E insomma, anche quest’anno sono venuti fuori i vincitori dei Grammy Award, dopo una scintillante cerimonia al Madison Square Garden di New York. Anche quest’anno giornali generalisti si accorgono della musica, e dedicano un minimo di attenzione ai cosiddetti “Oscar della musica”. E va bene, evviva. Ma sinceramente, se la musica la si segue con un minimo di attenzione e di partecipazione la faccenda dei Grammy Awards dovrebbe essere presa né più né meno che come la Top 100 di Dj Mag: una simpatica baracconata, buona per creare un evento frizzi, lazzi e cotillons, ottima per certificare chi lavora meglio a livello di industria e di business plan, quasi nulla per quanto riguarda l’interesse musicale.
Lascia sinceramente perplessi vedere persone anche molto legate ad un’analisi e ad un racconto approfondito di quello che succede nel rap, nell’elettronica, nel rock alternativo dare ancora un minimo di credito ad un Award così smaccatamente superficiale e vuoto, da anni (da sempre?) incapace di dare dei premi che fossero un minimo interessanti al di là della certificazione, per le categorie più importanti, “Bravo, continui a essere un sacco famoso! Bella lì!”.
Che dire di un premio che, nel 2018, elegge come Best Dance/Electronic Album “3D – The Catalogue” dei Kraftwerk? Un premio così lo sapeva dare anche la casalinga di Voghera. Massima stima per i Kraftwerk – il gruppo di musica elettronica che conoscono e citano anche quelli che ascoltano solo Gianni Morandi e Castellina Pasi – ma vogliamo veramente dire che nel genere la release più interessante è stato un live di brani sentiti e risentiti (e manco particolarmente riarrangiati) da trent’anni e passa? Davvero, che credibilità può avere un Award del genere, secondo voi? Se non quella di certificare “chi è più famoso”. Ah be’, grazie mille. Tra l’altro pure sbagliando, perché oggi nell’elettronica di più famosi e più rilevanti ce ne sono tanti, di nomi.
Perché davvero, siamo stufi di vedere ogni anno celebrato un evento che porta avanti e propugna orgogliosamente e con grande sfarzo le logiche più stantie dell’industria dell’intrattenimento, quelle che vogliono solo l’”usato sicuro”, che non rischiano e non avanzano, che aspettano siano gli altri ad avere le intuizioni giuste e poi, solo poi, solo quando il pubblico ha dato il benestare acquistando, guardando i video o ascoltando gli streaming, arriva allora lì a certificare e premiare (prendendo però pure spesso fischi per fiaschi).
Perché sì, anche in una delle rare volte in cui il titolo di disco dell’anno è andato al meno scontato dei nominees (2008, vincitore l’album tributo di Herbie Hancock e Joni Mitchell, anche se pure Herbie Hancock non è che sia proprio un nome sorprendente e di primo pelo, e per giunta lo premi per uno dei suoi album più “pop”), vai a guardare le altre categorie e scopri che Amy Winehouse si porta a casa il titolo di “Miglior artista esordiente”. Esordiente di cosa? Capiamo che nella mentalità imperialistica americana se tu scopri Amy Winehouse con “Back To Black” vuol dire che prima di “Back To Black” non c’era nulla, ma sinceramente se ti picchi di portare avanti il premio musicale più prestigioso del mondo forse lo dovresti sapere che che cinque anni prima, 2003, aveva fatto uscire “Frank”, prodotto da pezzi pure abbastanza grossi e con un riscontro nemmeno piccolo.
I Grammy Awards sono interessanti tanto quanto un giornalista sportivo che si dichiara il più competente del pianeta, il più informato ed autorevole, e poi, tra squilli di tromba e rulli di tamburo, ti annuncia la rivelazione che “Il giocatore più forte al mondo oggi è Messi”
I Grammy Awards sono interessanti tanto quanto un giornalista sportivo che si dichiara il più competente del pianeta, il più informato ed autorevole, e poi, tra squilli di tromba e rulli di tamburo, ti annuncia la rivelazione che “Il giocatore più forte al mondo oggi è Messi”: grazie al cazzo, quello lo sapevo pure io (toh, al massimo possiamo discutere se Cristiano Ronaldo è meglio). A cosa serve un premio del genere? A chi piace?
Perché sì, piace. Molti pendono dalle labbra dell’industria, molti pendono dalle labbra del pop più “artefatto”, ancora adesso; e ci secca vedere che fra questi ci sono anche persone che avrebbero gusti e background molto più sofisticati ed approfonditi, ma per la parola d’ordine del “Basta snobismi!” in realtà si cade in uno snobismo al contrario, per cui diventa interessante seguire le gesta dei vari giganti&dinosauri che infestano un mondo dove a comandare sono ancora vecchie dinamiche, vecchie idee, vecchi automatismi. Lo si fa all’inizio per il LOL, per il gusto del trash, poi alla fine se ne avviene avviluppati e si ragiona seriamente, con categorie d’analisi da critica seria, su faccende che invece sono solo delle macchine da guerra all’inseguimento del gusto “medio”, della trasgressione che non trasgredisce, della creatività che non innova, dell’innovazione che non cambia nulla. Questo in un gioco che finisce col confondere, alla fine, Bruno Mars con James Brown o Marvin Gaye. Bruno Mars. Lo ripetiamo: Bruno Mars.
Se cercate dove sta la musica, dove sta la musica “viva”, non è di sicuro che la troverete ai Grammy Awards, sappiatelo. Se vi interessa solo chi ha venduto più dischi, chi conta di più nel sistema, chi nasce “sotterraneo” ma dal sistema è addomesticabile e, infine, che vestiti hanno indossato gli ospiti delle prime file, accomodatevi. Che Kendrick Lamar sia uno dei trionfatori dei Grammy Awards 2018 a noi pare una notizia che, per Lamar, sta a metà tra l’irrilevante e il negativo: un premio del genere farà bene se si vuole avanzare nella classifica di Forbes degli uomini più ricchi del pianeta, ma rischia davvero di essere un “bacio della morte” se si vuole essere un artista con delle cose nuove, profonde ed incisive da dire.