Allora, stando ai semplici fatti: uno dei talenti più interessanti e particolari della scena tech-house italiana, Giorgia Angiuli, è finalmente uscita con un disco a suo nome, tra l’altro su una label di spessore come Stil Vor Talent. In realtà di Giorgia si parla da anni, nei contesti danzettari: perché è da un po’ che era nelle line up dei club e festival italiani più svegli, perché già prima col progetto in co-abitazione We Love aveva attirato attenzioni non da poco (in primis quella di Ellen Allien e della Bpitch); e comunque perché nell’ultimo periodo la sua carriera ha subito una accelerazione esponenziale, con un’attenzione all’estero che pochi dj/producer di casa nostra possono vantare. Ecco, questi i semplici fatti. I fatti meno semplici, ci farebbero raccontare quanto la Angiuli sia una persona di rara sensibilità, curiosità e cultura: ma questo potete scoprirlo (anche) in questa intervista, dove si toccano diversi argomenti. Anche molto difficili, anche molto personali. E dove tra l’altro l’intervistatore scopre, ad un certo punto, di aver involontariamente guastato per un po’ la vita all’intervistata.
Giorgia, accidenti, non ti si becca più! Sei sempre in giro! E intendo, in giro per il mondo. Sempre a far date. Sono cambiate le cose, eh…
Ovviamente sono davvero molto felice di poter girare così tanto per suonare in giro ma, lo ammetto, mi manca sempre più il lavoro in studio, proprio tanto! E aggiungiamo pure che se sei troppo sparso in giro per il mondo a suonare anche la tua vita personale, in primis quella affettiva, ne risente. Come mai si sia arrivati a questo, a questo girare così tanto di cui sono lo ripeto davvero molto contenta, non lo so: quello che posso dirti è che accaduto tutto in modo graduale e spontaneo. Non ho mai voluto lavorare all’interno di una quelle grosse agenzie potenti e temute: la mia tour manager e la mia booker sono per dire due amiche vere e lavoro con loro da tantissimo tempo, così come amico è anche chi ora fa un po’ le funzioni da manager per me – e comunque mi gestisce in modo autonomo, indipendente. Io poi detesto i social, ma non posso certo ignorare il fatto che mi siano stati molto d’aiuto: i video che ho messo lì hanno girato tantissimo e hanno creato molto interesse attorno a me. Da lì, è come se tutto avessi iniziato a muoversi un po’ da solo. Non so dirti insomma cosa sia accaduto di preciso e quale sia stato l’eventuale segreto, di sicuro ora con l’album in giro c’è ancora più visibilità e voglia di chiamarmi a suonare. Le richieste continuano ad aumentare: sono io a chiedere di suonare un po’ di meno, di rifiutare un po’ di cose. Me ne vergogno molto, quando lo faccio, perché mi rendo conto di essere ora una privilegiata. E’ che cosa ti devo dire, a me piace molto anche lavorare in studio…
Si può dire che l’estero è stato più veloce e ricettivo nello scoprirti e soprattutto nel valorizzarti?
Sì, sicuramente l’estero funziona meglio rispetto all’Italia. Ora col mio manager si è deciso di fare non più di cinque, sei date all’anno nel nostro paese, accettando solo le proposte più interessanti. Un po’ sono io che sono sicuramente molto contenta di viaggiare, scoprire posti e culture nuove, ovvio; un po’ il fatto che in Italia il live, nella musica elettronica, è ancora visto come una creatura un po’ strana, un po’ atipica, che non sai bene come interpretare. Da altre parti del mondo soprattutto se ci sono delle line up estese è praticamente obbligatorio che ci siano almeno uno o due live set, in Italia invece pare non esserci questa precisa esigenza. Detto questo, quando suono nel mio paese il pubblico è sempre delizioso: e lo è stato anche in date molto impegnative come Kappa o Guendalina, o come a Milano in uno degli spazi del Castello Sforzesco (che è stato pure sold out). Sono state delle date proprio belle in assoluto. Però sì, l’impressione è che all’estero io forse venga valorizzata mediamente di più.
Forse perché in Italia eri, come dire?, una presenza abituale: “Ah sì, la Angiuli, la giovane produttrice” – perché in Italia si è giovani fino a cinquant’anni almeno, si sa – “quella che faceva le cose al Tenax e che fa un po’ di date in giro… sì, brava, brava, non male”; ma poi se volevi fare realmente la differenza pensavi subito ad un guest straniero, perché tanto tu eri una presenza “normale”.
Siamo un popolo di esterofili, c’è poco da fare, ci piace chiamare l’ospite straniero perché fa più figo; in più aggiungi, come ti dicevo, la relativa predisposizione che c’è ai live veri e propri, nel nostro circuito dance. Non rinnego nulla, sia chiaro: grazie agli anni con Laterra e con Ralf ho suonato anche parecchio in Italia, è stato importante, però ecco, ad un certo punto avevo bisogno di aria fresca. Ci vuole il giusto compromesso: l’idea ora è quella di accettare solo date selezionate, nel nostro paese.
(“In A Pink Bubble” nella sua interezza; continua sotto)
Quanto hai sentito la responsabilità di uscire finalmente con un album a nome Giorgia Angiuli, dopo tutta la serie infinita di EP, release singole, eccetera?
L’ho sentita così tanto che, grazie a te e a una serie di tue osservazioni su provini che ti avevo mandato, ho deciso di cestinare un album che era già quasi fatto e finito! (risate, NdI). Le critiche sono sempre utilissime, davvero. Era tantissimo tempo che mi ero messa in testa di far uscire un album, ma non mi sentivo mai di aver finito il materiale, di averlo chiuso nel modo migliore. Poi però il lutto che mi ha colpito, la perdita di mia madre, mi ha fatto capire che non dovevo più girare a vuoto, dovevo “chiudere” le cose, sentivo come una forza invisibile che improvvisamente – e finalmente – mi spingeva a farlo. Sai, un po’ il fatto che lei era sempre stata scettica sul mio lavoro, su questa mia cosa di voler fare la musicista… mentre invece prima di morire un giorno mi ha detto “Non smettere mai di suonare, Giorgia. Sono orgogliosa di te”; non solo, mi ha anche chiesto di vedere uno dei miei video, uno di quelli che girano sui social: l’ha visto una, due, tre, quattro volte, continuava a chiedere di rivederlo. Ecco, in quel momento ho capito che dovevo darmi da fare. Dovevo chiudere ‘sto benedetto album. Mi sono buttata nel farlo. E probabilmente questo mi ha anche salvato dalla tristezza, da una eventuale depressione: perché ero concentrata, concentratissima, ero tutta focalizzata su questo album finalmente da terminare! Ed improvvisamente è diventato tutto molto semplice, rapido e naturale: ho scritto, ho suonato, ho chiuso tutto, praticamente senza mai tornare sopra su quanto inciso. Oggi se lo ascolto ci sento chiaramente dei difetti, ma al tempo stesso gli voglio assolutamente bene perché è un lavoro sincero e spontaneo, e questo mi rende molto felice.
Oddio, se ho qualche responsabilità nell’averti fatto cestinare il vecchio materiale ora ti posso dire che non posso far altro che farti i complimenti: mi pare che con “In A Pink Bubble” tu abbia fatto davvero un passo in più. Ti trovo molto migliorata dal punto di vista tecnico rispetto al passato; soprattutto, sei tornata a gestire in molto bello dinamiche e strutture. E’ curiosa, questa cosa: perché era una tua caratteristica agli inizi della carriera, dove con un progetto come Metùo giocavi molto sulla delicatezza e sui chiaroscuri, caratteristica che invece si era un po’ persa quando ti eri dedicata più specificatamente alla sfera dance. Eri diventata più “dritta”, certo, ma forse anche un po’ meno espressiva. Sto dicendo delle fesserie?
No, non le stai dicendo. Mi ci ritrovo, in quello che dici. “In A Pink Bubble”, come ti dicevo, riesco a trovarlo veramente sincero. Sono riuscita a metterci tutto quello che mi piace – l’ho fatto senza pormi problemi, dubbi, prudenze. Sai, quando ero approdata alla musica dance, era stato tutto un po’ strano: prima non avevo praticamente mai ascoltato techno in vita mia, era tutto nuovo, strano, da scoprire… E’ stato un passaggio un po’ bizzarro, per me. In più, mi rendevo conto che al pubblico dance piaceva la cassa dritta, era dura derogare da questa architettura ritmica: questo mi ha fatto andare un po’ nel pallone. Ero sicuramente confusa, nel tentare di capire come giostrarmi in questo nuovo contesto e accontentare questo nuovo pubblico, e di questa confusione ha sicuramente risentito anche il mio suono. Quindi ecco, capisci quanto mi renda contenta questo album uscito ora, perché davvero sono riuscita ad essere me stessa al cento per cento e a non scendere a compromessi (…compromessi che mi imponevo io stessa, prima di tutto). Però sto già facendo cose nuove. Tutto è migliorabile. Comunque in “In A Pink Bubble” c’è un po’ di indie, un po’ di elettronica, un po’ di dance: rappresenta quindi il mio passato, il mio presente e credo anche il mio futuro.
Però la tua voce l’hai nascosta parecchio. L’hai usata quesi sempre molto filtrata.
C’è una tecnica che uso spesso: metto la mia voce vera, me le affianco la versione pitchata cinque semitoni più in basso. Sai che c’è, è che la mia voce non mi piace, non mi piace mai. La accetto invece quando penso a lei come uno strumento per creare un’atmosfera: quindi non come a qualcosa che deve essere protagonista in prima piano, quanto piuttosto un elemento fra tanti, un suono, uno strumento. Io in realtà sto molto attenta a scegliere le parole, a decidere cosa canto, questo sì, ma la mia voce così com’è preferisco non metterla troppo in risalto.
(Bizarre gear obsessed; continua sotto)
Nell’album i titoli sono molto evocativi, chiari, dipingono scenari ben precisi già di loro. Però proprio per questo mi sorprende come la traccia forse più cupa e malinconica sia quella intitolata “Music Is Life”.
(sorride, NdI) E’ stata l’ultima che ho composto. In effetti, non so, forse le cose nuove che sto facendo tendono ad essere più cupe, più scure, vero. Quella traccia inizialmente volevo tenerla da parte per poi infilarla in un EP successiva, invece alla fine ho deciso di metterla nel disco.
Se chiedi a me, hai fatto bene. E’ una delle mie preferite.
La suono anche nei live: la gente reagisce sempre molto bene, ne sono molto contenta.
La musica quindi può anche essere malinconia e sottile inquietudine?
Assolutamente sì!
TI chiederei di tornare un attimo a Metùo: perché ok, chi ci legge sicuramente conosce Giorgia Angiuli, e probabilmente si ricorda anche il periodo precedente con We Love, il legame con Ellen Allien, eccetera, ma questo primissima fase della tua carriera – diciamo più indie e sicuramente zero dance – facile che la ignorino. Quanto è cambiata oggi Giorgia Angiuli come persone, rispetto a quegli esordi?
Sicuramente molto. Sicuramente, anche grazie alla date che sto facendo in giro per il mondo, sono diventata meno timida e più sicura di me stessa. E quindi riesco a farmi un po’ meno paranoie. Però di tutti i progetti che ho portato avanti in passato, Metùo è uno di quelli a cui sono maggiormente legata. Sai, con We Love, che era qualcosa di molto più scuro, avevo messo da parte la componente ad esempio degli strumenti-giocattoli, di un certo tipo di “colore”, anche se comunque è stato un passaggio importante nella mia crescita. Ad ogni modo, oggi sono meno inquieta, più rilassata e più sicura di me. Più decisa, ecco. Anche perché se ripenso al passato, ai progetti che dicevamo, a quei tempi ancora studiavo e sul mio futuro, beh, ero molto indecisa. Ora invece sento e vedo chiaramente che la musica è diventata il mio obiettivo di vita, ci sono proprio le condizioni concrete per pensarlo. In più, credo di essere un po’ migliorata dal punto di vista tecnico in quello che faccio. Anzi, ora che ho finalmente completato il mio studio non vedo l’ora di potermici chiudere un po’ dentro e lavorare, sperimentare, approfondire spunti ed idee. Metùo, se ci ripenso, era molto ingenuo: non solo come idee sonore, ma proprio io come persona ero proprio un’altra… Non credevo, all’epoca, di poterci campare con la musica, di poterlo trasformare in un lavoro: quindi prendevo tutto un po’ così, ero diciamo così in balia delle onde.
Gli strumenti-giocattolo erano un gioco, insomma. Solo un gioco.
Esattamente!
(Reperti del passato; continua sotto)
Ma sempre in questi dieci anni, quanto sono cambiati i tuoi ascolti musicali invece?
Bella domanda. In realtà, l’impressione è che oggi sia tornata ad ascoltare quello che ascoltavo in passato. Sto ascoltando tantissimo Murcof in questo periodo, e in genere musica classica. I miei ascolti sono sempre un po’ strani: passo per generi musicali differenti e, beh, la techno probabilmente è la musica che ascolto di meno. Ancora di più oggi, visto che il mio contesto d’ascolto più frequente è quando viaggio in aereo: e lì cerco musica che mi culli, mi rilassi, mi dia tranquillità. Mi sto drogando di Murcof, musica classica ed ambient. Sto poi ascoltando molto minimalismo, a partire da Arvo Pärt. Vedi insomma che ascolto musica che poi, apparentemente, non rientra in quello che poi produco, o comunque in quello che suono in giro! Ma la musica classica mi ha sempre affascinato tanto, sempre.
(Uno dei lavori più famosi di Arvo Pärt; continua sotto)
Beh, ora forse sei nella posizione di poter “educare” il tuo pubblico, di poterlo anche un po’ portare dove vuoi tu. Prendendoti pure dei rischi, se necessario.
Hai ragione. Infatti ci sto pensando. Il problema resta sempre il tempo. Ho iniziato in effetti a lavorare a qualcosa di più elettronico, sperimentale, e spero di poterlo completare quanto prima. Io ad anni desidero avere un progetto parallelo che abbia una matrice di questo tipo. La musica dance mi piace tanto, sia chiaro: ha tanta carica, tanta energia, ha questa caratteristica assolutamente fantastica di permetterti di vedere subito la reazione del pubblico rispetto a quello che suoni. Sai, quando suonavo cose tipo quelle di Metùo era difficile capire cosa la gente pensasse veramente, quanto apprezzasse: erano lì, seduti davanti a te, fermi… chissà che gli passava davvero per la testa? Quando invece sei in un contesto dance è tutto più immediato: se la gente di fronte a te balla e magari chiude gli occhi, significa che è presa veramente bene, semplice! Però sì, in effetti mi piacerebbe ora misurarmi di più di nuovo con contesti anche non dance. Magari tornando a fare cose con mio fratello.
Ecco, appunto! Con lui, che è un musicista jazz di valore, hai fatto delle cose davvero belle.
Si spera di tornare a farne! E’ che pure lui è sempre incasinato, tra insegnare al Conservatorio e tour. Però ne stiamo parlando. Speriamo di trovare la quadra quanto prima.
Siete due fratelli che discutono molto, a livelli di gusti musicali?
No! A dire il vero è lui, poveraccio, che mi segue sempre totalmente e con grande interesse. Lui di suo non compone: quando suoniamo assieme, sono io che scrivo le parti per lui. Ma lui è curioso, è molto affascinato da quello che faccio perché tutto quello che faccio, per lui, è un mondo “nuovo”, particolare, diverso rispetto a quello che frequenta di solito. Ed adora questa cosa. Proviamo in realtà sensazioni uguali e contrarie: io sono contenta di potermi misurare con qualcosa di particolare, di diverso rispetto a quello che faccio di solito, interagendo con uno strumentista dall’approccio jazz ma non solo; lui, lavorando sempre con jazzisti, è felice di potersi immergere di tanto in tanto in un contesto radicalmente diverso.
Dai, tornate a fare cose assieme!
Ma anche con Gianluca Petrella, guarda: tante volte si è detto di fare qualcosa assieme. Lui è un grande, davvero, una persona e un musicista fantastici. Ma è il tempo il problema, sempre il tempo. Per me, per lui. Ora poi che sono sempre più in giro anche fuori dall’Europa… figuriamoci.
(Nello studio appena terminato; continua sotto)
Senti: tu consiglieresti ad una persona che si sta avvicinando oggi alla musica di crederci davvero, di pensare che possa diventare la propria vita, di farlo a prescindere? E’ giusto incoraggiarle, le persone?
Me lo chiedono in tanti. Io rispondo sempre allo stesso modo: secondo me, la musica è una passione che deve essere alimentata da tantissimo studio e tantissimo sacrificio. E poi, l’obiettivo non deve essere il successo; l’obiettivo, deve essere la qualità. Sapendo che la qualità non puoi “costruirla” su qualcosa di effimero, che sia una moda, che sia l’aspetto fisico. E’ vero che oggi con i software e le nuove tecnologie è diventato tutto più facile, tutto più alla portata di tutti, ma la differenza continui a farla attraverso lo studio e l’impegno, un impegno profondo e duraturo. Non dico che devi per forza farti anni di Conservatorio, però impegnarti a lungo per padroneggiare tecniche e conoscenze e, poi, crearti pure una voce originale senza scopiazzare quello sì, quello per me è un requisito doveroso. Però sono tempi un po’ così. Recentemente ho sentito dire a una persona che conosco, anche intelligente: “Senti, sono qua con una mia amica, una gran figa. L’aiuti a diventare famosa?”. Mi è scesa una tristezza… In generale comunque la passione non basta, se non ti impegni. E non basta nemmeno se scegli la via più comoda.
Domanda difficile: qual è la traccia di “In A Pink Bubble” di cui sei più orgogliosa?
Uh, non so se riesco a risponderti, sai? Mi piace sicuramente “Last Kiss In Norway”; poi sicuramente “I Shall Never Ever Forget You”, una frase molto semplice dedicata a mia mamma e, guarda, quando la canto riesco sempre ad emozionarmi – chiudo gli occhi ed entro davvero in un’altra dimensione. Però se mi chiedi qual è la mia traccia preferita del disco… onestamente, non lo so. Tant’è che quando mi hanno chiesto di scegliere il singolo ero indecisa, anzi, disperata!, “Vi prego, aiutatemi” (ride, NdI). Lavorare da soli è bello, ma può anche essere molto complicato. Ad un certo punto non riuscivo più ad essere obiettiva verso quello che avevo prodotto. Non riuscivo ad essere lucida.
Se ti dico che in “Pink Bubble” ho sentito echi di “Sun” di Caribou!
Ma magari! Amo Caribou! E quel brano è stupendo. L’ho ascoltato così tante volte che è molto facile che sia entrato inconsciamente dentro di me, ma di sicuro in questo caso non c’è stato nessun rimando intenzionale.
Sempre parlando di Caribou, a che punto siamo nell’integrazione tra strumenti veri ed elettronica, tra linguaggi dance e non dance? E’ già stato detto tutto, e ora si tratta solo di trovare gli equilibri migliori? O ci sono ancora territori inediti da esplorare?
Secondo me c’è ancora abbastanza margine per nuovi esperimenti, nuove scoperte, nuovi stili. E’ che in giro, guarda, credo ci sia molta pigrizia: troppe strade facilitate dall’aiuto decisivo dei software, delle library pre-esistenti. Guarda, proprio recentemente ho visto un pazzo che creava musica amplificando il rumore di una pastiglia di Aspirina effervescente fatta cadere in un bicchiere d’acqua: se solo le vuoi, le possibilità creative sono ancora infinite. Ci vuole giusto un po’ di pazienza, e un po’ di ricerca.