Se c’è una cosa che vale davvero la pena di sottolineare, tra le tante belle riportate dalla chiacchierata che abbiamo avuto con Lorenzo Nada, in arte Godblesscomputers, è quanto lui questa volta abbia deciso di aprirsi e raccontarsi, quasi ad averci individuati come interlocutori privilegiati a cui destinare le impressioni e le emozioni legate ad un anno davvero particolare, sotto tutti i punti di vista. Non è passato molto dall’uscita di “Veleno”, eppure le esperienze forti e formati che si sono susseguite a partire della scorsa estate hanno trasformato il bisogno di raccontare la sua storia – quella sua davvero, quella in cui vuotare il sacco – in un’urgenza artistica irrefrenabile che l’ha condotto al nuovo “Plush And Safe”. “Se questo disco non dovesse piacere me ne farò comunque una ragione perché non avrei potuto fare un disco diverso”, ci ha detto; e allora, se davvero avete voglia di scoprire chi è Godblesscomputers, dovrete divorarlo, lasciandovi trascinare tra gli stati d’animo tratteggiati dalle sue tracce. Ma non è tutto: quello che abbiamo il piacere di presentarvi, in questa lunghissima e davvero intensa intervista, è un ragazzo che ha scelto di mostrarsi senza filtri. Dai, mettetevi comodi.
Cresciuto a Ravenna, adottato da Bologna dopo esser transitato per Berlino, dove è nato il tuo progetto. Sei uno dei rari casi di artista il cui successo è arrivato tornando a casa: cosa ti ha spinto a fare marcia indietro e ripartire dall’Emilia?
In realtà la retromarcia, il fatto di esser tornato a vivere in Italia dopo la mia esperienza a Berlino, è dovuto principalmente a motivi personali; nella fattispecie avevo una relazione a distanza con una ragazza che viveva qui. Quindi dopo diversi anni ho pensato di tornare. Il mio progetto Godblesscomputers è comunque nato a Berlino.
Almeno ne è valsa la pena tornare?
È una domanda complicata: io e lei ora non stiamo più insieme e quindi io mi sono ritrovato a Bologna praticamente per caso, se vuoi, e ora lei vive in un altro stato.
Dimmi che non è Berlino.
No no, comunque io ora sono qui, scegliendo di restare. È un posto in cui mi trovo abbastanza bene, anche se non ti nascondo che l’idea di andare via di nuovo, non avendo nessun vero e proprio legame. Insomma, non mi dispiacerebbe affatto. Bologna resta per ora la base da cui mi muovo, avendo la possibilità di girare molto con la mia musica, e in cui comunque mi piace tornare: è quel posto in cui mi sento al sicuro, ecco. C’è da dire, poi, che non sono uno che viaggia leggero: con tutti i miei dischi, i miei strumenti e tutte quelle cose di cui sento l’esigenza e che devono affiancarmi nel posto dove vivo. Non sono uno di quelli che chiude tutto in una valigia e parte, per cui se dovessi decidere davvero di trasferirmi, dovrà essere un passo ponderato.
In un vecchio post del tuo blog c’è più o meno scritto “ora vado lì, prima che il caos rimescoli nuovamente tutto e mi porti a partire ancora”. Non ci resta che attendere, quindi…
Mah guarda, credo di essere di passaggio qui perché sono una persona che ha costantemente bisogno di stimoli. Al tempo stesso, però, sono un ragazzo che si fa tante domande e questo, talvolta, porta all’indecisione e quindi all’immobilismo. Quando sei una persona molto cerebrale, quando passi molto tempo a pensare, è chiaro che ne hai meno per passare all’azione, per questo, nonostante la fase transitoria che sto vivendo, non so dirti quando sarà il momento di muovermi ancora. È tutto un continuo divenire: non so dirti se sto veramente bene o male qui, cerco solo un equilibrio che non so dove possa arrivare. Quello che posso dire è che non si tratta di una cosa legata strettamente a un posto fisico, piuttosto a noi stessi e ai rapporti che riusciamo a costruire nel nostro quotidiano. Puoi essere nel posto più figo del mondo e comunque sentirti solo, oppure nella provincia più sfigata d’Italia e avere l’amore, ad esempio, o amicizie importanti che ti completano.
In che modo ti ha arricchito Berlino, oltre a rappresentare un raccoglitore di spunti musicali come pochi altri al mondo?
Berlino è una città che negli anni ha accolto una moltitudine di giovani, ragazzi che si sono trovati nelle mie stesse condizioni quando sono arrivato, ovvero quelle di chi “scappa” alla ricerca di un’esperienza diversa, non solo lavorativa. Fa parte della natura del viaggio, no? Si è sempre alla ricerca di qualcosa che, nel mio caso, si è tradotto nel confronto con persone culturalmente diverse. Tutto ciò mi ha portato a stringere legami profondi e forti, che oggi mi portano a ricordare la città non per il suo lato “cool”, nonostante siano tantissime le serate che ho fatto e i concerti a cui ho assistito, ma per le amicizie che ho stretto.
Insomma, non solo la Berlino dei locali.
Esatto. Quello che mi manca di lei è, piuttosto, ciò che ho condiviso con tutti coloro che erano nella mia stessa situazione.
Bologna è storia recente: che te ne pare della città nonostante non viva più il fermento degli anni ’90?
Bologna non è quella del suo massimo splendore, ma nemmeno quella di cinque/sei anni fa, quella decaduta, in cui erano scemati il fermento, i locali e la passione per tutto ciò che era collegato alla musica – questo a detta di chi ci viveva in quel periodo.
Non sei il primo che afferma quanto la città, oggi, sia in netta ripresa rispetto al recente passato.
Insomma, io Bologna l’ho sempre frequentata per via della sua scena hip hop e anche ora, grazie alle sue realtà, ha parecchie cose interessanti da offrire. È una città che negli ultimi anni è stata “svegliata” da persone in gamba che hanno l’intraprendenza di ospitare artisti di spessore internazionale, su tutti vale l’esempio di roBOt. Magari mi ripeterò, ma Bologna è comunque una città attiva di cui è impossibile lamentarsi.
Pensi anche tu che l’offerta, in qualche modo, sia anche “eccessiva”? In alcuni weekend ci sono anche troppe cose.
Sì assolutamente, soprattutto per la dimensione della città: a conti fatti Bologna ha realtà paragonabili a centri come Roma, Milano, Torino e Napoli, pur essendo molto più piccola. Questo per via del suo essere polo universitario e per la sua capacità di diventare la casa di molti che qui, sì, si sono trasferiti per studiare, ma che poi l’hanno scelta per vivere – laureati e non che sono rimasti e hanno iniziato a organizzare serate ed eventi. Questo da la misura dell’energia che la città è in grado di canalizzare e trasformare in nuovo input e stimoli, un indubbio valore che va assolutamente sottolineato. Il “mischione” delle culture è assolutamente un bene.
Alla fine è proprio qui che sei diventato grande: non ci è illecito pensare, infatti, che la tua esibizione a roBOt 06, quando il tuo live inaugurò la parte “notturna” della rassegna, sia stata la tua prima grande prova da artista. In molti, tra cui il sottoscritto, ti hanno scoperto proprio lì. Quali puntate delle tua crescita, un disco o una collaborazione, ci siamo persi prima di quel giovedì di inizio Ottobre e pensi valga davvero la pena di recuperare?
A dire il vero gli step sono diversi e tutti molto importanti, anche al di là del progetto Godblesscomputers che era nato solo un anno e mezzo prima di quel giovedì. Se vogliamo però limitarci a quello, non posso non ricordare con affetto il primissimo EP, intitolato “The Last Swan”, che altro non è di una raccolta di beat prodotti nella mia cameretta di Berlino e pubblicato su Bandcamp quasi per gioco. Un lavoro molto artigianale, davvero, che avevo fatto per me e per le poche persone che leggevano il mio blog.
Ci credi che sei uno dei rarissimi casi di artista che cita il suo primissimo lavoro spendendo queste parole? Alcuni addirittura rinnegano le loro uscite degli esordi.
Per come la vedo io, non si può rinnegare nessuna tappa del proprio percorso. Io sono legatissimo a tutto ciò che ho fatto, altrimenti sarebbe come cancellare una parte di ciò che sono. Stesso discorso vale per la musica che ho ascoltato da ragazzino: se c’è qualcuno che apprezza la mia musica oggi, è perché ci sono stati tanti tasselli prima.
…tra cui i Blink 182, magari!
Io non ho mai avuto la fase punk, però non nego di aver iniziato ad ascoltare l’hip hop grazie ai primi pezzi degli Articolo 31 e quella roba la. Ero ragazzino e per me erano il top. È chiaro che crescendo, se sei una persona minimamente curiosa, vai a scavare e a scoprire che lì sotto c’è un universo; l’importante, però, è non far finta che certi passaggi non siano mai stati compiuti.
Possiamo chiamarli “passaggi obbligati” per chi, come noi, è cresciuto negli anni ’90.
Certo. Mi piacevano gli scratch e tutto quel mondo…era roba che mi arrivava dritta nello stomaco. Non parlo degli Articolo 31, ma dell’hip hop in generale: il groove, i campioni, le batterie e il basso. Loro mi hanno formato e cresciuto.
Questa è una cosa molto naturale: prima della tecnica, nell’arte, c’è sempre l’emozione. Per questo una disco ben fatto, ma che non trasmette nulla non passerà mai alla storia.
Assolutamente, questo ragionamento mi fa pensare a una chiacchierata che ho fatto con una mia amica ieri sera. Parlavamo delle emozioni che la musica trasmette. Bene, lei sostiene che nelle grosse produzioni le sensazioni che i lavori di gruppi come i Coldplay sono in qualche modo artefatte in quanto frutto di meccanismi che ormai hanno poco a che vedere con la musica. Sostanzialmente lei afferma che questi artisti non sono più “puri” perché sono stati inserirti all’interno di dinamiche che li hanno portati a trasformarsi in aziende vere e proprie. Per questo, tutto ciò che trasmettono non è più “autentico”, nel senso di figlio della loro urgenza di comunicare attraverso la musica. Questo è un pensiero che ho condiviso a lungo, ma da cui ora mi sto allontanando: ok, alla base di tutto possono esserci dei meccanismi economici ed è chiaro che tutto viene studiato e preparato nel dettaglio a tavolino, ma se alla fine il disco riesce a trasmettere qualcosa non deve interessarci come e perché è stato scritto. Se una roba “arriva”, arriva e basta. Capisci?
È chiarissimo quello che stai dicendo. È giusto e sacrosanto interrogarsi, ma alla fine bisogna porre un argine alle pippe mentali sennò non se ne viene a capo.
Il fatto è che resta molto bello parlare di musica e di tutto ciò che ci sta intorno, ma la verità è che spesso questi discorsi portano raramente da qualche parte. Spesso parliamo di realtà discografiche gigantesche che sono giustificate da vendite e da un volume di affari inimmaginabile. Io, grazie a Dio, non sono ancora a quei livelli e posso permettermi di fare la musica che sento. Non lo so come potrei vivere l’inserimento all’interno di queste dinamiche, un sistema che genera aspettative e che, al momento, posso dire di conoscere solo da lontanissimo. È facilissimo dire “siamo duri e puri”: io ora so che persona sono e che cosa sto facendo, però la verità è che la nostra vita è in continua mutazione e il nostro compito è interpretare tali cambiamenti e adattarci.
Ti rendi conto che quanto mi stai dicendo in qualche modo legittima il pensiero della tua amica? Allora è vero che un certo tipo di musica è poco sincera!
Ma io non le do torto, solo che in questo caso il discorso si sposta dal fruitore a chi la musica la fa. Il discorso è che il fenomeno può essere visto da due punti di vista diversi e questo non va dimenticato.
Diciamo che per ora speri di scongiurare la figura dell’artista-impiegato, che produce in modo “industriale”.
Esatto, a me la cosa che diverte davvero è creare un mondo mio e raccontare. Voglio citare un aneddoto di quando ero bambino: da piccolo passavo le ore a inventare personaggi e storie, che non è più ne meno di quello che sto facendo ora con la musica attraverso un altro linguaggio. I suoni sono i miei nuovi personaggi, attraverso i quali riesco a buttare fuori un sacco di roba che ho dentro e con i quali riesco a ricreare degli scenari all’interno dei quali mi sento al sicuro. Potrei farlo se non fossi totalmente libero?
No, è chiaro. A tal proposito vorrei chiederti: “Veleno”, uscito lo scorso anno, ha sancito la tua definitiva consacrazione, almeno agli occhi della critica e degli appassionati. Questa diversa considerazione in che modo ha cambiato il tuo approccio alla scrittura musicale? Possiamo dire che da quei consensi sia nata una consapevolezza tutta nuova?
Con “Veleno” ho capito di essere riuscito a trasmettere quanto speravo di comunicare. Si tratta di una raccolta di brani strumentali di musica elettronica in cui, attraverso i suoni, cerco di sottolineare alcune sensazioni. Il fatto che le persone abbiano percepito questa cosa non fa di “Veleno” l’album della consacrazione, piuttosto il lavoro grazie al quale ho emozionato davvero qualcuno. Ho pensato: “ma allora le mie cose arrivano, e se arrivano agli altri vuol dire che sto andando nella direzione giusta”. Mi sono reso conto della potenza della musica e di come anche io, nel mio piccolo, sia all’altezza delle mie ambizioni.
Il tuo linguaggio, quindi, è stato interpretato nel modo corretto.
Guarda, trattandosi di storie che spesso solo io conosco, mi focalizzerei sulle sensazioni. Mi piace il fatto che chiunque possa leggere nella mia musica ciò che vuole, pur cavalcando le sensazioni che intendo trasmettere. È bello…
Cosa? Che non stai parlando da solo, ma che qualcuno è lì ad ascoltarti davvero?
In realtà io faccio dei gran monologhi quando suono, ma se questi monologhi vengono ascoltati da qualcuno e quel qualcuno prova qualcosa, per me è estremamente gratificante…molto umano! Io faccio musica da quando sono piccolo, spippolo con gli strumenti da sempre e questo senza una motivazione precisa. Quando sei ragazzino fai le cose semplicemente seguendo l’istinto, ma poi a un certo punto ti rendi conto se sei riuscito o meno a costruire qualcosa. Se sei riuscito a “toccare” anche solo una, due o tre persone, beh…allora cambiano le carte in tavola! Tutto questo mi aiuta ad alzarmi bene la mattina e ad essere felice, indipendentemente dal giudizio tecnico e da quello che la critica può dire della mia musica.
“Plush And Safe” è stato scritto e prodotto a breve distanza dalla raccolta precedente. Se “Veleno” è stato definito un lavoro in qualche modo autobiografico, il nuovo album riesce ad essere molto più intimo e personale. Cosa ti ha spinto a metterti così a nudo?
Ciò che ha influito sono state le esperienze che ho accumulato quotidianamente e ciò che è cambiato nella mia vita, a partire da alcuni rapporti di cui sono rimasti solo i ricordi. Tutto questo ha fatto sì che io scrivessi il disco che ho scritto. La differenza tra i due lavori sta nel fatto che, mentre “Veleno” è una favola di un uomo che vive in questa metaforica giungla velenosa, in “Plush And Safe” ci sono veramente io. Si tratta di un disco legato veramente alla mia di storia: ogni traccia parla di un momento specifico e di istantanee della mia vita. Parla di crescita, di amore, di malinconia, di ricerca e dell’irraggiungibile. Guada, si è trattato di un anno molto difficile, semplicemente, un anno in cui sono cambiate tantissime cose e quello che ho fatto è stato mettere in musica ciò che ho vissuto sulla mia pelle. È per questo che ti dico, in totale sincerità, che se questo disco non dovesse piacere me ne farò comunque una ragione perché non avrei potuto fare un disco diverso. Ne vado davvero molto fiero.
Dolore, abbandono, viaggi solitari, relazioni difficili, storie che finiscono, rapporti vacui e solitudine; ma anche tanta dolcezza. Che uomo sta diventando Godblesscomputers in questi mesi? Immaginavi di diventare un artista capace di tanta introspezione quando hai lasciato il tuo vecchio gruppo, “Il Lato Oscuro Della Costa”?
In realtà no. Sto imparando a conoscermi attraverso le cose che mi succedono, giorno dopo giorno. Non si tratta di un percorso esclusivamente interiore, da qui il titolo “Plush And Safe”, che è un rimando all’ossessione degli esseri umani per il controllo, per il confort e per la sicurezza legata alla propria “bolla”, la quale non porta né a una vera crescita, né alla profonda conoscenza di sé stessi. Mentre scrivevo l’album mi sono successe delle cose ho non ho fatto altro che sottolineare con i brani che lo compongono, per questo, a volte, ho la sensazione di conoscermi davvero attraverso ciò che produco. Mi piace questa cosa di crescere insieme alla mia musica e che al suo interno io sia riconoscibile. Tornando alla domanda che mi hai fatto, la dolcezza di cui tu parli penso possa essere ricondotta a quel velo di malinconia “speranzosa” che pervade le tracce.
Volevo giusto dirti che “Plush And Safe” lascia in bocca il sapore agrodolce delle storie che ci vedono sconfitti, ma che riconosciamo come passaggi fondamentali per il proseguo della nostra crescita…
È così, è esattamente così.
Il titolo è una quasi citazione di Basquiat, il tuo modo per mettere il contrasto tra la ricerca della sicurezza e del controllo e la presa di coscienza dell’impossibilità della cosa. Alla fine, secondo te, qui chi è ad avere la meglio? Le malinconiche prese di coscienza, sottolineate dalle atmosfere sospese di alcuni passaggi, o la determinazione rappresentata dal beat a tratti frenetico e incisivo?
Mah, io non parlerei in questi termini, il disco piuttosto mira prevalentemente al conflitto interiore che ci affligge. Mi spiego: il concetto è ben rappresentato dalle parole di Basquiat, “Plush safe he think”, la cui poesia non va sporcata con una traduzione letterale. Il cuore di queste poche parole riesce a rappresentare l’ossessione degli esseri umani per il controllo e per la sicurezza, una vera e propria lotta che va legittimata rispondendo a questa domanda: per cosa stiamo combattendo? Intorno a noi succedono un sacco di cose, c’è un sacco di energia in movimento, persone che agiscono e decidono in piene autonomia e quindi il nostro vero obiettivo non può essere che adattarci. Il disco, tornando a me, mette in mostra il caos che ho dentro e che si traduce col desiderio di essere ordinato e metodico, come contrappunto all’ineffabile.
Sulle nostre pagine definisti il tuo genere “hip hop, elettronica e dub”, e anche “legno, metallo e microchip”. Continui a pensarla così anche con il nuovo album? A noi, forse per la sua “sensibilità”, sembra invece un lavoro estremamente umano.
Sì, questo è un discorso molto interessante che si lega bene alla mia idea di musica elettronica. Se da un lato è legittimo etichettare la musica, trovando un genere che sia per chi la ascolta un indice più o meno preciso (questo vale anche per me), dall’altro è vero che chi la musica la fa conosce il suo processo creativo, il suo background e ciò che in fondo vuole trasmettere. In quest’ottica qualsiasi etichette è limitante. Quindi, quando qualcuno me lo chiede, io rispondo che la mia è “musica elettronica”…
…che è come non dire nulla!
Beh sì, anche perché di base in Italia la musica elettronica è associata a quella da discoteca.
Con buona pace di Battiato, per dire.
Mi padre è un fan, ti lascio immaginare quanto abbia lo abbia ascoltato. Comunque proprio per questo occorre fare chiarezza sulla musica elettronica: cos’è? Musica fatta con…? Sintetizzatori e drum machine, per esempio, e i computer (oggi). Io per esempio, pur rispettando a molti miei illustrissimi colleghi che nutrono un amore viscerale per l’hardware analogico, non ricerco il suono distintivo di questa o quella macchina perché ciò che ho a cuore io è mischiare la strumentazione (anche digitale) con i campionamenti e i field recordings. Mi piace pensare che la mia musica sia più spostata sull’uomo che sulla macchina, attraverso una miscela, un equilibrio che siano in qualche modo un prolungamento di me stesso.
Quindi la definizione che ci hai dato la scorsa volta è piuttosto grossolana. Tutto quello che ci hai detto è vero, ma di base c’è l’uomo dentro.
Sì, è chiaro. Il fatto è che la gente tende a pensare la musica elettronica come un genere algido, mentre quando riascolto i miei lavori mi accorgo quanto questi riescano ad essere caldi ed organici. Dico questo nonostante Godblesscomputers sia nato a Berlino, la culla della techno europea.
A proposito, non c’hai mai pensato a buttarti in quel mondo?
No, ma non fraintendermi perché a me la techno piace, soprattutto quella di stampo detroitiano.
Chiaro: è quella più fisica e più vicina ai temi “sociali” dei giovani, come l’hip hop.
Infatti tra la techno e l’hip hop esistono dei punti di connessione, come la figura del produttore, colui che si rinchiude nel proprio studio e si mette a fare musica.
Torniamo al nuovo album. Hai definito “Closer” il brano più bello che tu abbia mai scritto; citando le tue parole: “parla di una relazione difficile, di due persone che si cercano senza mai trovarsi”. C’è bisogno del male d’amore per riuscire a raccontare storie toccanti?
No, io non credo, se si vogliono scrivere storie toccanti si può parlare di tantissime cose. L’amore è un qualcosa a cui gli essere umani sono abituati a confrontarsi nella propria vita, perché l’amore…l’amore è impossibile da schivare. Chi ci riesce viene definito “fortunato” dai cinici, per la possibilità di vivere con maggiore disincanto, ma questo discorso non riguarda me: io sono una persona che vive l’amore molto intensamente e che soffre in modo particolare quando questo finisce. Resto ossessionato dai ricordi e da ciò che non potrà più esserci perché l’amore, quando ci vai a sbattere contro, sia nel bene che nel male, è un’esperienza forte. “Closer” è un brano che parla di questo, di due persone che si amano, ma che non riescono a ricongiungersi. È un brano che ho scritto questa estate, il primo dopo l’uscita di “Veleno”, e che ancora mi emoziona quando lo riascolto, nonostante l’abbia fatto tante volte. Ci sono delle regole strane nella musica, quando la componi: magari sei lì a mischiare le tue cose, i tuoi suoni e a un certo punto la somma delle parti è molto migliore dei singoli addendi…
…è il caso in cui uno più uno più uno fa cinque!
Esattamente, “Closer” è questa roba qui, un lavoro che mi ha fatto dire “oddio l’ho fatto io? Mi piace!”. Vedi, so che andando avanti farò le cose meglio, crescendo migliorerà sicuramente la tecnica, ma quello che c’è dietro brani come questo non è detto che rispuntino fuori col tempo.
Il legame che si instaura con la musica, e con l’arte in generale, va oltre la tecnica, ma dipende molto dal tipo di esperienze rievoca.
Esatto, esatto.
Quasi a voler cercare delle sponde in grado di assecondare la tua sensibilità, all’interno di “Plush And Safe” troviamo solo le collaborazioni di persone a te care – su tutte Francesca Amati che presta la sua voce a “Clouds” e “Light Is Changing”. Perché non hai provato ad aprirti a collaborazioni più coraggiose? È per via dei temi trattati al suo interno?
Sì, è esattamente questo il punto. Non ti nego che è una cosa a cui ho riflettuto molto prima di scrive questo disco, e anche durante la sua stesura. L’idea di collaborare con altri artisti di cui ho stima e che ho conosciuto suonando in questi mesi è stata messa da parte perché “Plush And Safe” è un album talmente autobiografico che desideravo affidarmi solo a persone che mi conoscono molto bene. Una sorta di famiglia, no? Infatti Francesca è una di queste, un’artista con la quale ho già lavorato in passato e che ha una sensibilità musicale molto rara come dimostra il suo bellissimo progetto Comaneci. Coinvolgendo altri tipi di artisti, oltre a snaturare il messaggio dell’album, avrei rischiato di far passare il disco come una raccolta di pezzi “fighi”, ma privi di una storia ben precisa.
Dai, c’è sempre tempo per fare la raccolta delle stelle amiche.
Sì, certo! Usciranno anche i remix…
“Yuan” in “Veleno” e “Abisso” in “Plush And Safe” sono, grazie all’inserimento di voci di bambini, un chiaro rimando all’infanzia. Un gancio simile non può essere un caso. Tu che bambino eri? È un caso che proprio “Abisso” rappresenti uno dei brani più sereni dell’album?
Ero un bambino tormentato, in realtà, un bambino molto solitario che si divertiva a passare il suo tempo a inventare storie. Questa è una cosa che faccio ancora oggi, come detto, attraverso la musica. Ma le voci e i campioni non sono l’unico legame con la mia infanzia: in molti brani inserisco suoni, campanellini ad esempio, con cui provo a far riemergere un periodo comunque bello della mia vita. È lì che ognuno di noi si confronta con la creazione, basta pensare a quanto disegniamo da piccoli! Io giocato tanto da bambino e l’ho fatto fino a quando non mi sono reso conto di essere cresciuto troppo, a quel punto ho dovuto reinventarmi.
Hai dovuto inventare il “gioco da grande”.
Sì, la musica. Io ho iniziato, tra l’altro, dopo aver visto su MTV questo dj che scratchava in un modo incredibile. “No no, devo assolutamente imparare anche io!” , ho pensato, così ho iniziato a passare i pomeriggi a casa dei miei genitori con il giradischi a cinghia di mio padre. Prendevo i suoi dischi e provavo e provavo…chiaramente non veniva fuori nulla di quanto avevo sentito e, dopo aver spaccato un paio di puntine e dopo aver rigato quasi tutti i suoi vinili, mio padre e mia madre si sono decisi: “Senti, se vuoi fare davvero questa cosa, ti regaliamo i giradischi a patto che tu vada bene a scuola”. Così mi comprarono i primi piatti della Gemini, che mi ricordo impiegarono tre mesi prima di arrivare nel negozietto della mia città, e così è successo che, di punto in bianco, mi sono ritrovato ad abbandonare tutti i miei giochi (gli skater avevano intanto sostituito le navicelle spaziali) per dedicarmi ai giradischi e al mixer. Non sapevo assolutamente cosa e come fare, fatto sta che ho iniziato a registrare cassettine che regalavo ai miei amici. Tutto in modo autodidatta…ricordo quel periodo della mia vita come uno dei più creativi in assoluto!
Poi?
Poi ho capito che non mi bastava più e ho iniziato a fare musica mia con un campionatore Akai che mi prestò un ragazzo di Ravenna che non sapeva farlo funzionare. Così, con i pochi vinili che avevo, ho iniziato a fare i miei primi beat. In quel periodo, poi, sono entrato in contatto con i ragazzi de “Il Lato Oscuro Della Costa” con cui ho iniziato ad esibirmi e a incidere demo. In buona sostanza non c’è mai stato uno stacco netto tra a parte in cui “giocavo” a quello in cui ho iniziato a fare musica con costanza. È stato tutto un continuo e sia in “Yuan” che in “Abisso” c’è l’espressione di tutto questo.
A proposito del tuo passato di scratch, cutting e “Il Lato Oscuro Della Costa”, torniamo all’hip hop: immagini di riaprire quel capitolo della tua vita e, magari, metterti a produrre degli altri artisti?
Mi piacerebbe e, per certi versi, posso dire di avere delle collaborazioni aperte in tal senso. È una cosa che mi piace molto fare e che, sì, mi stimola davvero molto. Lo sto facendo, chiaramente, a modo mio, così che ci sia coerenza con quanto sto producendo come Godblesscomputers.
Cambiamo completamente argomento: è evidente come il tuo blog, specie scorrendo i post di qualche tempo fa, abbia rappresentato per te non solo un foglio bianco dove appuntare le tue più recenti esperienze, ma anche una vera e propria valvola di sfogo. Insomma, su quelle pagine sembra esserci soprattutto Lorenzo più che Godblesscomputers. A partire da metà Marzo dello scorso anno il silenzio: cos’è successo?
È successo che sono sono cambiate diverse cose, tra cui il fatto che la musica è diventata il cuore del progetto Godblesscomputers che, agli inizi, è nato un po’ come un diario di bordo. Via via, come detto, la musica ha occupato sempre più spazio nella mia vita, andando ad assorbire tutto il mio tempo. Questa, però, non è l’unica motivazione: ad incidere molto sulla mia scelta c’è il fatto che, mentre prima a seguirmi erano in pochi, per lo più gli amici che volevano avere un contatto a distanza con me mentre ero a Berlino, ora non ho idea di chi possa leggermi e il fatto di “darmi in pasto” è qualcosa che in verità non mi fa sentire a mio agio. Poi mi fai notare una cosa a cui non penso mai: lì ci sono ancora molte cose che forse sarebbe meglio togliere, facendo un po’ di pulizia e lasciando la pagina web solo per le informazioni legate alla mia musica.
Hai paura che di essere troppo esposto, quindi?
Ma no, è che preferisco pensare che chi ha voglia di entrare in contatto con me lo faccia per i miei dischi.