primo. Non avevo termini di paragone. All’epoca non c’era, che so, la Mo’ Wax; mentre quando la Mo’ Wax è nata c’era già la Talkin’ Loud a cui guardare, dal punto di vista dell’operatività. Mi spiego? Ho dovuto insomma andare avanti un po’ alla cieca, imparare sul campo. Sono contentissimo di averlo fatto, sia chiaro: perché in questo modo ho imparato ad avere una prospettiva globale, ad ampio raggio, anche dal punto di vista del tempo, del costruire le cose passo passo. Oggi la gente vuole ottenere tutto velocemente: ok, ma non si accorge che in questo modo è anche più facile scomparire altrettanto velocemente, senza contare che appunto perdi ogni forma di innocenza in quello che fai. E l’innocenza, credimi, è una cosa bellissima. Comunque, sappi: se avessi avuto più mentalità da uomo d’affari forse ora sarei un milionario, e non sederei qui di fronte a te. O magari sì: ma saremmo nel mio superclub.
Quando hai capito che le cose con la Talkin’ Loud iniziavano a prendere una brutta china?
Beh, non sono mai andate bene! (risate, NdI) E’ sempre stata un incubo, la Talkin’ Loud. Mi viene da tirare fuori un paragone calcistico, se penso a quell’esperienza: è come fare l’allenatore. Crei una squadra, disegni gli schemi, disponi la tattica, motivi i tuoi giocatori; e se hai un minimo di successo, beh, se tutto va bene ad un certo punto arrivano a cercarti le grandi squadre, tipo Milan, Manchester United – giusto? Peccato solo che io non ho mai voluto abbandonare la mia squadra. Perché l’avrei sentito come un tradimento. Era la mia gente. Erano i miei amici. C’è stato un momento in cui ho avuto offerte pazzesche, e mi arrivavano di continuo: ma non ho avuto il coraggio di abbandonare la barca, perché quando hai sotto contratto non solo dei bravi musicisti ma persone che tu reputi tra i tuoi migliori amici non puoi andartene e basta. E’ stato tra l’altro un periodo molto duro ed impegnativo, quello della Talkin’ Loud, pure perché, diciamolo, facevamo un po’ troppa festa. Continuavo a fare il dj, oltre a tutti gli impegni da discografico, e probabilmente fumavo pure un po’ troppa erba… Mi ricordo che ogni tanto entravo proprio in crisi, in paranoia, “Aiuto, e ora come ne vengo fuori…?”. Ma la musica, beh, la musica era incredibile: Galliano, Young Disciples all’inizio; e poi la crescita, con Roni Size, 4 Hero, Nicolette, Carl Craig, Nu Yorican Soul, The Roots. Pazzesco.
Tra l’altro eri avanti coi tempi. Quando hai messo sotto contratto i Roots, non se li filava quasi nessuno. Manco Carl Craig era il celebrato dj e producer che è oggi.
Boh, sì, ma non facevo questi ragionamenti: mettevo sotto contratto solo per passione e scelte legate al gusto personale. Però sì, è stato tutto sempre molto complicato, molto difficile, dal punto di vista pratico. Se mi chiedi cosa cambierei di quell’esperienza col senno di poi, la risposta ora mi è chiara: avrei dovuto chiudere almeno tre anni prima rispetto a quando dichiarai terminata l’avventura davvero. Avrei dovuto mollare quando Roni Size vinse il Mercury Prize, ecco. Avrei dovuto, e avrei potuto: in quel momento non avevo nulla di “aperto”, avrei potuto dichiarare chiusa l’avventura senza interrompere niente che era in procinto di essere lavorato. Invece tirai avanti. Sbagliando. Quello era il periodo in cui mi chiamavano Milan, Manchester United, Barcellona; dopo, non chiamarono più.
Ma anche la “ultima” Talkin’ Loud tirò fuori perle bellissime. Ad esempio per me uno degli album più sottovalutati degli ultimi vent’anni è “4” dei Galliano: lo capirono in pochi, tutti a dire “L’acid jazz, e chi se lo incula adesso…” invece era un disco lontano anni luce dall’acid jazz e dai luoghi comuni che lo circondano, aveva una ricchezza d’idee e una qualità enormi.
E’ così. Sono assolutamente d’accordo. Ma lì non era nemmeno solo questione di musica: si era proprio esaurita la spinta fisiologica del progetto, e intendo anche e soprattutto come chimica interna fra i componenti. Però sì, in “4” ci sono dei capolavori, penso ad esempio a “Slack Hands”… A Rob hanno chiesto più volte di riformare la band. Ma lui ha sempre rifiutato e sempre rifiuterà credo (Rob accanto annuisce, NdI). Perché lui è uno che guarda al futuro, sempre. A maggior ragione se si parla di musica.
C’è stata però una reunion estemporanea, occhio. Tipo un anno fa.
Sì, ma solo perché gliel’avevo chiesto io e perché era un evento benefico. Altrimenti non avrebbe mai accettato.
Dopo la chiusura della Talkin’ Loud, hai avuto dei momenti di crisi, di spaesamento? Si era comunque chiuso un capitolo molto importante ed intenso della tua vita. Quelle situazioni in cui, insomma, ti capita di svegliarti al mattino e chiederti “E adesso cosa faccio?”…
Io credo che almeno una volta all’anno hai momenti di crisi così! Guarda, è da quando ho compiuto i trent’anni che arriva ciclicamente il momento in cui mi dico “Ora basta, devo smettere di fare il dj, è una cosa che non fa più per me”. Peccato che poi riscopro sempre che fare il dj è una cosa che amo troppo… Non solo la amo, è che ne ho proprio bisogno: ho bisogno di stare in un club, di carpirne e respirarne l’energia, di provare quella bellissima ansia del capire qual è la traccia da mettere in quel determinato momento, e allo stesso modo ho bisogno di capire in che modo devo restare aggiornato negli ascolti e nelle selezioni per non fare figure patetiche davanti ai dancefloor. Certo, ci sono dei momenti in cui all’improvviso ti chiedi “E io cosa ci faccio qui?”: alle quattro del mattino, in un club, a luci accese, a Berlino o in qualsiasi altra città… ma passa subito. Adoro troppo fare il dj. Così come adoro il mio lavorare in radio, così come adoro qualsiasi cosa faccia: non rinuncerei a nulla insomma, non cambierei nulla. Poi attenzione, vorrei dirti una cosa, ma devi stare molto attento a come la rendi…
Vai.
Ma attento davvero, eh: perché non voglio passare da stronzo presuntuoso.
Promesso.
Cinque o sei anni fa credo di aver passato una specie di confine invisibile e, insomma, dicendo che mi sono ritrovato ad avere una specie di status da “leggenda”, ma davvero, le virgolette sono d’obbligo. Ecco, più che “leggenda” diciamo “classico”, dai. Questo è stato positivo: perché in questo modo le nuove generazioni hanno iniziato a guardarmi con interesse, a considerarmi comunque come un punto di riferimento. E non come un reduce fuori tempo massimo.
Non è così comune questa consapevolezza di sé. Sai, in Italia si dice – grazie allo scrittore Alberto Arbasino – che nasci “giovane promessa”, poi ad un certo punto diventi “il solito stronzo” e solo se sei fortunato (e bravo) ad un certo punto diventi un “venerabile maestro”: e magari sei sempre tu, non è che nel frattempo magari hai cambiato particolarmente modo di fare o di porti.
Mi raccomando, in questa categoria di “venerabile maestro” in cui ora mi dico di appartenere immetti sempre robuste dose di autoironia, è importante. Però sì, negli ultimi anni ho ricevuto segnali di stima incredibilmente forti, anche inaspettati. Credo che sia merito anche della BBC, del modo autorevole, appropriato ed intelligente in cui si pone qualsiasi cosa faccia o offra: io ho sempre fatto radio in un certo modo, e questo modo la BBC lo ha reso popolare, interessante e “rispettabile” su scala globale. “Worldwide”, appunto. Non hai idea di quanti feedback incredibili mi arrivino dai social. Da restar senza parole.
Non te l’aspettavi?
No. Pensaci: io sono in qualche modo sulla cresta dell’onda da così tanto tempo… Lo ero quando c’erano solo i vinili e la club culture muoveva i primi, piccoli passi; lo ero quando sono arrivati i cd e le cose si sono fatte serie; lo sono adesso, che ci sono gli mp3 e, insomma, per tutto il sistema non è per nulla semplice capire come fare, come organizzarsi, come stare in piedi. Una cosa che mi fa molto piacere è che vedo, negli ultimi tempi, una rinnovata attenzione a un certo tipo di valori fondanti della club culture, dal punto di vista musicale. Valori che conosco e che ho visto nascere, quindi guarda, in certi momenti mi sento quasi una specie di “antropologo musicale”. Al tempo stesso però è fondamentale circondarsi di gente fresca che è in grado di regalarti energia, passione, stimoli, sfide; perché più vai avanti, più è facile ritrovarsi circondati da avvoltoi che pensano più a succhiare da te ciò che resta che a darti qualcosa di nuovo, questa è la realtà… Sai, non dimenticherò mai una visita di Flying Lotus in studio da me, parliamo di dieci anni fa. Ad un certo punto mi fa: “Uomo, sei statico. Non dormire. Non dormire sulla tua roba. Perché stai dormendo. Stai dormendo! Le cose succedono, e tu non le vedi”; magari ha usato parole più gentili, si vedeva che non voleva essere rude e mancarmi di rispetto, però ti assicuro che il messaggio era chiaro ed inequivocabile. E’ stato importantissimo. La stessa cosa fece, dieci anni prima, Leila Arab (dischi su Warp, ex stretta collaboratrice di Björk, NdI): e anche lì fu fondamentale. Non puoi mai dormire sugli allori, mai. E men che meno devi rassegnarti a fare il monumento di te stesso, a iniziare a fare quelle tristissime serate revival anni ’70, ’80, ’90 o quel che è – quello credimi è già finire in pensione, in un modo tra l’altro manco tanto dignitoso. Io sono ancora attaccatissimo al qui&ora, anche perché tra l’altro questo qui&ora è oggi maledettamente interessante, ma conosco molta gente della mia età se non addirittura più giovane che ha già tirato i remi in barca, e che per sbancare il lunario porta in giro il simulacro di se stesso, della propria fama passata. Ecco, aver accanto Rob in questo per me è fondamentale: come ti dicevo, lui è un dannato futurista, guarda sempre avanti, non gliene importa nulla di cosa è successo o cosa abbia fatto in passato.
Dicevi: il qui&ora attuale è maledettamente interessante.
Lo è. Prendi stasera, il set che ho fatto qui ad Elita. In un’ora e mezzo ho suonato di tutto: trap, house, rarità latin-soul, funk d’annata, techno… Lo sai vero che tre anni fa mi avrebbero fischiato per un set del genere? Ne siamo tutti consapevoli? Io di sicuro sì. La gente è cambiata. Non vuole più per forza sentire solo le cose da Ibiza, da Berghain o l’EDM. Vuole continuare a ballare e a divertirsi e ad ascoltare musica dance, certo, questo resta costante, ma ha un’apertura mentale molto maggiore. Vale per l’Inghilterra anche fuori da Londra, vale per l’Italia, vale per la Spagna – storicamente nazioni in cui era più difficile essere “raffinati” ed eclettici davanti a dancefloor di certe dimensioni. Il merito di questo credo vada ad una fantastica generazione di dj relativamente giovani – penso a Floating Points, Ben UFO, Benji B, Joy Orbison, giusto per nominarne alcuni – che da un lato sono perfettamente in grado di parlare il linguaggio della contemporaneità, dall’altro nel loro modo di approcciare il deejaying hanno recuperato alcuni valori originari del clubbing e della club culture. Gente cioè che non arriva mai con set preregistrati, con scalette già fatte. Non lo fanno perché amano il rischio – perché sì, avere questo approccio è anche un rischio, eccome se lo è; ma meglio questo rischio molto da old school che certezze troppo facili. Se poi si tornerà a rivalutare la figura del dj resident, così come ad abituarsi alla necessità che un dj suoni non per un’ora e mezza ma almeno per quattro, cinque ore come succedeva in origine, beh, allora le cose miglioreranno ancora. Ne sono profondamente convinto. Questi sono i “ritorni al passato” che possono fare incredibilmente bene al futuro. Al futuro di tutti.