Forse, per una volta, accantoneremo finalmente tutti il cinismo. Forse davvero non ci capiterà, in queste ore, di leggere gente che si lamenta per l’eccesso di cordoglio in giro per i social. Che poi è paradossale succeda proprio per David Bowie, visto sotto una luce particolare: perché l’aria blasé, di sorridente superiorità sulle bassezze terrene quotidiane, è una delle luci attraverso cui lo si può aver visto risplendere, negli anni. Ma è solo una. Una fra tante. Ed in realtà più che di blasé e cinismo, bisognerebbe parlare di eleganza. Ecco, eleganza. Soprattutto l’eleganza del Bowie meno glam, meno rock, meno icona della trasgressione o dell’ambiguità – l’eleganza insomma del Bowie degli ultimi anni. Quella meno celebrata, ma forse la più importante.
Quell’eleganza che oggi fatichiamo sempre di più a trovare in giro. Fatichiamo a trovarla nel mondo: in una classe politica – soprattutto in Italia? – sempre più sguaiata; fatichiamo a trovarla in un’economia globale sempre più schiava della bulimia della finanza (finanza che Bowie sfruttò beffardamente e con classe, quotando se stesso in borsa); fatichiamo a trovarla nell’esaltazione del lusso e delle differenze crescenti fra ricchi e poveri.
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La stiamo facendo troppo grande? Restringiamo allora il campo alla musica: fatichiamo a trovarla nel caravanserraglio del pop mainstream quando si fa troppo baraccone son-et-lumiere e poco sostanza; fatichiamo a trovarla nell’hip hop che si è svenduto ai fatturati e ai rotocalchi; fatichiamo a trovarla in una musica dance che cerca sempre solo il peak time, il drop, l’esaltazione o, al contrario, il massimo rendimento col minimo sforzo e un uso sistematico delle formule precostituite (sì, non stiamo parlando solo di EDM).
Le formule precostituite, da un certo momento in avanti, quando ha smesso di crearle lui di suo e ha iniziato ad ispirarsi a quelle già pre-esistenti, Bowie le ha sempre prese però reinterpretandole, mettendoci il suo marchio. Lo ha fatto ad esempio in “Let’s Dance”, che sulla carta era una cosa indigeribile (Bowie epico e glam e Nile Rodgers funkettone? Eh?!); lo ha fatto in “Little Wonder”, che se da un lato sceglieva di cavalcare l’allora sfavillante filone jungle (una scelta in teoria paracula, in quel momento), dall’altro lo faceva con un piglio nobile e stiloso e personale che più non si può (…e con un video affidato a Floria Sigismondi, non a qualche collaudato esperto di patinature come invece oggi fanno tutti). E poi, poi ci sono gli ultimi dischi, quelli del ritorno dopo una malattia che – ora si sa – non era invece stata debellata realmente: “The Next Day” uscito nel 2013, “Blackstar” uscito in questi giorni. Con quest’ultimo evidentemente consapevole di quello che poteva essere l’esito, di quella che poteva essere la fine. Dischi bellissimi, in ogni caso. Di alta qualità. Una qualità che sembriamo aver dimenticato, come uso, come pratica nobile e necessaria da pretendere sempre&comunque: perché è una qualità che non ammicca, non cerca l’effetto facile, non cerca il suono radiofonico ma non cerca nemmeno di titillare i gusti e i riflessi pavloviani dei fan storici (quanti artisti di grane successo, da un certo momento in poi, sono diventati il monumento di se stessi? E lo sono diventati non solo perché lo volevano loro, ma perché lo pretendevano i fan?).
Ecco. Forse è questo il motivo per cui il cordoglio per Bowie è così trasversale. Dove perfino un collettivo accigliato e che non te ne perdona una come Underground Resistance (Underground Resistance, capito?) ha postato subito uno status accorato. Bowie era unico. Era magico. E non tanto, per quanto ci riguarda, nella fase della carriera in cui si è costruito il suo mito (fase bella, affascinante, incredibile, ma in qualche modo svolta secondo i manuali dello “stardom making” dell’epoca); ma anche e soprattutto per gli ultimi capitoli della sua vita e della sua carriera, ecco. Eleganza. Eleganza in controtendenza rispetto a quello che gli accadeva attorno, che accadeva nel mondo. Eleganza che assolutamente non gli impediva di essere tagliente (…caro David, quanto ti avremmo abbracciato quando dicesti ai giornalisti che Celentano era un “idiota”, reduce da una partecipazione ad uno show televisivo del Molleggiato: giusto per fare un esempio). Eleganza che non significava essere aristocraticamente lontano dal presente, dagli stimoli più nuovi, dalle avanguardie; significava, invece, approcciarvisi col giusto stile e la giusta misura, senza voler fare la figura del giovane ad aeternum e senza restare incastrato nella leggenda di se stesso (…ad esempio, lo vogliamo dire che tutto quel filone che va dai Rolling Stones a Johnny Hallyday passando pure per un Vasco Rossi è un filo ridicolo, se uno si toglie di dosso il filtro emotivo-mentale da fan e/o da feticista?).
Una delle cose che amiamo di più della musica elettronica, nel suo complesso, è aver spazzato via negli anni ’90 la retorica rock del “personaggio” eccessivo, sfrontato ed irraggiungibile, attorno ai propri artisti di maggior successo. Underworld, The Chemical Brothers sono gente tranquilla, che se l’incontri agli angoli delle strade manco li fili. Aphex Twin lo abbiamo incontrato più volte giù da un palco, ed era o appoggiato ad un bancone in un affollatissimo club barcellonese a bere birra, o in giro a pisciare il cane, o in un campo a smontare una tenda da campeggio. Ma anche i dj superstar di oggi: sì, fioccano richieste di alberghi di un certo tipo, il saké deve essere così e lo champagne cosà, comunque il “viver bene” è preteso e ricercato, ma nulla in confronto agli eccessi pacchiani del pop e del rock (quelli che la MTV americana e di riflesso le varie consociate in giro per il mondo continuavano a sbandierare come fossero medaglie al valore, la villa di Tizio, le spese di Caio…).
Bowie ha fatto una cosa incredibile, che pochissimi possono vantare di aver fatto. E’ stato uno degli attori principali del “circo”, un “circo” potentissimo ed egemone ancor oggi, ma ha saputo uscirne progressivamente con stile e gusto, senza perdere nulla in carisma. E’ un caso di “decrescita felice”, volendo. Non ha rifiutato le mode nella vita, sia chiaro; anzi, spesso le ha create, o comunque portato a magnificenza e popolarità siderale; ma ha saputo “scenderne” al momento opportuno, senza star lì a pensare di massimizzarne i risultati e a spolparle fino all’osso. Forse è (anche) per questo che oggi siamo tutti dispiaciuti ed affranti, anche chi Bowie lo ha sempre seguito più o meno superficialmente: siamo tutti più poveri ora, ci ha lasciato una delle persone che più e meglio ci stava insegnando come vivere con stile, eleganza ed intensità ogni fase della propria vita, ogni dinamica che ci possa circondare in questa realtà spesso troppo “aumentata”, spesso troppo sfruttata, spesso troppo inflazionata.
Grazie, David.
Un vecchio omaggio dei 2 Many Dj’s a David Bowie.